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Fenice: "Un ballo in maschera" fra razzismo e bella musica

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Che risposta il mondo di oggi è in grado di dare alla domanda di significato che l’uomo scopre nel proprio cuore e deve esprimere come può e sa, balbettando, inciampando, sbagliando? Una risposta insensata, vuota, una non risposta: una risposta, per così dire, piena di vuoto. Può essere questa, considerate anche le dichiarazioni dei due artefici principali, la chiave di lettura della variopinta, fantasmagorica, spettacolare messinscena del “Mefistofele” di Arrigo Boito che la Fenice offre in questi giorni per la regia di Moshe Leiser e Pautrice Caurier, le scene di Moshe Leiser, i costumi di Agostino Cavalca, il disegno luci di Christophe Forey, i video di Etienne Guiol, la coreografia di Beate Vollack. In questo spettacolo, il mondo di oggi, con le sue attrattive allettanti in apparenza ma in realtà vacue fino all’inconsistenza, è incarnato da Mefistofele, volgare ed arrogante piazzista di un ingannevole paese dei balocchi. Faust, invece, composto e borghesemente vestito, quasi un sosia del Thomas Mann austero e dedito al lavoro come ce lo restituisce l’iconografia ufficiale, rimane ciò che è sempre stato e sempre sarà: l’uomo alla perenne ricerca del significato di sé e della vita. Non per niente la scena iniziale dell’opera, il prologo in Cielo, rinuncia alle atmosfere metafisiche per essere collocata al centro di un palcoscenico completamente vuoto, in cui siede solitario il diabolico protagonista: metafora patente di ciò che egli rappresenta, cioè la solitudine ed il nulla, qui intese non tanto come espressione di un male assoluto, ontologico, ma piuttosto come emblema del vuoto – grottesco, divertente anche, come la regia evidenzia, ma alla fine disperante – che il mondo di oggi offre in risposta al “perché?” esistenziale dell’uomo. E non per niente Mefistofele avvia Faust al suo viaggio incantato ed illusorio non attraverso il mantello che fa volare nell’aria, come da libretto, ma iniettandogli una sostanza che è ovvio supporre allucinogena. Insomma, alla domanda di significato che Faust, a nome di ogni essere umano, avanza, il mondo di oggi risponde offrendogli droga, cioè ciò che distrugge la natura umana da cui quella domanda proviene. Dal momento dell’iniezione, tutto ciò che capita a Faust è quindi illusorio, una fantasia malata ed eccitata. Un’anticipazione di questo trip si ha nello stadio gremito di tifosi ipercinetici che sostituisce la festa della domenica di Pasqua a Francoforte: una ricostruzione fantasiosa e coloratissima di quel rito collettivo che evidentemente non ha bisogno della forza artificiale dello stupefacente per far perdere la testa, bastando il suo influsso stordente e massificante. Da qui in poi, quindi, è tutto falso, tutto prodotto della fantasia di Faust alterata da Mefistofele: il boschetto illuminato e apparecchiato come per una festa paesana in cui avviene l’incontro con Margherita, quest’ultima vestita alla foggia islamica probabilmente per sottolineare la distanza che separa il mondo della ragazza, segnato dalla fede religiosa, da quello, scettico e indifferente, di Faust; e ancora l’impressionante, riuscitissima scena del sabba romantico, ove le tenebre popolate da una folla disordinata e sfrenata sono rotte di colpo dai bagliori di un incendio, le cui immagini proiettate, prima ripropongono con una certa angoscia per chi guarda la scena del teatro avvolto dalle fiamme e poi si stendono anche ai palchi, con un potente effetto da tragedia cosmica. Qui Mefistofele scende allo scoperto e alla domanda esistenziale di Faust risponde con la rappresentazione non più edulcorata ma autentica del nulla di cui è portatore con tutta la sua energia cieca e distruttrice, espressa dal fuoco che divora il mondo ma anche da una sessualità ridotta ad un esercizio ginnico meccanico e violento. Secondo questa impostazione, appartiene al regno delle allucinazioni anche la scena della morte di Margherita, con la sua ambientazione spoglia che contrasta con gli universi carichi di colori e di effetti speciali evocati in precedenza da Mefistofele; e rimane allucinazione nonostante la verità del contatto con la sofferenza della persona amata, l’unico momento in cui Faust sembra poter uscire dall’egocentrismo malato in cui lo ha rinchiuso Mefistofele per aprirsi all’altro, che è poi l’unico modo per ritrovare veramente se stessi. Anche il sabba classico, ambientato in una riuscita ricostruzione della sala della Fenice con l’idilliaca e rasserenante presenza di un balletto, è una soluzione apparentemente possibile ma in realtà illusoria al problema esistenziale di Faust: la bellezza ordinata e rassicurante custodita dalla sala del teatro, infatti, è creata da Mefistofele, per cui è destinata a sgretolarsi di colpo, perché, se il mondo di oggi è in grado di proporre all’uomo qualcosa di rispondente alle sue esigenze, sarà comunque fragile e transeunte, privo di radici e di un solido perché. Si torna infine allo studio di Faust: ordinato, bianco, immerso in un chiarore che sembra riflettere la luce della ragione con cui lo studioso si è impegnato, seppure senza risultato, nelle sue ricerche. E qui avviene la palingenesi: mentre Mefistofele si contorce e si dispera perché le sue arti da diabolico imbonitore si rivelano inutili, Faust ascende al cielo aggrappato al suo violoncello: come a dire che è nella musica che l’uomo può trovare salvezza. Ma dietro e dentro la musica cosa c’è? La domanda dell’uomo è quindi destinata a riproporsi ancora e ancora inesausta, alla ricerca di una risposta definitiva che non può non esserci da qualche parte, visto che la domanda c’è ed è ineludibile. In conclusione, al di là delle interpretazioni che se ne possono dare, lo spettacolo alla fine funziona e si impone con la sua efficacia. I registi ci mettono non solo le idee, che vanno sempre verificate in base al riscontro del palcoscenico, ma anche una professionalità di alto livello, al servizio di una creatività sbrigliata ma quasi sempre evocativa, quindi non fine a sé stessa. Il lavoro sui personaggi si concentra soprattutto su Mefistofele, che, grazie anche alla proverbiale capacità di immedesimazione di Alex Esposito, è un demonio mercuriale, che in ogni momento ha un gesto, un atteggiamento, una mimica dedicati alla costruzione di un personaggio che sarà comunque difficile da dimenticare. Fondamentali alla riuscita dello spettacolo, inoltre, anche lo splendido disegno luci e i fantasiosi video, di pertinenza variabile rispetto alla vicenda ma nel complesso molto efficaci. Di minor rilievo, invece, e tutto sommato abbastanza convenzionali, i costumi. E la musica? Assolutamente varia e composita, a tratti poderosamente sinfonica e a tratti seducente sul piano melodico secondo la migliore tradizione italiana, talvolta ironica e talvolta profondamente drammatica, capace di alternare autentica genialità a momenti kitsch, rappresenta comunque un magma sonoro di non facile gestione, nella ricerca dell’equilibrio fra le masse orchestrali, quelle corali ed i solisti. L’impresa riesce bene a Nicola Luisotti, che tiene saldamente in pugno le redini della complessa macchina a lui affidata concertandola con padronanza e professionalità. Qualche volta sembra insistere troppo sulle dinamiche forti e non là dove la partitura lo richiede, ma in alcuni momenti ove ci si aspetterebbe una mano più lieve, più sensibile. Il palcoscenico è ovviamente dominato dal Mefistofele di Alex Esposito, che realizza ancora una volta il miracolo di intonare correttamente le note pur curando contemporaneamente nel dettaglio un’interpretazione scenica che non conosce un attimo di stasi ma si rigenera continuamente in una serie inesauribile di movimenti ed atteggiamenti. Il fraseggio del cantante, variato fin nella minima gradazione dinamica e coloristica, accompagna la mobilità dell’attore, per cui il