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Al Malibran un Vivaldi sconosciuto eppure fresco e fragrante

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Tempo permettendo, le festività pasquali indurranno all’apertura delle seconde case in località di vacanza dopo la chiusura invernale. Un importante alert arriva da ANACI (Associazione Nazionale Amministratori Condominiali ed Immobiliari) Veneto: attenzione al pericolo legionella, nascosto nei tubi inutilizzati da mesi e nei ristagni idrici; il consiglio, quindi, è non solo di fare scorrere l’acqua dai rubinetti prima di utilizzarla, ma soprattutto di provvedere alla pulizia di elementi della doccia quali soffioni, doccini e doccette. Il batterio della legionella, infatti, alberga negli ambienti acquatici ed è pericolosa, se aspirata, perché può essere mortale per soggetti fragili. La legionellosi viene normalmente acquisita per inalazione e per questo la pericolosità delle particelle d’acqua infettate è inversamente proporzionale alla loro dimensione: gocce piccole arrivano più facilmente alle basse vie respiratorie. La prevenzione delle infezioni da legionella si basa essenzialmente sulla corretta progettazione e realizzazione degli impianti tecnologici, che comportano un riscaldamento dell’acqua e/o la sua nebulizzazione (impianti idro-sanitari, condizionatori, umidificatori, ecc.), ma anche sull’adozione di misure (manutenzione ed eventualmente disinfezione), atte a contrastare la diffusione del batterio. “E’ opportuno ricordare che le più recenti normative indicano l’amministratore condominiale, quale responsabile della qualità idrica dal contatore alle abitazioni - precisa Lino Bertin, Presidente di ANACI Veneto - Per questo deve provvedere a periodici controlli da parte di soggetti autorizzati, ma necessita evidentemente la collaborazione dei residenti per quanto riguarda i singoli appartamenti.” Fattori predisponenti la malattia sono l’età avanzata, il fumo di sigaretta, la presenza di malattie croniche, l’immunodeficienza; la letalità della legionellosi si aggira tra il 5% e il 10% dei casi. La legionellosi può manifestarsi in due forme distinte: la Malattia del Legionario, che frequentemente include una polmonite acuta; la febbre Pontiac, molto meno grave. Il trattamento della legionellosi, essendo una malattia di origine batterica, passa soprattutto attraverso terapie antibiotiche (fonte: Istituto Superiore di Sanità).
“Quasi sempre, l’idea vincente è anche la più semplice, ma non è certo facile riuscire ad averla per mantenersi al vertice” dichiara sorridendo Bruno Ferrarese, contitolare della veneta Idrobase Group vincitrice, per il secondo anno, dell’Excellence Award MCE alla Mostra Convegno Expocomfort tenutasi a Milano (nel 2022 fu premiata per l’apparecchio BKM3.0, frutto della ricerca con l’Università di Padova e destinato ad eliminare i virus, tra cui il Covid, mantenendo salubri ambienti ampi fino a 200 metri quadri). Stavolta l’innovativa soluzione si chiama programmaticamente “Fog adiabatico 5 anni senza rotture”: adiabatico significa impermeabile al calore ed è la caratteristica della “nebbia”, che serve a raffreddare i “dry cooler”, cioè i macchinari degli impianti di condizionamento, dove avviene l’abbattimento delle temperature esterne, offrendo al contempo la garanzia quinquennale della manutenzione programmata. E’ soprattutto questa nuova formula “chiavi in mano” ad avere conquistato il giudizio della giuria. Infatti, il sistema ideato da Idrobase garantisce, grazie alla nebulizzazione idrica, di mantenere la temperatura dell’aria all’ingresso degli impianti di condizionamento sotto la soglia dei 35 gradi, oltre la quale diminuisce l’efficienza e si rischia il blocco del processo di raffrescamento. L’azione degli ugelli permette di aumentare del 30% la capacità di raffrescare l’aria, diminuendo il consumo energetico di altrettanta percentuale. Per mantenere tali obbiettivi nel tempo, la soluzione prevede che il macchinario sia accompagnato dai kit di prodotti necessari al programma di manutenzione preventiva che, attraverso la semplice lettura di un qrcode, mette in grado chiunque di svolgere un check-up ogni 750 ore d’utilizzo, prolungando la vita del sistema, garantendone la massima efficienza, riducendo costi di manutenzione ed esercizio. “La nostra è una costante ricerca di innovazione non solo nella tecnologia e nella produzione, ma anche nel servizio, applicando il principio che prevenire è meglio che curare; in questo modo valorizziamo il made in Italy, garantendo 5 anni senza rotture” aggiunge l’altro socio, Bruno Gazzignato. Idrobase Group, con sede a Borgoricco nel padovano, è azienda leader nelle tecnologie d’utilizzo dell’acqua in pressione e nei sistemi per “respirare aria sana”, perseguendo nuovi modelli di organizzazione nel lavoro e di sostenibilità del prodotto (dagli uffici “virus free” ai blister in cartone). “Un futuro migliore per il Pianeta - conclude Ferrarese – lo costruiamo anche con le scelte imprenditoriali di ogni giorno.”