personaggio ne esce con una prepotenza teatrale che non ha riscontri almeno oggi. Che poi, in certi momenti, si senta la necessità di una cavata più ampia e risonante, da basso autentico, è certamente vero. E si deve anche dare credito a quello che diceva un giornalista argentino seduto accanto a me e cioè che la voce di Esposito funziona alla grande in un ambiente piccolo e raccolto come quello della Fenice, ma non rende in sale vaste come quella del Colon di Buenos Aires. Tuttavia, considerato che è della performance veneziana e non di quelle straniere che devo riferire e considerato che l’opera è teatro in musica, per cui entrambi gli elementi concorrono in sinergia e in reciproco sostegno per giungere al risultato finale, si deve affermare che Alex Esposito è un protagonista assoluto, che sa coniugare le esigenze del canto, sempre musicalmente corretto, di volume adeguato e magistralmente espressivo, con quelle di una teatralità di eccezionale rilievo, per donare al pubblico un Mefistofele nell’insieme memorabile. Il Faust di Piero Pretti è signorile, composto, ma a tratti monocorde in un canto corretto ma un po’ rigido, che avrebbe bisogno di più morbidezza, sensualità e anche varietà di colori soprattutto nei momenti in cui dovrebbe accendersi di passione amorosa, come nel duetto con Margherita nel secondo atto, oppure nella visione, erotica e funebre insieme, della fanciulla durante il sabba romantico. Ma è molto ben eseguito, da lui come dalla sua partner Maria Agresta, lo splendido duetto del carcere “Lontano, lontano, lontano”, con un canto a fior di labbro omogeneo e delicato che ne restituisce tutta la struggente nostalgia per un amore puro e sincero che non è realizzabile sulla terra e viene quindi proiettato in una dimensione di sogno. Meno bene invece il finale, in cui Pretti risulta stentoreo forse per la sopravvenuta stanchezza di un ruolo vocalmente molto impegnativo; ma almeno il si bemolle di “Baluardo m’è il Vangelo” esce limpido e sicuro. Note meno liete – e spiace doverlo riconoscere per un’artista di questo livello – si registrano per la Margherita di Maria Agresta, che, nella scena del carcere, pigia sul pedale dell’intensità drammatica probabilmente per compensare una condizione vocale non ottimale e fatica a mantenere la linea di canto, andando almeno una volta in grave difficoltà. Fa bene ciò che deve fare Maria Teresa Leva come Elena, nel pezzo cupo e impegnativo in cui rievoca la distruzione di Troia. Sicuri nei rispettivi ruoli Enrico Casari come Wagner e Nereo e Kamelia Kader come Marta e Pantalis. Le parti corali, di assoluto rilievo in quest’opera, hanno trovato adeguata ed efficace risoluzione nei complessi della Fenice, diretti da Alfonso Caiani, e nel coro Piccoli Cantori Veneziani diretto da Dina D’Alessio, quest’ultimo dalla significativa pienezza e limpidezza di suono, non frequente in un ensemble di voci bianche. Alla fine della serata, quella di mercoledì 18 aprile, un bel successo pieno, caloroso, convinto per tutti, a premiare un lavoro nel suo inseime di alto livello professionale ed artistico. Adolfo Andrighetti
Tempo permettendo, le festività pasquali indurranno all’apertura delle seconde case in località di vacanza dopo la chiusura invernale. Un importante alert arriva da ANACI (Associazione Nazionale Amministratori Condominiali ed Immobiliari) Veneto: attenzione al pericolo legionella, nascosto nei tubi inutilizzati da mesi e nei ristagni idrici; il consiglio, quindi, è non solo di fare scorrere l’acqua dai rubinetti prima di utilizzarla, ma soprattutto di provvedere alla pulizia di elementi della doccia quali soffioni, doccini e doccette. Il batterio della legionella, infatti, alberga negli ambienti acquatici ed è pericolosa, se aspirata, perché può essere mortale per soggetti fragili. La legionellosi viene normalmente acquisita per inalazione e per questo la pericolosità delle particelle d’acqua infettate è inversamente proporzionale alla loro dimensione: gocce piccole arrivano più facilmente alle basse vie respiratorie. La prevenzione delle infezioni da legionella si basa essenzialmente sulla corretta progettazione e realizzazione degli impianti tecnologici, che comportano un riscaldamento dell’acqua e/o la sua nebulizzazione (impianti idro-sanitari, condizionatori, umidificatori, ecc.), ma anche sull’adozione di misure (manutenzione ed eventualmente disinfezione), atte a contrastare la diffusione del batterio. “E’ opportuno ricordare che le più recenti normative indicano l’amministratore condominiale, quale responsabile della qualità idrica dal contatore alle abitazioni - precisa Lino Bertin, Presidente di ANACI Veneto - Per questo deve provvedere a periodici controlli da parte di soggetti autorizzati, ma necessita evidentemente la collaborazione dei residenti per quanto riguarda i singoli appartamenti.” Fattori predisponenti la malattia sono l’età avanzata, il fumo di sigaretta, la presenza di malattie croniche, l’immunodeficienza; la letalità della legionellosi si aggira tra il 5% e il 10% dei casi. La legionellosi può manifestarsi in due forme distinte: la Malattia del Legionario, che frequentemente include una polmonite acuta; la febbre Pontiac, molto meno grave. Il trattamento della legionellosi, essendo una malattia di origine batterica, passa soprattutto attraverso terapie antibiotiche (fonte: Istituto Superiore di Sanità).
“Quasi sempre, l’idea vincente è anche la più semplice, ma non è certo facile riuscire ad averla per mantenersi al vertice” dichiara sorridendo Bruno Ferrarese, contitolare della veneta Idrobase Group vincitrice, per il secondo anno, dell’Excellence Award MCE alla Mostra Convegno Expocomfort tenutasi a Milano (nel 2022 fu premiata per l’apparecchio BKM3.0, frutto della ricerca con l’Università di Padova e destinato ad eliminare i virus, tra cui il Covid, mantenendo salubri ambienti ampi fino a 200 metri quadri). Stavolta l’innovativa soluzione si chiama programmaticamente “Fog adiabatico 5 anni senza rotture”: adiabatico significa impermeabile al calore ed è la caratteristica della “nebbia”, che serve a raffreddare i “dry cooler”, cioè i macchinari degli impianti di condizionamento, dove avviene l’abbattimento delle temperature esterne, offrendo al contempo la garanzia quinquennale della manutenzione programmata. E’ soprattutto questa nuova formula “chiavi in mano” ad avere conquistato il giudizio della giuria. Infatti, il sistema ideato da Idrobase garantisce, grazie alla nebulizzazione idrica, di mantenere la temperatura dell’aria all’ingresso degli impianti di condizionamento sotto la soglia dei 35 gradi, oltre la quale diminuisce l’efficienza e si rischia il blocco del processo di raffrescamento. L’azione degli ugelli permette di aumentare del 30% la capacità di raffrescare l’aria, diminuendo il consumo energetico di altrettanta percentuale. Per mantenere tali obbiettivi nel tempo, la soluzione prevede che il macchinario sia accompagnato dai kit di prodotti necessari al programma di manutenzione preventiva che, attraverso la semplice lettura di un qrcode, mette in grado chiunque di svolgere un check-up ogni 750 ore d’utilizzo, prolungando la vita del sistema, garantendone la massima efficienza, riducendo costi di manutenzione ed esercizio. “La nostra è una costante ricerca di innovazione non solo nella tecnologia e nella produzione, ma anche nel servizio, applicando il principio che prevenire è meglio che curare; in questo modo valorizziamo il made in Italy, garantendo 5 anni senza rotture” aggiunge l’altro socio, Bruno Gazzignato. Idrobase Group, con sede a Borgoricco nel padovano, è azienda leader nelle tecnologie d’utilizzo dell’acqua in pressione e nei sistemi per “respirare aria sana”, perseguendo nuovi modelli di organizzazione nel lavoro e di sostenibilità del prodotto (dagli uffici “virus free” ai blister in cartone). “Un futuro migliore per il Pianeta - conclude Ferrarese – lo costruiamo anche con le scelte imprenditoriali di ogni giorno.”
C’è da chiedersi come mai questa breve opera (1h e 10’ di durata), rappresentata per la prima volta in forma di concerto alla Carnegie Hall di New York il 16 marzo 1932, rimanga così ostinatamente lontana dai palcoscenici, al punto che la precedente messa in scena alla Fenice risale al 1956. Certo contribuisce la natura ibrida del lavoro, a metà strada fra opera e oratorio, ma si sa che anche un oratorio spesso presenta spunti che un regista può utilizzare per la realizzazione di una convincente azione scenica. Certo, “Maria Egiziaca” è definita ‘Mistero in tre episodi’, a sottolinearne la natura anomala e sfuggente rispetto agli ordinari criteri di classificazione dei generi riconducibili alla categoria del teatro in musica: ma non rappresenta anche questa una sfida stimolante per dei registi provvisti di fantasia e di coraggio? A ciò si aggiunga che la drammaturgia è intrigante, imperniata com’è sulla vicenda di una prostituta vissuta nell’Alessandria d’Egitto del IV-V secolo d.C. e poi redenta attraverso un’ascesi più che quarantennale nel deserto; basti pensare a ciò che fu capace di fare, sempre per i palcoscenici veneziani, Pier Luigi Pizzi mettendo in scena “Thaïs” di Massenet, storia che ha molti punti in comune con quella di Maria Egiziaca e della quale il prestigioso regista ci ha offerto un’interpretazione teatrale memorabile. Né può bastare ad indebolirne la struttura drammaturgica la sua stessa brevità, che forse ne impedisce un adeguato sviluppo, oppure il libretto arzigogolato e compiaciuto di Claudio Guastalla, messo insieme con i cascami di un dannunzianesimo riproposto a forza senza il genio del pescarese. Ma la tenace trascuratezza dei nostri teatri verso il lavoro di Ottorino Respighi meraviglia soprattutto perché si tratta di una partitura mirabile, densa di una musica raffinata e affascinante, suggestiva ed evocativa, capace di raccontare con intensità ed eloquenza lo svolgersi della vicenda adattandosi alle sue diverse situazioni. Il sofisticato eclettismo, che mette insieme, in un ammirevole equilibrio, suggerimenti della musica contemporanea al compositore con echi del recitar cantando monteverdiano e del canto gregoriano (si vedano gli splendidi interventi fuori scena del coro diretto da Alfonso Caiani), così come il magistero tecnico che le scelte di strumentazione sottendono, sono solo dei mezzi per la realizzazione di un universo sonoro tanto armonioso ed equilibrato quanto emotivamente comunicativo. Il culmine di questa affascinante narrazione sinfonica è forse raggiunto, come sottolinea il maestro Manlio Benzi, nei due interludi sinfonici, che separano, ma senza alcuna soluzione di continuità, i tre episodi in cui è suddivisa la vicenda: funzionalmente, per preparare il passaggio dall’uno all’altro, in realtà saldandoli in un’unità coerente e compatta, nonostante la diversità di situazioni, tinte ed atmosfere che li caratterizzano. E proprio a Manlio Benzi si deve una prima ragione del successo completo e convinto che ha accompagnato questa riproposta di “Maria Egiziaca” al Teatro Malibran. Il maestro, infatti, che dichiara di non aver mai diretto prima la partitura e, anzi, di averla studiata solo in vista di questa rappresentazione veneziana, dichiara di esserne rimasto “profondamente affascinato” e la definisce “estremamente succulenta” sul piano musicale. Questa empatia fra l’esecutore e le note che è chiamato a dirigere e concertare rappresenta la condizione indispensabile per la riuscita dell’interpretazione musicale, che infatti è risultata assolutamente convincente. Da sottolineare la duttilità con cui Benzi ha saputo evidenziare la bellezza e la raffinatezza delle soluzioni respighiane senza per questo sacrificare l’intensità emotiva che la musica sprigiona e che viene tradotta in sonorità spesso intense ma mai tali da coprire le voci degli ottimi interpreti. Fra questi si è distinta, per la disinvoltura dell’accattivante presenza scenica e per l’adeguatezza vocale, la protagonista Francesca Dotto. Il soprano di Treviso è una Maria assolutamente credibile per l’efficace e intensa immedesimazione nel personaggio, che propone con la stessa autorevolezza nella sfacciata sensualità della prima parte come nella crisi di pentimento della seconda e nell’ascensione mistica della terza; e insieme per la sicurezza con cui lo strumento sano, sonoro e duttile affronta una tessitura assai impegnativa per le frequenti e brusche escursioni verso l’acuto e mantiene compattezza e rotondità anche nei momenti più aspri, nei quali la tensione emotiva sale e le ondate sonore provenienti dall’orchestra si intensificano. Gli altri accompagnano e assecondano Francesca Dotto con bravura e professionalità. Simone Alberghini è adeguato come pellegrino e abate Zosimo. Il pellegrino, nel primo atto, si scandalizza di fronte alla proposta che Maria fa ai marinai di pagare la traversata fino a Gerusalemme con il proprio corpo e, nel secondo atto, la rampogna duramente per i suoi peccati. L’abate Zosimo, nel terzo atto, è protagonista del commovente e grandioso duetto finale con Maria, che, nell’abbraccio del sant’uomo, incontra finalmente la pace e la misericordia divina. In entrambi i ruoli, caratterizzati da una ieratica ma anche commossa solennità sacerdotale, Alberghini trova gli accenti e le inflessioni più adatte, confermando quella dignità artistica e quella affidabilità che gli sono riconosciute. Il tenore Vincenzo Costanzo è un marinaio dal canto corposo, esuberante e fin troppo sfogato, ostentatamente ‘macho’ si potrebbe dire. Ma è una scelta stilistica in linea con il personaggio, che si prepara ad accogliere con entusiasmo la proposta di Maria di pagarsi il viaggio ‘in natura’. Nel secondo atto, infatti, l’artista sa trovare sonorità più rattenute e tinte più sfumate per rappresentare l’atteggiamento umile e penitente del lebbroso. Ottimo l’apporto degli altri: i giovani tenori Michele Galbiati e Luigi Morassi (un compagno; un altro compagno e il povero), il soprano Ilaria Vanacore (la cieca a la voce dell’Angelo), il baritono veneziano William Corrò (una voce dal mare), di affidabilità e di rendimento sempre inappuntabili. Infine, lo spettacolo, dovuto nella sua interezza alla firma prestigiosa e ormai storica di Pier Luigi Pizzi, con la sempre apprezzabile collaborazione di Fabio Barettin per il disegno luci. Pizzi sceglie la strada di una semplicità atemporale, stilizzata ed evocativa, curando in modo particolare – strano a dirsi per un regista talvolta accusato di essere fin troppo legato ad uno stile prettamente scenografico – la recitazione dei personaggi, accuratamente delineata con riferimento particolare a quella della protagonista. L’allestimento è affidato a scene di un’essenzialità in sintonia con l’atmosfera generale della vicenda, ravvivate da proiezioni non sempre ispirate ed intonate al resto dello spettacolo. Il quale, comunque, ha il grande merito di cercare e spesso trovare una piena sintonia con la componente musicale, restituendo quel senso di armonia e di compiutezza complessive che si incontra sempre più di rado nei teatri d’opera. Pizzi, insomma, offre allo spettatore la possibilità di fare un’esperienza spirituale e culturale unitaria, nella quale le varie componenti della rappresentazione si richiamano e si sostengono le une con le altre in una proposta dalla chiara e precisa cifra intellettuale, oltre che rispettosa del compositore e degli spettatori. Nella concezione di questa “Maria Egiziaca” svolge un ruolo importante, non solo dal punto di vista spettacolare ma anche da quello concettuale, la bravissima danzatrice Maria Novella Della Martira, che interpreta la protagonista durante gli interludi orchestrali, completando, con l’eloquente linguaggio del corpo, ciò che il canto ha già detto, in una riuscita sinergia tra arti e mezzi espressivi diversi. Sul piano concettuale, cui si accennava, riveste un significato particolare il momento in cui la danzatrice, al termine del secondo atto e quindi del percorso penitenziale che lo contraddistingue, si denuda completamente. Un gesto che ne richiama analoghi già visti nell’indimenticabile “Thaïs” di Massenet con regista Pizzi, e che, nel nuovo contesto, può essere letto come il segno di una sensualità radicata così profondamente nella personalità di Maria da non poter essere rimossa neppure nel momento del pentimento ma, piuttosto, purificata e ricondotta alla sua vera origine; come se la protagonista ci dicesse: tutto è buono in quanto viene da Dio, anche il corpo e la sessualità, purché siano riportati alla logica per la quale entrambi sono stati voluti. Ma, assecondando questa impostazione fino alle ultime conseguenze, alla nudità di Maria si può attribuire anche un significato ulteriore, complementare al precedente: il momento del pentimento, quando si riconoscono i limiti e la povertà della nostra umanità greve e bisognosa di redenzione, è forse l’unico in cui si è veramente nudi, cioè privi di difese inutili ed artificiali, e quindi sinceri davanti alla nostra coscienza e al Mistero della vita. Infatti Maria canta nel terzo atto: “Come trema la nuda anima mia”: una nudità e quindi un’essenzialità spirituali che possono trovare una rappresentazione adeguata nella nudità del corpo. Adolfo Andrighetti