C’è da chiedersi come mai questa breve opera (1h e 10’ di durata), rappresentata per la prima volta in forma di concerto alla Carnegie Hall di New York il 16 marzo 1932, rimanga così ostinatamente lontana dai palcoscenici, al punto che la precedente messa in scena alla Fenice risale al 1956. Certo contribuisce la natura ibrida del lavoro, a metà strada fra opera e oratorio, ma si sa che anche un oratorio spesso presenta spunti che un regista può utilizzare per la realizzazione di una convincente azione scenica. Certo, “Maria Egiziaca” è definita ‘Mistero in tre episodi’, a sottolinearne la natura anomala e sfuggente rispetto agli ordinari criteri di classificazione dei generi riconducibili alla categoria del teatro in musica: ma non rappresenta anche questa una sfida stimolante per dei registi provvisti di fantasia e di coraggio? A ciò si aggiunga che la drammaturgia è intrigante, imperniata com’è sulla vicenda di una prostituta vissuta nell’Alessandria d’Egitto del IV-V secolo d.C. e poi redenta attraverso un’ascesi più che quarantennale nel deserto; basti pensare a ciò che fu capace di fare, sempre per i palcoscenici veneziani, Pier Luigi Pizzi mettendo in scena “Thaïs” di Massenet, storia che ha molti punti in comune con quella di Maria Egiziaca e della quale il prestigioso regista ci ha offerto un’interpretazione teatrale memorabile. Né può bastare ad indebolirne la struttura drammaturgica la sua stessa brevità, che forse ne impedisce un adeguato sviluppo, oppure il libretto arzigogolato e compiaciuto di Claudio Guastalla, messo insieme con i cascami di un dannunzianesimo riproposto a forza senza il genio del pescarese. Ma la tenace trascuratezza dei nostri teatri verso il lavoro di Ottorino Respighi meraviglia soprattutto perché si tratta di una partitura mirabile, densa di una musica raffinata e affascinante, suggestiva ed evocativa, capace di raccontare con intensità ed eloquenza lo svolgersi della vicenda adattandosi alle sue diverse situazioni. Il sofisticato eclettismo, che mette insieme, in un ammirevole equilibrio, suggerimenti della musica contemporanea al compositore con echi del recitar cantando monteverdiano e del canto gregoriano (si vedano gli splendidi interventi fuori scena del coro diretto da Alfonso Caiani), così come il magistero tecnico che le scelte di strumentazione sottendono, sono solo dei mezzi per la realizzazione di un universo sonoro tanto armonioso ed equilibrato quanto emotivamente comunicativo. Il culmine di questa affascinante narrazione sinfonica è forse raggiunto, come sottolinea il maestro Manlio Benzi, nei due interludi sinfonici, che separano, ma senza alcuna soluzione di continuità, i tre episodi in cui è suddivisa la vicenda: funzionalmente, per preparare il passaggio dall’uno all’altro, in realtà saldandoli in un’unità coerente e compatta, nonostante la diversità di situazioni, tinte ed atmosfere che li caratterizzano. E proprio a Manlio Benzi si deve una prima ragione del successo completo e convinto che ha accompagnato questa riproposta di “Maria Egiziaca” al Teatro Malibran. Il maestro, infatti, che dichiara di non aver mai diretto prima la partitura e, anzi, di averla studiata solo in vista di questa rappresentazione veneziana, dichiara di esserne rimasto “profondamente affascinato” e la definisce “estremamente succulenta” sul piano musicale. Questa empatia fra l’esecutore e le note che è chiamato a dirigere e concertare rappresenta la condizione indispensabile per la riuscita dell’interpretazione musicale, che infatti è risultata assolutamente convincente. Da sottolineare la duttilità con cui Benzi ha saputo evidenziare la bellezza e la raffinatezza delle soluzioni respighiane senza per questo sacrificare l’intensità emotiva che la musica sprigiona e che viene tradotta in sonorità spesso intense ma mai tali da coprire le voci degli ottimi interpreti. Fra questi si è distinta, per la disinvoltura dell’accattivante presenza scenica e per l’adeguatezza vocale, la protagonista Francesca Dotto. Il soprano di Treviso è una Maria assolutamente credibile per l’efficace e intensa immedesimazione nel personaggio, che propone con la stessa autorevolezza nella sfacciata sensualità della prima parte come nella crisi di pentimento della seconda e nell’ascensione mistica della terza; e insieme per la sicurezza con cui lo strumento sano, sonoro e duttile affronta una tessitura assai impegnativa per le frequenti e brusche escursioni verso l’acuto e mantiene compattezza e rotondità anche nei momenti più aspri, nei quali la tensione emotiva sale e le ondate sonore provenienti dall’orchestra si intensificano. Gli altri accompagnano e assecondano Francesca Dotto con bravura e professionalità. Simone Alberghini è adeguato come pellegrino e abate Zosimo. Il pellegrino, nel primo atto, si scandalizza di fronte alla proposta che Maria fa ai marinai di pagare la traversata fino a Gerusalemme con il proprio corpo e, nel secondo atto, la rampogna duramente per i suoi peccati. L’abate Zosimo, nel terzo atto, è protagonista del commovente e grandioso duetto finale con Maria, che, nell’abbraccio del sant’uomo, incontra finalmente la pace e la misericordia divina. In entrambi i ruoli, caratterizzati da una ieratica ma anche commossa solennità sacerdotale, Alberghini trova gli accenti e le inflessioni più adatte, confermando quella dignità artistica e quella affidabilità che gli sono riconosciute. Il tenore Vincenzo Costanzo è un marinaio dal canto corposo, esuberante e fin troppo sfogato, ostentatamente ‘macho’ si potrebbe dire. Ma è una scelta stilistica in linea con il personaggio, che si prepara ad accogliere con entusiasmo la proposta di Maria di pagarsi il viaggio ‘in natura’. Nel secondo atto, infatti, l’artista sa trovare sonorità più rattenute e tinte più sfumate per rappresentare l’atteggiamento umile e penitente del lebbroso. Ottimo l’apporto degli altri: i giovani tenori Michele Galbiati e Luigi Morassi (un compagno; un altro compagno e il povero), il soprano Ilaria Vanacore (la cieca a la voce dell’Angelo), il baritono veneziano William Corrò (una voce dal mare), di affidabilità e di rendimento sempre inappuntabili. Infine, lo spettacolo, dovuto nella sua interezza alla firma prestigiosa e ormai storica di Pier Luigi Pizzi, con la sempre apprezzabile collaborazione di Fabio Barettin per il disegno luci. Pizzi sceglie la strada di una semplicità atemporale, stilizzata ed evocativa, curando in modo particolare – strano a dirsi per un regista talvolta accusato di essere fin troppo legato ad uno stile prettamente scenografico – la recitazione dei personaggi, accuratamente delineata con riferimento particolare a quella della protagonista. L’allestimento è affidato a scene di un’essenzialità in sintonia con l’atmosfera generale della vicenda, ravvivate da proiezioni non sempre ispirate ed intonate al resto dello spettacolo. Il quale, comunque, ha il grande merito di cercare e spesso trovare una piena sintonia con la componente musicale, restituendo quel senso di armonia e di compiutezza complessive che si incontra sempre più di rado nei teatri d’opera. Pizzi, insomma, offre allo spettatore la possibilità di fare un’esperienza spirituale e culturale unitaria, nella quale le varie componenti della rappresentazione si richiamano e si sostengono le une con le altre in una proposta dalla chiara e precisa cifra intellettuale, oltre che rispettosa del compositore e degli spettatori. Nella concezione di questa “Maria Egiziaca” svolge un ruolo importante, non solo dal punto di vista spettacolare ma anche da quello concettuale, la bravissima danzatrice Maria Novella Della Martira, che interpreta la protagonista durante gli interludi orchestrali, completando, con l’eloquente linguaggio del corpo, ciò che il canto ha già detto, in una riuscita sinergia tra arti e mezzi espressivi diversi. Sul piano concettuale, cui si accennava, riveste un significato particolare il momento in cui la danzatrice, al termine del secondo atto e quindi del percorso penitenziale che lo contraddistingue, si denuda completamente. Un gesto che ne richiama analoghi già visti nell’indimenticabile “Thaïs” di Massenet con regista Pizzi, e che, nel nuovo contesto, può essere letto come il segno di una sensualità radicata così profondamente nella personalità di Maria da non poter essere rimossa neppure nel momento del pentimento ma, piuttosto, purificata e ricondotta alla sua vera origine; come se la protagonista ci dicesse: tutto è buono in quanto viene da Dio, anche il corpo e la sessualità, purché siano riportati alla logica per la quale entrambi sono stati voluti. Ma, assecondando questa impostazione fino alle ultime conseguenze, alla nudità di Maria si può attribuire anche un significato ulteriore, complementare al precedente: il momento del pentimento, quando si riconoscono i limiti e la povertà della nostra umanità greve e bisognosa di redenzione, è forse l’unico in cui si è veramente nudi, cioè privi di difese inutili ed artificiali, e quindi sinceri davanti alla nostra coscienza e al Mistero della vita. Infatti Maria canta nel terzo atto: “Come trema la nuda anima mia”: una nudità e quindi un’essenzialità spirituali che possono trovare una rappresentazione adeguata nella nudità del corpo. Adolfo Andrighetti
Idrobase Group, leader del “made in Italy” nella produzione di tecnologie per l’acqua in pressione e per respirare aria pulita, rivoluziona “l’ultimo miglio” della propria filiera produttiva ed elimina la plastica dal “packaging”, anticipando la nuova normativa sugli imballaggi, che sarà approvata dall’Unione Europea nell’ambito dei provvedimenti per il “green deal”: ad annunciarlo è Bruno Ferrarese, Contitolare dell’azienda con sede in provincia di Padova. Ad oggi, ma il dato è in crescita, ogni cittadino comunitario smaltisce annualmente circa 36 chilogrammi di imballi in plastica, di cui solo il 40% viene riciclato; tale processo, infatti, presenta non poche criticità, perché la plastica riciclata non torna materia prima, ma per essere utilizzabile deve essere miscelata con una significativa percentuale di plastica nuova, prodotta da idrocarburi. La nuova normativa europea, in fase di approvazione, dovrebbe prevedere l’obbligo a vendere parte dei prodotti in confezioni ricaricabili o riutilizzabili, nonché il divieto di utilizzare imballaggi “chiaramente inutili”. Nell’ “head quarter” dell’impresa a Borgoricco, la più recente novità si chiama “dBase” ed è un innovativo tubo in cartone a lunghezza variabile, chiuso da un nastrino in carta riciclabile così come l’etichetta; l’idea è frutto dell’esperienza del team di Idrobase, un’industria dove la transizione ecologica è vissuta con coerenti scelte produttive. Così, perseguendo una visione olistica dell’azienda, dopo quello per i dipendenti con la creazione di innovativi spazi di lavoro privi di inquinanti, è ora il momento di accelerare per il benessere del Pianeta, riducendo il numero degli imballaggi destinati ad accogliere pezzi e minuterie di ricambio: fatti in cartone riciclabile, sono prodotti “a chilometri zero”, valorizzando il tessuto produttivo locale. “Nei prossimi 3 anni – indica Bruno Gazzignato, Contitolare di Idrobase Group - è previsto che, per la sola divisione Dolly Spare Parts, cioè i ricambi per le pompe, quasi un milione di blisters in plastica saranno sostituiti con i tubi in cartone; la loro lunghezza variabile permetterà di ridurre del 35%, il numero delle tipologie di scatole.” Non solo: come annunciato per contrastare i furti di identità aziendale, ora ogni singolo pezzo viene marchiato a laser, riproducendo i loghi Idrobase e Made in Italy. “Stiamo costruendo l’azienda del futuro, dove sostenibilità ambientale, economica e sociale devono coesistere – conclude Bruno Ferrarese - Non solo: stiamo innovando per rendere difficile il lavoro dei copiatori seriali perchè, anche in questo, prevenire è meglio che curare.”
Novità in casa Musikrooms nell’attesa di completare il cartellone del prossimo Festival Chitarristico Internazionale delle Due Città Treviso-Venezia: "Svadhisthana", il nuovo singolo del compositore e chitarrista trevigiano, Andrea Vettoretti, è appena uscito su tutte le piattaforme digitali, pubblicato da Compagnia Nuove Indye, con cui l’artista lavora in esclusiva. "Svadhisthana – precisa il Direttore Artistico del Festival delle Due Città - vuole essere un'ode musicale alla creatività ed alla passione, un viaggio sonoro attraverso il secondo chakra dell'essere umano, secondo la tradizione induista.” Il brano si apre con suoni evocativi della foresta pluviale, dove la pioggia ed altri echi misteriosi creano un fluire continuo di emozioni, immergendo l'ascoltatore in un luogo sospeso tra realtà e sogno. La melodia, intrisa di malinconia e mistero, evoca immagini di paesaggi interiori, ricchi di colori e sfumature; Vettoretti dipinge con le note, creando quadri sonori, che si trasformano attraverso variazioni ritmiche e dinamiche. "Svadhisthana" è una poesia senza parole ed invita l'ascoltatore ad esplorare la propria sfera emotiva più profonda: è come se il brano aprisse le porte di un tempio segreto, invitando ad esplorare il vasto paesaggio dell'anima attraverso le sue armonie incantate.
“Il furto d’identità aziendale colpisce un crescente numero di imprese italiane, che non lo segnalano, perché rassegnate all’impossibilità di essere tutelate sui mercati della globalizzazione. E’ ormai un vero e proprio attacco del malaffare internazionale al made in Italy delle piccole e medie aziende, che garantiscono riconosciuta qualità, ma hanno difficoltà a fare sistema”: a denunciarlo è Bruno Ferrarese, contitolare della veneta Idrobase Group e che, nel passaggio d’anno, ha reso nota la strategia aziendale per contrastare il fenomeno criminoso che, unitamente alla difficile congiuntura internazionale, ha causato una contrazione di fatturato (10%), cui si risponde con l’obbiettivo 2024 di un +20% su un bilancio, che si attesta a circa 12 milioni di euro. Presente in 92 Paesi, Idrobase Group è leader nell’utilizzo delle tecnologie del “respirare sano” (apparecchi anti virus, nebulizzazione idrica, idropulitrici…) e promotrice di reti d’impresa nei settori del “car washing” e dell’abbattimento delle polveri (PM 2.5 e PM 10) in ambienti industriali. “Per sconfiggere l’industria dei copiatori, particolarmente diffusa sui mercati emergenti, abbiamo deciso di aggredire il loro core business, abbassando i prezzi, ma continuando a garantire la qualità del made in Italy – aggiunge l’altro contitolare, Bruno Gazzignato - Per riuscirci, mantenendo occupazione e redditività aziendale nella speranza di incisivi provvedimenti delle autorità competenti ad ogni livello per il contrasto al malaffare, stiamo ottimizzando la filiera produttiva, affiancando l’efficienza della metodologia Lean-Toyota alla rivoluzione logistica degli spazi lavorativi che, ponendo l’individuo al centro, massimizzano le potenzialità del team, indispensabile alla crescita aziendale. Dopo le tante energie economiche e creative, spese nella ricostruzione dell’ head quarter padovano a Borgoricco dopo l’incendio del 2022, stiamo passando da un’organizzazione aziendale verticale ad una orizzontale, accorciando le procedure decisionali; tutto ciò permette anche di liberare risorse umane, consentendoci di sviluppare internamente segmenti del ciclo produttivo. Non avere paura di sbagliare è il claim, che vogliamo ci accompagni nell’anno appena iniziato.” “L’obbiettivo – precisa Ferrarese - è di ridurre i costi, continuando a garantire la qualità del made in Italy per tutelare il valore del nostro brand e battere, sul piano dei prezzi, la concorrenza sleale. Questo è il nostro impegno aziendale, che deve però essere affiancato da una risposta di sistema, guidata dalle autorità politiche competenti e che coinvolga tutti gli attori: associazioni imprenditoriali, sindacati, organizzazioni di mercato. A loro ci appelliamo per bloccare i furti d’identità aziendali, perché solo insieme possiamo tutelare il made in Italy, garantendo futuro anche internazionale all’imprenditoria medio-piccola, asse portante del nostro modello economico.”