Idrobase Group, leader del “made in Italy” nella produzione di tecnologie per l’acqua in pressione e per respirare aria pulita, rivoluziona “l’ultimo miglio” della propria filiera produttiva ed elimina la plastica dal “packaging”, anticipando la nuova normativa sugli imballaggi, che sarà approvata dall’Unione Europea nell’ambito dei provvedimenti per il “green deal”: ad annunciarlo è Bruno Ferrarese, Contitolare dell’azienda con sede in provincia di Padova. Ad oggi, ma il dato è in crescita, ogni cittadino comunitario smaltisce annualmente circa 36 chilogrammi di imballi in plastica, di cui solo il 40% viene riciclato; tale processo, infatti, presenta non poche criticità, perché la plastica riciclata non torna materia prima, ma per essere utilizzabile deve essere miscelata con una significativa percentuale di plastica nuova, prodotta da idrocarburi. La nuova normativa europea, in fase di approvazione, dovrebbe prevedere l’obbligo a vendere parte dei prodotti in confezioni ricaricabili o riutilizzabili, nonché il divieto di utilizzare imballaggi “chiaramente inutili”. Nell’ “head quarter” dell’impresa a Borgoricco, la più recente novità si chiama “dBase” ed è un innovativo tubo in cartone a lunghezza variabile, chiuso da un nastrino in carta riciclabile così come l’etichetta; l’idea è frutto dell’esperienza del team di Idrobase, un’industria dove la transizione ecologica è vissuta con coerenti scelte produttive. Così, perseguendo una visione olistica dell’azienda, dopo quello per i dipendenti con la creazione di innovativi spazi di lavoro privi di inquinanti, è ora il momento di accelerare per il benessere del Pianeta, riducendo il numero degli imballaggi destinati ad accogliere pezzi e minuterie di ricambio: fatti in cartone riciclabile, sono prodotti “a chilometri zero”, valorizzando il tessuto produttivo locale. “Nei prossimi 3 anni – indica Bruno Gazzignato, Contitolare di Idrobase Group - è previsto che, per la sola divisione Dolly Spare Parts, cioè i ricambi per le pompe, quasi un milione di blisters in plastica saranno sostituiti con i tubi in cartone; la loro lunghezza variabile permetterà di ridurre del 35%, il numero delle tipologie di scatole.” Non solo: come annunciato per contrastare i furti di identità aziendale, ora ogni singolo pezzo viene marchiato a laser, riproducendo i loghi Idrobase e Made in Italy. “Stiamo costruendo l’azienda del futuro, dove sostenibilità ambientale, economica e sociale devono coesistere – conclude Bruno Ferrarese - Non solo: stiamo innovando per rendere difficile il lavoro dei copiatori seriali perchè, anche in questo, prevenire è meglio che curare.”
Novità in casa Musikrooms nell’attesa di completare il cartellone del prossimo Festival Chitarristico Internazionale delle Due Città Treviso-Venezia: "Svadhisthana", il nuovo singolo del compositore e chitarrista trevigiano, Andrea Vettoretti, è appena uscito su tutte le piattaforme digitali, pubblicato da Compagnia Nuove Indye, con cui l’artista lavora in esclusiva. "Svadhisthana – precisa il Direttore Artistico del Festival delle Due Città - vuole essere un'ode musicale alla creatività ed alla passione, un viaggio sonoro attraverso il secondo chakra dell'essere umano, secondo la tradizione induista.” Il brano si apre con suoni evocativi della foresta pluviale, dove la pioggia ed altri echi misteriosi creano un fluire continuo di emozioni, immergendo l'ascoltatore in un luogo sospeso tra realtà e sogno. La melodia, intrisa di malinconia e mistero, evoca immagini di paesaggi interiori, ricchi di colori e sfumature; Vettoretti dipinge con le note, creando quadri sonori, che si trasformano attraverso variazioni ritmiche e dinamiche. "Svadhisthana" è una poesia senza parole ed invita l'ascoltatore ad esplorare la propria sfera emotiva più profonda: è come se il brano aprisse le porte di un tempio segreto, invitando ad esplorare il vasto paesaggio dell'anima attraverso le sue armonie incantate.
“Il furto d’identità aziendale colpisce un crescente numero di imprese italiane, che non lo segnalano, perché rassegnate all’impossibilità di essere tutelate sui mercati della globalizzazione. E’ ormai un vero e proprio attacco del malaffare internazionale al made in Italy delle piccole e medie aziende, che garantiscono riconosciuta qualità, ma hanno difficoltà a fare sistema”: a denunciarlo è Bruno Ferrarese, contitolare della veneta Idrobase Group e che, nel passaggio d’anno, ha reso nota la strategia aziendale per contrastare il fenomeno criminoso che, unitamente alla difficile congiuntura internazionale, ha causato una contrazione di fatturato (10%), cui si risponde con l’obbiettivo 2024 di un +20% su un bilancio, che si attesta a circa 12 milioni di euro. Presente in 92 Paesi, Idrobase Group è leader nell’utilizzo delle tecnologie del “respirare sano” (apparecchi anti virus, nebulizzazione idrica, idropulitrici…) e promotrice di reti d’impresa nei settori del “car washing” e dell’abbattimento delle polveri (PM 2.5 e PM 10) in ambienti industriali. “Per sconfiggere l’industria dei copiatori, particolarmente diffusa sui mercati emergenti, abbiamo deciso di aggredire il loro core business, abbassando i prezzi, ma continuando a garantire la qualità del made in Italy – aggiunge l’altro contitolare, Bruno Gazzignato - Per riuscirci, mantenendo occupazione e redditività aziendale nella speranza di incisivi provvedimenti delle autorità competenti ad ogni livello per il contrasto al malaffare, stiamo ottimizzando la filiera produttiva, affiancando l’efficienza della metodologia Lean-Toyota alla rivoluzione logistica degli spazi lavorativi che, ponendo l’individuo al centro, massimizzano le potenzialità del team, indispensabile alla crescita aziendale. Dopo le tante energie economiche e creative, spese nella ricostruzione dell’ head quarter padovano a Borgoricco dopo l’incendio del 2022, stiamo passando da un’organizzazione aziendale verticale ad una orizzontale, accorciando le procedure decisionali; tutto ciò permette anche di liberare risorse umane, consentendoci di sviluppare internamente segmenti del ciclo produttivo. Non avere paura di sbagliare è il claim, che vogliamo ci accompagni nell’anno appena iniziato.” “L’obbiettivo – precisa Ferrarese - è di ridurre i costi, continuando a garantire la qualità del made in Italy per tutelare il valore del nostro brand e battere, sul piano dei prezzi, la concorrenza sleale. Questo è il nostro impegno aziendale, che deve però essere affiancato da una risposta di sistema, guidata dalle autorità politiche competenti e che coinvolga tutti gli attori: associazioni imprenditoriali, sindacati, organizzazioni di mercato. A loro ci appelliamo per bloccare i furti d’identità aziendali, perché solo insieme possiamo tutelare il made in Italy, garantendo futuro anche internazionale all’imprenditoria medio-piccola, asse portante del nostro modello economico.”
Dopo la contraffazione di prodotto e l’ “italian sounding” nel settore agroalimentare è il furto d’identità aziendale nel comparto industriale, la nuova frontiera del malaffare internazionale ai danni delle imprese italiane. A segnalarlo è Idrobase Group, l’industria padovana, leader nell’utilizzo delle tecnologie del “respirare sano” (apparecchi anti virus, nebulizzazione idrica, idropulitrici…) , alla cui crescita sui mercati globalizzati fa da contraltare la riproduzione del logo aziendale accanto a prodotti, che nulla hanno a che fare con la casa madre. “Si sfrutta la credibilità del marchio Idrobase per affiancarlo a prodotti estranei al nostro core business. E’ il danno peggiore – commenta Bruno Ferrarese, uno dei due titolari del gruppo veneto – perché svilisce il valore del brand, basato sulla reputazione aziendale e del made in Italy. Adiremo le vie legali per tutelarci.” “Proprio, perché consci della nostra crescita e delle insidie, che comporta – sottolinea Bruno Gazzignato, l’altro contitolare di Idrobase Group – da qualche mese abbiamo lanciato una strategia di rapporti più diretti con i distributori: dalla Corea alla Francia, dalla Spagna ai Paesi nordici. Ciò per meglio controllare la filiera dei prodotti e garantire la loro origine.” “Nonostante i marchi siano internazionalmente protetti, le aziende italiane sono sostanzialmente indifese di fronte alle multinazionali del crimine, con grave danno economico e di immagine; d’altronde il fenomeno della contraffazione dei prodotti industriali è presente in tutti i Paesi emergenti ed è in crescita nelle nazioni sviluppate. Contro il malaffare internazionale bisogna aumentare la capacità di fare sistema” aggiunge Bruno Ferrarese. A proposito di sistema, una buona notizia arriva infine dal progetto Safebreath.net, la rete d’impresa mirata alle tecnologie per l’abbattimento delle polveri sottili, che si generano nei siti industriali (PM2.5 e PM10): con l’anno nuovo, insieme alle partner Sibilia e MVT, Idrobase Group sarà presente alla grande Conferenza sulle Polveri, che si terrà al Cairo ed al successivo salone The Big5 Construct Saudi 2024, previsto in Febbraio a Riyadh, in Arabia Saudita.
Anche nel Veneto è una corsa contro il tempo per migliaia di cantieri edili e proprietari d’appartamento: per questo, anche ANACI (Associazione Nazionale Amministratori Condominiali ed Immobiliari) regionale chiede al Governo di valutare una proroga dei lavori in corso, relativi al superbonus 110%, in quanto rischiano di rimanere incompiuti per l’impossibilità dei condòmini di pagare eventuali, ulteriori importi dopo il 31 Dicembre 2023. “Chiediamo tale proroga – dichiara Lino Bertin, Presidente di ANACI Veneto - perchè i cittadini, fidandosi dello Stato ed utilizzando il superbonus 110%, hanno commissionato lavori per riqualificare il proprio condominio ed ora rischiano di non terminarli o di pagare cifre anche molto elevate per le continue modifiche della normativa. La legge di bilancio 2023 deve offrire una soluzione, evitando pesanti conseguenze sociali ed economiche, oltre ad una grande mole di contenziosi per tutta la filiera delle costruzioni e dei professionisti. Prendiamo atto – prosegue Bertin – che si è conclusa la stagione del 110% ed è necessario aprire un confronto complessivo sul futuro dell’efficientamento degli edifici in Italia. Per recuperare i ritardi accumulati è però assolutamente necessaria una proroga, tale da permettere una conclusione ordinata degli interventi in atto, evitando la perdita di migliaia di posti di lavoro, causata dalla sicura interruzione di molti cantieri per l’insorgere di contenziosi tra condomìni ed imprese, smorzando al contempo la pressione per terminare velocemente i lavori con conseguente rischio sia per la sicurezza nei cantieri, sia per la qualità degli interventi eseguiti.” Secondo ANACI Veneto, la proroga limitata ai soli interventi che dimostrino un concreto avanzamento del cantiere, potrebbe risolvere tali problemi con un costo contenuto per le casse dello Stato, assai inferiore al caos sociale ed economico, che si determinerebbe, lasciando invariata la scadenza a Dicembre.”
Ecco un’inaugurazione degna di questo nome, della quale la Fenice può essere orgogliosa. Come prima tappa della stagione Lirica e Balletto 2023-2024, infatti, è stata scelta “Les Contes d’Hoffmann” di Jacques Offenbach, su libretto che Jules Barbier trasse da una commedia omonima sua e di Michel Carré, a sua volta ispirata ai racconti dello scrittore tedesco E.T.A. Hoffmann. “Les Contes” fu rappresentata postuma nel 1881 all’Opèra-Comique di Parigi, dopo che il suo autore si era spento l’anno precedente lasciando una partitura incompiuta, che fu completata da Guiraud nella strumentazione e quindi sottoposta a complesse integrazioni e rimaneggiamenti negli anni successivi, al punto che oggi siamo ancora lontani dal disporre di un‘edizione definibile come conclusiva. È prudente lasciare in merito ogni valutazione ai musicologi; qui basti dire, con il maestro Chaslin, che l’esecuzione della Fenice si basa per la maggior parte sulla versione Oeser, risalente agli anni sessanta-settanta dello scorso secolo e ancora oggi la più utilizzata. Ciò premesso, va detto che la divertentissima e inquietante opera di Offenbach, percorsa in ugual misura da risate liberatorie e brividi sulfurei, crogiolo in cui si fondono e decantano stili, toni, motivi ispiratori i più diversi, ha trovato alla Fenice una realizzazione compiuta e convincente nel fantasmagorico spettacolo di Damiano Michieletto, coadiuvato dai suoi collaboratori storici: Paolo Fantin per le scene, Carla Teti per i costumi, Alessandro Carletti per le luci, cui si aggiunge Chiara Vecchi per le coreografie. Si tratta di una coproduzione della Fenice con istituzione prestigiose quali la Sidney Opera House nel cinquantesimo anniversario della fondazione, la Royal Opera House di Londra e l’Opéra National di Lione. La disinibita esplosione di fantasia, di creatività, di visionarietà anche, che contraddistingue questa messa in scena, nel moltiplicarsi delle trovate e degli effetti talvolta proposti più per il loro potenziale di sorpresa e di divertimento che per la loro coerenza intrinseca con l’insieme (due esempi fra i tanti: i fuochi d’artificio che concludono il primo atto e il bravissimo acrobata sui trampoli), sembra la più efficace chiave di lettura per un’opera che, da qualunque parte si cerchi di afferrarla, sfugge sempre alla presa, rifiutando di farsi rinchiudere all’interno di una concezione interpretativa univoca. Dal tourbillon che anima il palcoscenico nel via vai continuo di coristi, ballerini, mimi, emerge comunque la consueta cura con cui Michieletto costruisce i personaggi sul piano teatrale, evidenziando di ognuno la fisionomia attribuitagli dal dramma attraverso lo studio perspicace e meticoloso di gesti ed atteggiamenti. È un’abilità, ma anche uno scrupolo diligente figlio di una severa professionalità, che contraddistingue il regista vero, categoria alla quale Michieletto appartiene a pieno titolo. Tutte le altre componenti dello spettacolo collaborano con coerenza ed efficacia alla realizzazione della concezione registica: le scene semplici e funzionali, insieme alle luci che, nette e con poche sfumature, variano sui toni pastello tranne l’atto di Giulietta, sottolineano la componente giocosa, quasi infantile, ben