Dopo la contraffazione di prodotto e l’ “italian sounding” nel settore agroalimentare è il furto d’identità aziendale nel comparto industriale, la nuova frontiera del malaffare internazionale ai danni delle imprese italiane. A segnalarlo è Idrobase Group, l’industria padovana, leader nell’utilizzo delle tecnologie del “respirare sano” (apparecchi anti virus, nebulizzazione idrica, idropulitrici…) , alla cui crescita sui mercati globalizzati fa da contraltare la riproduzione del logo aziendale accanto a prodotti, che nulla hanno a che fare con la casa madre. “Si sfrutta la credibilità del marchio Idrobase per affiancarlo a prodotti estranei al nostro core business. E’ il danno peggiore – commenta Bruno Ferrarese, uno dei due titolari del gruppo veneto – perché svilisce il valore del brand, basato sulla reputazione aziendale e del made in Italy. Adiremo le vie legali per tutelarci.” “Proprio, perché consci della nostra crescita e delle insidie, che comporta – sottolinea Bruno Gazzignato, l’altro contitolare di Idrobase Group – da qualche mese abbiamo lanciato una strategia di rapporti più diretti con i distributori: dalla Corea alla Francia, dalla Spagna ai Paesi nordici. Ciò per meglio controllare la filiera dei prodotti e garantire la loro origine.” “Nonostante i marchi siano internazionalmente protetti, le aziende italiane sono sostanzialmente indifese di fronte alle multinazionali del crimine, con grave danno economico e di immagine; d’altronde il fenomeno della contraffazione dei prodotti industriali è presente in tutti i Paesi emergenti ed è in crescita nelle nazioni sviluppate. Contro il malaffare internazionale bisogna aumentare la capacità di fare sistema” aggiunge Bruno Ferrarese. A proposito di sistema, una buona notizia arriva infine dal progetto Safebreath.net, la rete d’impresa mirata alle tecnologie per l’abbattimento delle polveri sottili, che si generano nei siti industriali (PM2.5 e PM10): con l’anno nuovo, insieme alle partner Sibilia e MVT, Idrobase Group sarà presente alla grande Conferenza sulle Polveri, che si terrà al Cairo ed al successivo salone The Big5 Construct Saudi 2024, previsto in Febbraio a Riyadh, in Arabia Saudita.
Anche nel Veneto è una corsa contro il tempo per migliaia di cantieri edili e proprietari d’appartamento: per questo, anche ANACI (Associazione Nazionale Amministratori Condominiali ed Immobiliari) regionale chiede al Governo di valutare una proroga dei lavori in corso, relativi al superbonus 110%, in quanto rischiano di rimanere incompiuti per l’impossibilità dei condòmini di pagare eventuali, ulteriori importi dopo il 31 Dicembre 2023. “Chiediamo tale proroga – dichiara Lino Bertin, Presidente di ANACI Veneto - perchè i cittadini, fidandosi dello Stato ed utilizzando il superbonus 110%, hanno commissionato lavori per riqualificare il proprio condominio ed ora rischiano di non terminarli o di pagare cifre anche molto elevate per le continue modifiche della normativa. La legge di bilancio 2023 deve offrire una soluzione, evitando pesanti conseguenze sociali ed economiche, oltre ad una grande mole di contenziosi per tutta la filiera delle costruzioni e dei professionisti. Prendiamo atto – prosegue Bertin – che si è conclusa la stagione del 110% ed è necessario aprire un confronto complessivo sul futuro dell’efficientamento degli edifici in Italia. Per recuperare i ritardi accumulati è però assolutamente necessaria una proroga, tale da permettere una conclusione ordinata degli interventi in atto, evitando la perdita di migliaia di posti di lavoro, causata dalla sicura interruzione di molti cantieri per l’insorgere di contenziosi tra condomìni ed imprese, smorzando al contempo la pressione per terminare velocemente i lavori con conseguente rischio sia per la sicurezza nei cantieri, sia per la qualità degli interventi eseguiti.” Secondo ANACI Veneto, la proroga limitata ai soli interventi che dimostrino un concreto avanzamento del cantiere, potrebbe risolvere tali problemi con un costo contenuto per le casse dello Stato, assai inferiore al caos sociale ed economico, che si determinerebbe, lasciando invariata la scadenza a Dicembre.”
Ecco un’inaugurazione degna di questo nome, della quale la Fenice può essere orgogliosa. Come prima tappa della stagione Lirica e Balletto 2023-2024, infatti, è stata scelta “Les Contes d’Hoffmann” di Jacques Offenbach, su libretto che Jules Barbier trasse da una commedia omonima sua e di Michel Carré, a sua volta ispirata ai racconti dello scrittore tedesco E.T.A. Hoffmann. “Les Contes” fu rappresentata postuma nel 1881 all’Opèra-Comique di Parigi, dopo che il suo autore si era spento l’anno precedente lasciando una partitura incompiuta, che fu completata da Guiraud nella strumentazione e quindi sottoposta a complesse integrazioni e rimaneggiamenti negli anni successivi, al punto che oggi siamo ancora lontani dal disporre di un‘edizione definibile come conclusiva. È prudente lasciare in merito ogni valutazione ai musicologi; qui basti dire, con il maestro Chaslin, che l’esecuzione della Fenice si basa per la maggior parte sulla versione Oeser, risalente agli anni sessanta-settanta dello scorso secolo e ancora oggi la più utilizzata. Ciò premesso, va detto che la divertentissima e inquietante opera di Offenbach, percorsa in ugual misura da risate liberatorie e brividi sulfurei, crogiolo in cui si fondono e decantano stili, toni, motivi ispiratori i più diversi, ha trovato alla Fenice una realizzazione compiuta e convincente nel fantasmagorico spettacolo di Damiano Michieletto, coadiuvato dai suoi collaboratori storici: Paolo Fantin per le scene, Carla Teti per i costumi, Alessandro Carletti per le luci, cui si aggiunge Chiara Vecchi per le coreografie. Si tratta di una coproduzione della Fenice con istituzione prestigiose quali la Sidney Opera House nel cinquantesimo anniversario della fondazione, la Royal Opera House di Londra e l’Opéra National di Lione. La disinibita esplosione di fantasia, di creatività, di visionarietà anche, che contraddistingue questa messa in scena, nel moltiplicarsi delle trovate e degli effetti talvolta proposti più per il loro potenziale di sorpresa e di divertimento che per la loro coerenza intrinseca con l’insieme (due esempi fra i tanti: i fuochi d’artificio che concludono il primo atto e il bravissimo acrobata sui trampoli), sembra la più efficace chiave di lettura per un’opera che, da qualunque parte si cerchi di afferrarla, sfugge sempre alla presa, rifiutando di farsi rinchiudere all’interno di una concezione interpretativa univoca. Dal tourbillon che anima il palcoscenico nel via vai continuo di coristi, ballerini, mimi, emerge comunque la consueta cura con cui Michieletto costruisce i personaggi sul piano teatrale, evidenziando di ognuno la fisionomia attribuitagli dal dramma attraverso lo studio perspicace e meticoloso di gesti ed atteggiamenti. È un’abilità, ma anche uno scrupolo diligente figlio di una severa professionalità, che contraddistingue il regista vero, categoria alla quale Michieletto appartiene a pieno titolo. Tutte le altre componenti dello spettacolo collaborano con coerenza ed efficacia alla realizzazione della concezione registica: le scene semplici e funzionali, insieme alle luci che, nette e con poche sfumature, variano sui toni pastello tranne l’atto di Giulietta, sottolineano la componente giocosa, quasi infantile, ben presente nella lettura di Michieletto. Questi, anche nel finale quando chiama tutti i personaggi al proscenio, sembra invitarci a non prendere troppo sul serio la vena diabolica che percorre l’opera ma a scherzarci su divertendoci tutti insieme per la bella rappresentazione. E poi i costumi, anch’essi simpaticamente e chiassosamente fantasiosi con una sottolineatura per quello di Nicklausse, trasformato in una sorta di iridescente e leggiadra fata-farfalla. E le coreografie, infine, sempre vivaci e divertenti. Va anche detto che la sovrabbondante fantasia di Michieletto, per quanto sbrigliata e disinibita come si è detto, si esprime secondo una logica coerente. Il viaggio realistico-onirico-simbolico di Hoffmann, infatti, è restituito come un percorso esistenziale e sentimentale attraverso le varie età del protagonista, ognuna delle quali è segnata da una presenza femminile diversa ma ugualmente evocativa ed affascinante. Che poi le tre figure femminili, come canta lo stesso Hoffmann all’inizio dell’opera e come ribadisce Nicklausse nel finale, non siano altro che tre donne nella stessa donna, tre anime nella stessa anima, e finiscano poi per identificarsi con la figura fantomatica ed essenzialmente immaginaria della cantante-diva Stella, è pur vero. Ma è altrettanto vero che Stella, l’eterno femminino, è immaginata e vagheggiata da Hoffmann in maniera diversa nei tre atti e Michieletto opportunamente declina questa diversità in base alle diverse età del protagonista. Ecco allora Hoffmann, visto nel Prologo come un clochard disperato e beone ma ancora ravvivato da qualche scintilla dell’antico genio poetico, che si vede (Primo Atto) ragazzino in un’aula scolastica con tanto di banchi e lavagna e bidello neghittoso, mentre dà corpo e anima, col suo innamoramento tutto cuore ed immaginazione come capita agli adolescenti, ad una ragazza, Olympia, che esiste solo nel suo desiderio. Lo ritroviamo poi uomo giovane nell’atto di Antonia, capace di un sentimento forte, concreto, passionale verso una donna provata, di cui è capace di condividere la sofferenza: non una cantante alla quale è proibito cantare perché esiziale per la sua salute, ma una ballerina ammalata che non può più esibirsi. Ma il canto resta, ovviamente, perché previsto da libretto e partitura, fattore di un’esaltazione sublime, talmente rapinosa ed ineffabile da condure alla morte; per cui si crea uno scollamento sgradevole e disorientante tra ciò che si vede e ciò che si sente. Tuttavia la scelta, in sé assai discutibile, permette a Michieletto di dare vita ad un momento di teatro intensamente poetico, grazie alla riuscita ambientazione all’interno di una sala da ballo e ad alcune invenzioni di alto livello registico. Non ci si riferisce al patetico barcollare di Antonia quando vuole abbandonarsi all’abbraccio del suo innamorato, un effetto in sé fin troppo facile, ma piuttosto alla intuizione di dare corpo alla nostalgia della donna per il suo passato di ballerina portando in scena lei stessa bambina che volteggia in tutù, piena di sogni che sono stati frustrati dalla malattia. A quella piccola Antonia, la giovane donna provata dalla sorte si rivolge con tenerezza e struggimento nell’aria della Tortorella, che è fuggita e rappresenta un “ricordo troppo dolce”, un’”immagine troppo crudele”; così come lo è la memoria di sé stessa bambina felice, che si abbandona liberamente alla danza e dalla quale vorrebbe farsi aiutare per rialzarsi, quasi a cercare nel suo felice passato un sostegno per sopportare un presente troppo duro. L’amore adulto può essere solo quello consumato in un night con una cortigiana? Certo che no, ma