presente nella lettura di Michieletto. Questi, anche nel finale quando chiama tutti i personaggi al proscenio, sembra invitarci a non prendere troppo sul serio la vena diabolica che percorre l’opera ma a scherzarci su divertendoci tutti insieme per la bella rappresentazione. E poi i costumi, anch’essi simpaticamente e chiassosamente fantasiosi con una sottolineatura per quello di Nicklausse, trasformato in una sorta di iridescente e leggiadra fata-farfalla. E le coreografie, infine, sempre vivaci e divertenti. Va anche detto che la sovrabbondante fantasia di Michieletto, per quanto sbrigliata e disinibita come si è detto, si esprime secondo una logica coerente. Il viaggio realistico-onirico-simbolico di Hoffmann, infatti, è restituito come un percorso esistenziale e sentimentale attraverso le varie età del protagonista, ognuna delle quali è segnata da una presenza femminile diversa ma ugualmente evocativa ed affascinante. Che poi le tre figure femminili, come canta lo stesso Hoffmann all’inizio dell’opera e come ribadisce Nicklausse nel finale, non siano altro che tre donne nella stessa donna, tre anime nella stessa anima, e finiscano poi per identificarsi con la figura fantomatica ed essenzialmente immaginaria della cantante-diva Stella, è pur vero. Ma è altrettanto vero che Stella, l’eterno femminino, è immaginata e vagheggiata da Hoffmann in maniera diversa nei tre atti e Michieletto opportunamente declina questa diversità in base alle diverse età del protagonista. Ecco allora Hoffmann, visto nel Prologo come un clochard disperato e beone ma ancora ravvivato da qualche scintilla dell’antico genio poetico, che si vede (Primo Atto) ragazzino in un’aula scolastica con tanto di banchi e lavagna e bidello neghittoso, mentre dà corpo e anima, col suo innamoramento tutto cuore ed immaginazione come capita agli adolescenti, ad una ragazza, Olympia, che esiste solo nel suo desiderio. Lo ritroviamo poi uomo giovane nell’atto di Antonia, capace di un sentimento forte, concreto, passionale verso una donna provata, di cui è capace di condividere la sofferenza: non una cantante alla quale è proibito cantare perché esiziale per la sua salute, ma una ballerina ammalata che non può più esibirsi. Ma il canto resta, ovviamente, perché previsto da libretto e partitura, fattore di un’esaltazione sublime, talmente rapinosa ed ineffabile da condure alla morte; per cui si crea uno scollamento sgradevole e disorientante tra ciò che si vede e ciò che si sente. Tuttavia la scelta, in sé assai discutibile, permette a Michieletto di dare vita ad un momento di teatro intensamente poetico, grazie alla riuscita ambientazione all’interno di una sala da ballo e ad alcune invenzioni di alto livello registico. Non ci si riferisce al patetico barcollare di Antonia quando vuole abbandonarsi all’abbraccio del suo innamorato, un effetto in sé fin troppo facile, ma piuttosto alla intuizione di dare corpo alla nostalgia della donna per il suo passato di ballerina portando in scena lei stessa bambina che volteggia in tutù, piena di sogni che sono stati frustrati dalla malattia. A quella piccola Antonia, la giovane donna provata dalla sorte si rivolge con tenerezza e struggimento nell’aria della Tortorella, che è fuggita e rappresenta un “ricordo troppo dolce”, un’”immagine troppo crudele”; così come lo è la memoria di sé stessa bambina felice, che si abbandona liberamente alla danza e dalla quale vorrebbe farsi aiutare per rialzarsi, quasi a cercare nel suo felice passato un sostegno per sopportare un presente troppo duro. L’amore adulto può essere solo quello consumato in un night con una cortigiana? Certo che no, ma così lo rivive o lo immagina Hoffmann nel Terzo Atto, quello di Giulietta, forse il meno risolto anche per la difficoltà di cogliere il senso di una drammaturgia involuta e poco chiara. Nell’Epilogo, poi, si ritorna là dove tutto era cominciato, cioè nella taverna, ove, come si è detto, si propone una soluzione disimpegnata e rasserenante dell’intricata vicenda. Il momento centrale è rappresentato dalla comparsa di Stella che si rivela essere il diavolo travestito: a confermare che il lungo sogno sentimentale ed erotico di Hoffmann non aveva nulla di buono e di reale, ma era solo lo sberleffo crudele di un diavolo malignamente dispettoso. La piena riuscita dello spettacolo, salutato con entusiasmo alla serale di giovedì 30 novembre, è stata garantita anche dalla presenza di un cast di alto livello e di qualità assoluta in alcuni ruoli. Ivan Ayon Rivas, tenore peruviano di soli trent’anni, è un Hoffmann pressoché ideale per la presenza fisica disinvolta e insieme dimessa, talvolta quasi impacciata, da antieroe che fa della sua stessa fragilità una personale cifra identitaria oltre che uno stile di approccio all’universo femminile. Lo strumento, poi, è sano, risonante, assolutamente resistente al ruolo impervio, dal timbro squillante e smaltato. Attenzione però alla zona acuta, ove, forse per un’eccessiva facilità di esecuzione e per l’esuberanza del giovane artista, l’emissione potrebbe essere più controllata e raccolta. Alex Esposito si fa carico dei quattro personaggi diabolici donando al pubblico una interpretazione di altissimo livello, forse la sua migliore fra quelle presentate sul palcoscenico della Fenice. Il suo proverbiale estro di attore consumato ha qui modo di esprimersi in pienezza e la voce, timbrata, robusta, bene emessa e controllata con ammirevole bravura nonostante l’impegno attoriale richiesto, lo sostiene dall’inizio alla fine. Una convinta ammirazione deve essere rivolta a questo artista che non usa le doti sceniche per farsi perdonare un canto discutibile, ma le accompagna ad un patrimonio vocale di tutto rispetto, gestito con grande padronanza e professionalità. Il soprano spagnolo Rocìo Pérez è un’Olympia caratterizzata con efficacia ma anche con misura sul piano scenico, attraverso una garbata e divertita ironia che sostituisce felicemente certi eccessivi scivolamenti caricaturali che possono risultare stucchevoli. La voce, poi, suona più rotonda e pastosa di quelle che si è soliti ascoltare in questo ruolo, anche se gli appuntamenti virtuosistici sono tutti onorati con sicurezza. Carmela Remigio ha modo di usare al meglio le proprie consumate doti di cantante-attrice nel ruolo di Antonia, cui dona un’intensità drammatica ed una partecipazione emotiva veramente toccanti. E pazienza se qualche suono in acuto risulta un po’ duro, perché un’artista di questa classe, capace sempre di una profonda immedesimazione teatrale e musicale nelle parti che affronta, non può essere valutata con il metro pedante ed ottuso di un Beckmesser. Meno riuscita, sebbene del tutto adeguata, è sembrata la Giulietta del soprano Véronique Gens, forse per una forma vocale non ottimale che non le ha permesso di rendere al meglio la componente sensuale e seduttiva, essenziale in questo ruolo. Le parti di fianco, come si sa numerose ed impegnative, svariano nella valutazione dal bravissimo al bravo: dal Nicklausse simpatico e sbarazzino, sostenuto da una voce di buona qualità, ben emessa e bene impostata, del mezzosoprano Giuseppina Bridelli, alla impagabile Muse, immaginata come una signora borghese molto per bene e un po’ affettata, dell’altro mezzosoprano Paola Gardina, al Frantz irresistibile, centratissimo e vocalmente all’altezza del tenore Didier Peri (ma è