così lo rivive o lo immagina Hoffmann nel Terzo Atto, quello di Giulietta, forse il meno risolto anche per la difficoltà di cogliere il senso di una drammaturgia involuta e poco chiara. Nell’Epilogo, poi, si ritorna là dove tutto era cominciato, cioè nella taverna, ove, come si è detto, si propone una soluzione disimpegnata e rasserenante dell’intricata vicenda. Il momento centrale è rappresentato dalla comparsa di Stella che si rivela essere il diavolo travestito: a confermare che il lungo sogno sentimentale ed erotico di Hoffmann non aveva nulla di buono e di reale, ma era solo lo sberleffo crudele di un diavolo malignamente dispettoso. La piena riuscita dello spettacolo, salutato con entusiasmo alla serale di giovedì 30 novembre, è stata garantita anche dalla presenza di un cast di alto livello e di qualità assoluta in alcuni ruoli. Ivan Ayon Rivas, tenore peruviano di soli trent’anni, è un Hoffmann pressoché ideale per la presenza fisica disinvolta e insieme dimessa, talvolta quasi impacciata, da antieroe che fa della sua stessa fragilità una personale cifra identitaria oltre che uno stile di approccio all’universo femminile. Lo strumento, poi, è sano, risonante, assolutamente resistente al ruolo impervio, dal timbro squillante e smaltato. Attenzione però alla zona acuta, ove, forse per un’eccessiva facilità di esecuzione e per l’esuberanza del giovane artista, l’emissione potrebbe essere più controllata e raccolta. Alex Esposito si fa carico dei quattro personaggi diabolici donando al pubblico una interpretazione di altissimo livello, forse la sua migliore fra quelle presentate sul palcoscenico della Fenice. Il suo proverbiale estro di attore consumato ha qui modo di esprimersi in pienezza e la voce, timbrata, robusta, bene emessa e controllata con ammirevole bravura nonostante l’impegno attoriale richiesto, lo sostiene dall’inizio alla fine. Una convinta ammirazione deve essere rivolta a questo artista che non usa le doti sceniche per farsi perdonare un canto discutibile, ma le accompagna ad un patrimonio vocale di tutto rispetto, gestito con grande padronanza e professionalità. Il soprano spagnolo Rocìo Pérez è un’Olympia caratterizzata con efficacia ma anche con misura sul piano scenico, attraverso una garbata e divertita ironia che sostituisce felicemente certi eccessivi scivolamenti caricaturali che possono risultare stucchevoli. La voce, poi, suona più rotonda e pastosa di quelle che si è soliti ascoltare in questo ruolo, anche se gli appuntamenti virtuosistici sono tutti onorati con sicurezza. Carmela Remigio ha modo di usare al meglio le proprie consumate doti di cantante-attrice nel ruolo di Antonia, cui dona un’intensità drammatica ed una partecipazione emotiva veramente toccanti. E pazienza se qualche suono in acuto risulta un po’ duro, perché un’artista di questa classe, capace sempre di una profonda immedesimazione teatrale e musicale nelle parti che affronta, non può essere valutata con il metro pedante ed ottuso di un Beckmesser. Meno riuscita, sebbene del tutto adeguata, è sembrata la Giulietta del soprano Véronique Gens, forse per una forma vocale non ottimale che non le ha permesso di rendere al meglio la componente sensuale e seduttiva, essenziale in questo ruolo. Le parti di fianco, come si sa numerose ed impegnative, svariano nella valutazione dal bravissimo al bravo: dal Nicklausse simpatico e sbarazzino, sostenuto da una voce di buona qualità, ben emessa e bene impostata, del mezzosoprano Giuseppina Bridelli, alla impagabile Muse, immaginata come una signora borghese molto per bene e un po’ affettata, dell’altro mezzosoprano Paola Gardina, al Frantz irresistibile, centratissimo e vocalmente all’altezza del tenore Didier Peri (ma è anche Andrès, Cochenille e Pitichinaccio), al Nathanaёl del tenore Christian Collia, allo Spalanzani del collega di registro Franҫois Piolino, agli Hermann e Schlémil del baritono Yoann Dubruque e, ultimo ma tutt’altro che ultimo, ai Luther e Crespel del basso Francesco Milanese. L’elenco è lungo ma tutti meritano di essere almeno menzionati. Meno convincente è sembrato soltanto l’intervento, poco intenso emotivamente e poco trascinante forse per l’accompagnamento un po’ slentato dal podio, del mezzosoprano Federica Giansanti come Voix de la mère nell’atto di Antonia. E a proposito di podio, questo era occupato dal maestro parigino Frédéric Chaslin, che, prima dello spettacolo inaugurale della Fenice, aveva già diretto ben settecentotrentadue recite di quest’opera dopo il debutto assoluto avvenuto ancora nel nostro teatro nel 1994. Uno specialista, dunque, la cui competenza ed esperienza non può essere messa in discussione e si evidenzia nella sensibilità con cui dà il giusto risalto ad alcuni raffinati accompagnamenti. Peccato, invece, che altri momenti siano caratterizzati da sonorità eccessive e da un’impostazione un po’ greve, a discapito della leggerezza e della brillantezza, caratteristiche identitarie di quest’opera. Il coro del Teatro, infine. Diretto da Alfonso Caiani, si è bravamente disimpegnato sul piano scenico e ha dato il meglio di sé su quello vocale, anche se un maggiore controllo ed omogeneità del suono in alcuni passi in fortissimo sarebbe preferibile. Adolfo Andrighetti
I falsi miti alimentari, che corrono in rete, stanno evidenziando conseguenze sulla salute collettiva, anche nelle giovani generazioni, toccando punte del 42% di obesità nella fascia fra i 5 ed i 9 anni : l’allarme è stato lanciato nel corso del convegno “Dal grano al pane” che, per iniziativa di Molino Rachello, ha sancito a Venezia e Treviso una rinnovata collaborazione fra i mondi di sanità, università, impresa e ricerca; tre le parole d’ordine: credibilità, buon senso, sostenibilità. In Italia si coltivano 600.000 ettari a frumento tenero, pari a 3 milioni di tonnellate di grano, cioè il 40% del fabbisogno del Paese; pane e cereali rappresentano il 16% della spesa alimentare di un nucleo familiare. Le disinformazioni riguardanti farine, glutine e lievito, presenti sul web rappresentano ormai un problema serio e diffuso: le false informazioni vengono rilanciate non solo da fonti anonime, ma anche da “influencer” e, in alcuni casi, si assiste alla promozione di diete o regimi alimentari basati su credenze non supportate dalla scienza, mettendo a rischio la salute della popolazione. A suffragare le preoccupazioni sul “marketing disinformante” è una ricerca dell’Agrifood Management and Innovation Lab dell’Università veneziana di Ca’ Foscari, che segnala come solo il 13% della popolazione segua la dieta mediterranea, ma soprattutto viga una diffusa, mancata conoscenza del significato e dei valori del cibo: un analfabetismo alimentare, che si limita al conteggio delle calorie e, forse, alla lettura degli ingredienti. Da qui l’invito ad un maggiore ruolo proattivo delle aziende agroalimentari del Nordest verso i consumatori, con i quali è necessario stabilire un linguaggio comune, ad iniziare dal differenziare informazione ed artificio commerciale, come nel caso dei cosiddetti grani antichi. “Il grano, che rappresenta il 20% delle calorie e proteine consumate al mondo – precisa Luigi Cattivelli, direttore del Centro Ricerca e Genomica del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), nonché autore del libro “Pane nostro” - è una pianta in continua autoevoluzione per adattarsi alle diverse condizioni climatiche, altrimenti non potrebbe essere coltivato sia in Kenia che in Norvegia. Soprattutto di fronte all’evidente crisi climatica sul Pianeta, non è quindi possibile riproporre su larga scala le varietà di una volta, organoletticamente inferiori, nonchè meno produttive e quindi economicamente non sostenibili.” Quello del coniugare sostenibilità ambientale ed economica, quindi sociale, è invece l’asset del progetto Oasi di Molino Rachello. “A fronte di una tracciabilità certificata dal campo alla tavola per garantire grano coltivato senza inutili trattamenti e concimazioni, riusciamo ad assicurare maggiore redditività alle imprese agricole coinvolte” afferma Gabriele Rachello, direttore generale dell’azienda molitoria, che ha sede a Musestre. “Alcune false affermazioni sul glutine – aggiunge il dietista clinico, Maurizio Fadda, docente all’Università di Torino - possono indurre a restrizioni alimentari non necessarie, con conseguenti carenze nutrizionali; inoltre, informazioni sbagliate sull’utilizzo di lievito e farine possono comportare scelte dietetiche non equilibrate o comportamenti alimentari disfunzionali.” I carboidrati sono uno dei tre principali macronutrienti essenziali per il nostro organismo, insieme alle proteine e ai grassi; un consumo equilibrato di carboidrati è cruciale per una dieta sana e bilanciata: essi forniscono non solo energia, ma anche importanti sostanze nutrienti come vitamine, minerali e fibre; vanno preferite fonti di carboidrati complessi, come cereali integrali, legumi e verdure. Il glutine è una proteina presente naturalmente in alcuni cereali come il grano, l'orzo e la segale, che sono anche fonti importanti di fibre, vitamine del gruppo B e minerali come il ferro; l'adozione di una dieta priva di glutine senza una vera necessità può portare ad una carenza di questi nutrienti essenziali. Inoltre, molti prodotti senza glutine spesso contengono ingredienti sostitutivi, che possono essere più ricchi di grassi, zuccheri o additivi per migliorarne la consistenza o il sapore. “Quindi – conclude Fadda - per coloro che non sono affetti da celiachia, non è necessario evitare il glutine e farlo potrebbe comportare carenze nutrizionali.” In conclusione, i rischi delle disinformazioni in ambito nutrizionale (soprattutto su farine, glutine e lievito) sono significativi e richiedono azioni immediate: educare il consumatore, promuovere pratiche oneste da parte dei professionisti della nutrizione ed incoraggiare le piattaforme on-line a combattere le “bufale” sono passi cruciali verso una migliore alfabetizzazione nutrizionale ed una salute pubblica più forte e resiliente. Alla giornata contro la disinformazione alimentare hanno portato il loro contributo anche Christine Mauracher, docente Università Ca’ Foscari Venezia; Gianni Rachello, contitolare Molino Rachello; Danilo Gasparini, docente Università Padova; Massimo Gorghetto, presidente Unione Regionale Veneto Panificatori; Giuseppina Girlando, direttrice Servizio Igiene Alimenti e Nutrizione ULSS2; Pierpaolo Caldart, responsabile Area Economica Coldiretti Treviso; Stefano Guerrini, direttore Consorzio Maiscoltori e Cerealicoltori del Piave.

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“Dorilla in Tempe”, secondo il libretto del veneziano Antonio Maria Lucchini, oppure più semplicemente “La Dorilla”, come riporta la partitura autografa secondo l’uso di Vivaldi di premettere l’articolo determinativo al titolo delle proprie opere, andò in scena il 9 novembre 1726 al Teatro Sant’Angelo di Venezia. È un periodo particolarmente fecondo ed impegnativo per il musicista, che alterna un’intensa attività di compositore con quella di impresario – ma lui si definiva direttore delle opere in musica – dello stesso Teatro Sant’Angelo. Ed è proprio con questo incarico, oltre che con la prassi costante e diffusa nell’epoca, che si spiega la trasformazione della partitura originale nell’unica nota oggi, un pasticcio in cui otto arie della prima rappresentazione sono sostituite con altrettanti pezzi di autori coevi soprattutto di scuola napoletana: Johann Adolf Hasse (“Mi lusinga il dolce affetto”, “Saprò ben con petto forte”, “Non ha più pace”), Geminiano Giacomelli (“Rete, lacci e strali”, “Bel piacer saria d’un core”, “Non vo’ che un infedele”), Domenico Sarro (“Se ostinata a me resisti”), Leonardo Leo (“Vorrei dai lacci sciogliere”). Che cosa, infatti, avrebbe potuto convincere Vivaldi, all’epoca già celebre, a rinunciare ad una parte della musica da lui già scritta e accolta da un grande successo, per riproporla contaminata, diremmo oggi, ma allora si sarebbe detto arricchita, con musica di altri autori concorrenti? Si potrebbe rispondere: la volontà di confermare il successo ottenuto come compositore con uno, altrettanto grande, da conseguirsi come impresario, venendo incontro ai gusti del pubblico che era abituato ai pasticci e non solo non se ne scandalizzava, ma li accoglieva con piacere, con soddisfazione, soprattutto in apertura di stagione. Perché all’epoca, giova ribadirlo, era il palcoscenico a conferire vita e significato allo spettacolo musicale: tutto quello che avveniva prima – autoimprestiti da parte dello stesso compositore, prestiti da altri compositori, rimaneggiamenti e adattamenti vari per venire incontro alle esigenze dei cantanti, dei teatri, delle piazze diverse ecc. ecc. – era ininfluente. Ciò che contava era quello che si ascoltava e si vedeva in scena, se era meraviglioso, sorprendente, commovente, oppure no. Ed è così che anche oggi viene rappresentato, sotto il titolo di “Dorilla in Tempe”, un pasticcio, quello presentato il 2 febbraio del 1734 ancora al Teatro Sant’Angelo di Venezia. “Dorilla in Tempe” è un melodramma eroico-pastorale in tre atti. La definizione individua e circoscrive con esattezza la drammaturgia, che prevede, intrecciati con i consueti intrighi sentimentali, momenti ad alta tensione, riconducibili al tradizionale contrasto fra la purezza dei sentimenti e la logica del potere. Può essere il potere soprannaturale, rappresentato dal mostro marino Pitone, al quale l’oracolo decide si debba sacrificare la protagonista per salvare la città di Tempe; oppure il potere umano, ammantato comunque anch’esso da un’aura di divinità, incarnato da Admeto re di Tessaglia, che dispone prima il sacrificio della figlia per salvare la collettività e poi