anche Andrès, Cochenille e Pitichinaccio), al Nathanaёl del tenore Christian Collia, allo Spalanzani del collega di registro Franҫois Piolino, agli Hermann e Schlémil del baritono Yoann Dubruque e, ultimo ma tutt’altro che ultimo, ai Luther e Crespel del basso Francesco Milanese. L’elenco è lungo ma tutti meritano di essere almeno menzionati. Meno convincente è sembrato soltanto l’intervento, poco intenso emotivamente e poco trascinante forse per l’accompagnamento un po’ slentato dal podio, del mezzosoprano Federica Giansanti come Voix de la mère nell’atto di Antonia. E a proposito di podio, questo era occupato dal maestro parigino Frédéric Chaslin, che, prima dello spettacolo inaugurale della Fenice, aveva già diretto ben settecentotrentadue recite di quest’opera dopo il debutto assoluto avvenuto ancora nel nostro teatro nel 1994. Uno specialista, dunque, la cui competenza ed esperienza non può essere messa in discussione e si evidenzia nella sensibilità con cui dà il giusto risalto ad alcuni raffinati accompagnamenti. Peccato, invece, che altri momenti siano caratterizzati da sonorità eccessive e da un’impostazione un po’ greve, a discapito della leggerezza e della brillantezza, caratteristiche identitarie di quest’opera. Il coro del Teatro, infine. Diretto da Alfonso Caiani, si è bravamente disimpegnato sul piano scenico e ha dato il meglio di sé su quello vocale, anche se un maggiore controllo ed omogeneità del suono in alcuni passi in fortissimo sarebbe preferibile. Adolfo Andrighetti

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ALLA FENICE UN BALLO IN MASCHERA FRA RAZZISMO E BELLA MUSICA Che il “Ballo in maschera” di Giuseppe Verdi e del librettista Antonio Somma sia veramente “splendidissimo”, per usare la scorretta ma simpatica iperbole del paggio Oscar, nessuno lo mette più in dubbio. E’ la prima opera composta da Verdi dopo gli anni che egli stesso definì di “galera”, perché oberati da un intenso lavoro su commissione; un’opera, quindi, che non poteva limitarsi alla routine, al semplice mestiere, ma doveva esprimere le più sincere aspirazioni artistiche del compositore. Tuttavia va ricordato che “Il ballo in maschera”, tratto da un soggetto di Scribe già musicato da altri compositori fra cui Auber, non è una prima scelta. Verdi aveva in mente il Re Lear, idea accarezzata a lungo e poi abbandonata probabilmente perché il libretto, già completato da Somma, non era all’altezza del soggetto shakespeariano e delle aspettative dell’esigentissimo musicista. Ma i musicologi insistono soprattutto sulla varietà di toni e di colori, cifra caratteristica dell’opera, che accosta il coté brillante e cortigiano alla passionalità più infuocata, compreso un tocco di parodia dal sapore vagamente goliardico. Questi diversi motivi ispiratori ed in particolare i primi due, si alternano di continuo nella partitura, con improvvise, geniali, anche brusche variazioni musicali e di atmosfera, che costituiscono il fascino dell’opera e, insieme, una caratteristica così spiccata, così provocatoria, da risultare anche sconcertante. D’altra parte, non va dimenticato che Verdi guardava con diffidenza quei suoi lavori, come “I due Foscari”, che riteneva monocromatici, perché, attento com’era alle esigenze del pubblico, temeva che la poca varietà finisse per annoiarlo, mentre lui voleva tenerlo inchiodato alla poltrona del teatro: per la gloria dell’arte ma anche per quella del botteghino, ché Verdi, con straordinario realismo da agricoltore, ha sempre perseguito con testardaggine il doppio obiettivo della musica che voleva lui e del teatro pieno. La sorprendente varietà di atmosfere che si riscontra ne “Un ballo in maschera” costituisce, quindi, la realizzazione di un suo precisa obiettivo artistico, oltre a rappresentare il risultato di un’occhiata retrospettiva lanciata verso Shakespeare e l’opera barocca, con la loro alternanza di sublime e volgare, di tragico e comico. La componente spiritosa e disinvolta è incarnata dal paggio Oscar, cui è affidata una musica briosa, spumeggiante, che risente dell’influenza francese ed in particolare di Offenbach. Il fuoco della passione, invece, si canta in molte parti del “Ballo”, ma raggiunge la sua espressione più completa e travolgente nella scena del secondo atto fra Amelia e Riccardo, quella dell’”orrido campo” per intenderci. La vena goliardica emerge alla fine di quello stesso atto, quando i truci congiurati si trasformano di colpo nella parodia di se stessi, vedendo Renato fare involontariamente da paraninfo agli amori della sua sposa con Riccardo e ridendone a bocca spalancata nel pregustare il “baccano” che questo sapido pettegolezzo susciterà a Boston. Dopo di che, ognuno è libero di preferire il caleidoscopio cromatico de “Un ballo in maschera”, oppure, tanto per portare qualche esempio, il vellutato, forse cupo ma caldo terra di Siena del “Simon Boccanegra” o l’araldico e un po’ funereo ma sublime nero e oro del “Don Carlos”. Su quest’opera, così impegnativa perché sfaccettata al punto da risultare spiazzante, la Fenice ha voluto scommettere, scegliendola come spettacolo inaugurale della stagione 2017-2018 e affidandola alle cure di Gianmaria Aliverta. Il regista, 33 anni, si sta affacciando ora alle maggiori ribalte dopo essersi formato nell’associazione VoceAllOpera da lui fondata, laboratorio per la divulgazione dell’opera lirica in ambienti non tradizionali. La scommessa è ampiamente vinta, com’era prevedibile, trattandosi non di un salto nel buio ma della fiducia concessa ad un giovane che aveva già mostrato di meritarsela, con gli allestimenti al Malibran del dittico “La Voix humaine” (Poulenc) e “Il diario di uno scomparso” (Janacek) nel 2015 e, nel 2016, della “Mirandolina” (Martinu). Aliverta non stravolge la vicenda costruita da Verdi e Somma, anzi la rispetta nella sua componente principale, che è la passione amorosa. Ma dietro agli amori contrastati mantiene, come in filigrana, un’idea unitaria, quella del razzismo. Per arrivare a ciò il regista utilizza degli spunti presenti nel libretto, come la maga Ulrica “dell’immondo sangue de’ negri”; ma anche la presenza nel cast di una cantante afroamericana, il soprano Kristin Lewis. E trasporta la vicenda, dal secolo XVII ad un periodo intercorrente fra il 1867 e il 1887, quando la guerra di secessione si è conclusa e la schiavitù è formalmente abolita. Ma molta strada dovrà essere fatta prima che, dopo la legge, anche la cultura e il costume riconoscano piena dignità alle persone di colore, come la regia di Aliverna ci fa capire. Si chiariscono così le ragioni della congiura contro Riccardo, riconducibili ad un suo eccessivo aperturismo in campo sociale: non per niente smentisce il giudice, principale rappresentante dell’establishment, annullando la condanna da lui pronunciata contro Ulrica, strega di colore in combutta con le forze occulte; e fa di Oscar, presentato dalla regia come un ragazzaccio sfrontato di estrazione ed educazione non limpide, quasi un proprio consigliere privilegiato. L’idea registica funziona bene e non accusa forzature, salvo forse qualche veniale eccesso didascalico che vuole ribadire ciò che è già chiaro. E’ apprezzabile perché valorizza la componente politica - presente solo implicitamente nell’opera - facendone un importante motore dell’azione, in perfetta sintonia, peraltro, con una sensibilità che Verdi ha dimostrato in molte sue opere, ove affetti privati e ragion di Stato si incrociano più volte. Il razzismo viene presentato già durante l’ouverture, ove si vede un servo di colore, oggetto di scherno e di disprezzo, che strofina intimidito i gradini di una scalinata. E viene ribadito nel corso del secondo atto: all’inizio, quando si vede un nero inseguito, quindi raggiunto, picchiato duramente e abbandonato come morto nell’orrido campo; è sua la testa che si leva di sotterra e terrorizza Amelia prima dell’arrivo di Riccardo. Alla fine dell’atto, poi, compaiono, sul fondo del palcoscenico, la croce in fiamme e i cappucci bianchi del Ku Klux Klan, al quale di certo appartengono i congiurati. Le scene di Massimo Checchetto, nella loro linearità ed essenzialità sono funzionali all’idea registica: la prima scena del primo atto mostra una scalinata praticabile che sormonta una serie di seggi e scranni sui quali prendono posto aristocratici e titolati. Molto felice la realizzazione dell’antro di Ulrica, un ambiente nudo e buio illuminato prima da ceri e poi da specchi. Questi ultimi, poi, ruotando su se stessi, da oggetti sinistri ed inquietanti perché riflettono e moltiplicano la realtà, si trasformano rapidamente in strumenti di scherzo, con gli astanti che li usano per nascondersi oppure per svelarsi: un’idea semplice, con la quale la regia asseconda la varietà di toni ed atmosfere che contraddistingue non solo la scena di Ulrica, dove lugubre e brillante convivono, ma tutto il “Ballo in maschera”. Nel secondo atto, l’orrido campo è reso con una sorta di scalea rocciosa e diruta, semovente al centro del palcoscenico. Nel terzo atto, l’abitazione di Renato è un interno borghese semplicissimo, quasi spoglio, con un lungo tavolo che corre parallelamente al palcoscenico e un grande ritratto del conte, un quadro su cui Renato sfoga il proprio odio in modi fin troppo esasperati, fra l’altro anche minacciandolo con un attizzatoio. Nella scena finale, ove sono collocati gli essenziali movimenti coreografici di Barbara Pessina, il palcoscenico vuoto accoglie uno scorcio della statua della libertà, cioè la parte superiore del capo e la fiaccola: un anacronismo, ma il simbolo pertinente, al pari della bandiera USA spesso presente in scena, di una nazione che, pur desiderando sinceramente e anche generosamente i grandi ideali di libertà e di democrazia, si è trovata a contraddirli spesso anche al proprio interno. Fondamentali le suggestive luci di Fabio Barettin nel creare l’atmosfera dei diversi ambienti. E sempre appropriati i bei costumi di Carlos Tieppo. Sul podio c’è Myung-Whun Chung, uno dei più prestigiosi direttori d’orchestra oggi in circolazione. Con lui si va sul sicuro ed in modo particolare nel repertorio verdiano, del quale è interprete ammiratissimo. Alla Fenice è la quinta volta che dirige – e sempre con grande successo – un’opera di Verdi: prima de “Un ballo in maschera” è toccato, nell’ordine, a “La traviata”, “Rigoletto”, “Otello” e “Simon Boccanegra”, per il quale i critici musicali gli hanno assegnato il Premio Abbiati 2015. Il maestro sud-coreano dà spessore e risalto ad ogni accompagnamento, a soluzioni melodiche, armoniche e coloristiche talvolta trascurate, ma inserendo ogni particolare all’interno di una narrazione musicale fluente e trascinante, dalle sonorità piene e rotonde, ove il respiro sinfonico si accompagna alla cura riservata all’esecuzione vocale. Colpisce, poi, la fluidità con cui si trascorre dal dramma alla brillantezza, per cui il contrasto, inevitabilmente segnato dal passaggio di atmosfere, viene reso naturale come nella vita e pienamente godibile sul piano musicale. Alla ottimale riuscita dell’interpretazione complessiva collaborano in maniera determinante l’orchestra ed il coro del Teatro, coro diretto come sempre da Claudio Marino Moretti. Apprezzata, nella scena di Ulrica, la presenza, talvolta rimossa, delle voci bianche: i Piccoli Cantori Veneziani diretti da Diana D’Alessio. Il cast è dominato dalla classe interpretativa di Francesco Meli, un Riccardo elegante e scanzonato, libero e generoso come Verdi l’aveva immaginato; soprattutto, di assoluta sicurezza vocale oltre che scenica, padrone di un canto forbito ed illuminato da un gioco dinamico di straordinaria varietà. Magistrali, in particolare, i suoi piani e pianissimi: rotondi, timbrati, sonori, corrono meravigliosamente per il teatro e conferiscono spessore ed incisività al fraseggio e quindi all’interpretazione. A ciò si aggiungano l’emissione pulita ed omogenea, il timbro di raro prestigio, la dizione immacolata. Anche gli acuti, certo non il pezzo forte dell’artista, risultano sufficientemente lucenti e risonanti. Accanto a Francesco Meli, sugli scudi anche la consorte, Serena Gamberoni, Oscar di irresistibile freschezza scenica e vocale: una specie di impertinente Oliver Twist secondo le riuscite intenzioni della regia, dal quale scaturisce una cascata sonora lucente, spumeggiante, brillantissima. Il miglior Oscar che abbia mai visto ed ascoltato in palcoscenico. Il baritono bulgaro Vladimir Stoyanov, Renato, si affida ad un professionismo solido ma un po’ generico, inficiato qua e là da qualche imperfezione vocale. Ma trova una buona emissione, morbida e sfumata, nel “O dolcezze perdute” e, nel complesso, restituisce un personaggio credibile, con l’unica eccezione del parrucchino che fa volare alla fine dell’aria, mostrando una capigliatura scarsa e bigia laddove prima ce n’era una folta e nera. Certo, il gesto – ovviamente voluto dalla regia – sta a indicare la definitiva rinuncia di un uomo maturo alla speranza di essere amato da una donna più giovane e più bella di lui, affascinata dal brillante e potente Riccardo, del quale Renato forse è sempre stato geloso. Certo, si sa. Ma si sa anche che in teatro non basta avere una buona idea: bisogna anche realizzarla in maniera convincente. Silvia Beltrami è un’Ulrica di estrazione belcantistica, la cui interpretazione, misurata ma non priva di efficacia drammatica e di impatto emotivo, si fa preferire ad altre esecuzioni caratterizzate da una vocalità più torrenziale ma anche da un approccio alla parte più esteriore se non plateale, effetti ed effettacci compresi. Eccellente sul piano vocale il Silvano di William Corrò, ma troppo statico sulla scena davanti al direttore d’orchestra. A posto, corretti e in parte, i due congiurati: il Samuel del coreano Simon Lim e il Tom di Mattia Denti. Sicuro e squillante il Giudice di Emanuele Giannino. Un discorso a parte va fatto per Kristin Lewis, il soprano USA cui è affidato il ruolo di Amelia e che fa annunciare un attacco di influenza durante l’intervallo fra il secondo ed il terzo atto, pur portando a termine la recita. Ogni giudizio sulla sua prestazione, quindi, deve essere sospeso. A titolo di cronaca, va detto che l’artista, consapevole di non essere stata all’altezza delle aspettative, abbandona bruscamente il palcoscenico mentre risponde agli applausi finali insieme ai colleghi, nonostante il pubblico veneziano l’avesse sostenuta con il garbo e l’urbanità che tradizionalmente lo contraddistinguono. Alla serale cui si riferiscono queste note, un teatro stracolmo ha decretato un caldo successo per tutti, con punte incandescenti per il maestro Myung-Whun Chung, Francesco Meli e Serena Gamberoni. Adolfo Andrighetti

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