la condanna a morte del suo innamorato, il pastore Elmiro, che vuole sposarla contro la volontà del sovrano. Ma c’è anche un potere che assume i caratteri dell’autorità benevola, quello di Apollo, che, dopo aver partecipato direttamente alla vicenda come innamorato della protagonista, giunge alla fine da deus ex machina a sciogliere ogni nodo e a comporre ogni contrasto. L’intreccio eroico-sentimentale si svolge, come dice appunto la dicitura dell’opera, all’interno di un classico ambiente pastorale, segnato tradizionalmente dalla pace e dalla serenità, prima turbato dai drammatici avvenimenti e poi restituito alla sua condizione naturale dall’intervento risolutore di Apollo. La natura, complice anche la stagione primaverile, fa da sfondo ridente ed amichevole. E a proposito di primavera, è interessante notare come il tema della celebre “Primavera” di Vivaldi - il primo concerto della raccolta “Il cimento dell’armonia e dell’inventione”, precedente alla “Dorilla” perché pubblicata nel 1725 – compare per due volte proprio all’inizio del melodramma: prima nella sinfonia e poi nel coro introduttivo. “Dorilla in Tempe”, una nuova produzione in scena al Teatro Malibran, rappresenta l’ultimo esito del meritorio percorso intrapreso dalla Fenice nella riscoperta del Vivaldi operista; un percorso che ha preso avvio nel 2007 con la messa in scena di “Ercole sul Termodonte” e “Bajazet”, per poi proseguire nel 2015 con la rappresentazione in forma scenica dell’oratorio “Juditha triumphans” e quindi consolidarsi, con cadenza annuale, nel 2018 con “Orlando furioso” e, nella presente stagione, appunto con “La Dorilla”. L’esecuzione di quest’ultima, al Malibran, è stata accolta da un caldissimo successo di pubblico, particolarmente apprezzabile e quasi sorprendente in quanto tributato non ad un’opera di repertorio, ma ad uno sconosciuto lavoro dell’epoca barocca: un esito che ci si augura possa attribuirsi anche ad una positiva evoluzione del gusto degli appassionati d’opera, perché non si adagi sul risaputo ma possa aprirsi con curiosità e disponibilità a tutto ciò che il teatro in musica ha offerto fino ad oggi. Il grande successo va ascritto in primo luogo alla eccellente qualità dell’esecuzione musicale. Il maestro Diego Fasolis, ottimamente coadiuvato dall’Orchestra della Fenice integrata per il basso continuo da elementi dell’ensemble “I barocchisti” da lui stesso guidati, ha dato il meglio di sé e della sua prestigiosa esperienza di antichista, riscoprendo la freschezza, la vitalità e l’appeal di una partitura affascinante ma appartenente ad un universo culturale e artistico affatto distante dal nostro. Per rinnovare l’interesse attorno a questo repertorio è necessario farne emergere tutta la bellezza estrosa e rutilante, nonché la strepitosa energia ritmica. È ciò che riesce a Fasolis, il quale ci dimostra che, nell’arte, il tempo è un fattore relativo, se si possiede la sensibilità per enucleare l’anima di un’opera e la perizia tecnica per restituirla, sorprendentemente fresca, al pubblico. Di alto livello, omogeneo e perfettamente affiatato, il cast, che si impone prima di tutto per pertinenza stilistica e preparazione musicale, ma anche per l’apprezzabile qualità generale delle voci, che risuonano bravamente nel teatro con suoni pieni, belli e rotondi. Aiuta, e come, ai fini dell’esito complessivo della prestazione, essere concertati, sostenuti ed accompagnati da una mano sicura come quella di Fasolis. Ma quanta bravura ed applicazione e talento si incontrano in questi artisti! La menzione d’onore va riconosciuta, a giudizio di chi scrive, all’Elmiro del mezzosoprano Lucia Cirillo, dall’emissione sempre salda ed omogenea, dalla appassionata sensibilità espressiva, dalla ammirevole perfezione esecutiva. Non sono da meno la Dorilla del mezzosoprano Manuela Custer, che emerge per la sicurezza con cui esegue le proprie arie e il Nomio-Apollo, superbo, grandioso, vocalmente assertivo, del mezzosoprano USA Véronique Valdés. Al terzetto che si potrebbe definire nobile per usare il linguaggio della commedia dell’arte, si contrappone quello non diremo buffo, ché il termine sarebbe esagerato, ma da commedia certamente sì. Lo compongono l’Eudamia del contralto Valeria Girardello, che ci dona la gustosa caratterizzazione di una fatalona un po’ volgarotta e fisicamente esuberante; il Filindo del mezzosoprano Rosa Bove, assai vivace sul piano scenico e molto espressivo su quello vocale nonostante qualche stridore in zona acuta durante la prima aria; l’Admeto del baritono Michele Patti, apprezzabile anche perché impegnato nell’interpretazione di un ruolo drammaticamente ambiguo e quindi non facile, sempre in bilico fra la caricatura di un re da burla e la serietà minacciosa del detentore del potere. Da elogiare, come sempre, la prova del Coro del Teatro condotto da Claudio Marino Moretti. Di apprezzabile fattura lo spettacolo concepito dal regista Fabio Ceresa – applaudito responsabile dell’ “Orlando furioso” dello scorso anno – con la collaborazione di Massimo Checchetto (scene), Giuseppe Palella (costumi), Fabio Barettin (luci), Mattia Agatiello (coreografie). L’idea di fondo, impegnativa perché da giocarsi sul filo del rasoio di una continua alternanza fra generi e atmosfere diverse, è quella di non prendere sul serio il dramma, cercandone la componente comica e anche inventandola laddove il libretto non sembrerebbe autorizzarla, ma senza trascurare, soprattutto nella parte finale dell’opera ove i due protagonisti morirebbero se non intervenisse Apollo, gli spunti patetici e anche tragici che la vicenda propone. L’operazione è condotta con fantasia sbrigliata, ma insieme con gusto, con misura e senza particolari forzature, per cui il risultato complessivo è apprezzabile e godibile. Per conferire un tocco di realismo e un po’ di movimento cronologico ad una drammaturgia del tutto statica ed astratta, il regista ha pensato di rappresentare lo scorrere delle stagioni, anzi di alludervi con delicatezza: ecco dunque la neve, all’inizio dell’opera, subito sostituita da festoni di fiori all’echeggiare del tema della “Primavera”; seguono, rappresentati da cascate ornamentali di foglie e fiori che scendono dalla scalinata, l’estate e l’autunno, pittorescamente colorato, fino al ritorno della neve, che cade sulle sofferenze della coppia perseguitata, e all’apoteosi conclusiva, ove, in uno sfolgorio d’oro, avviene l’epifania di Apollo. Molto importante, ai fini dell’esito complessivo dello spettacolo, l’apporto dei ballerini della Fattoria Vittadini, che arricchiscono e completano ogni scena con una presenza appropriata, incisiva, originale, ma mai ingombrante o fuori tono. Il giusto merito va riconosciuto anche a scene e costumi, che contribuiscono a proiettare la vicenda in un contesto atemporale di favola, ove, come in tutte le favole, il male esiste e incombe minaccioso, ma, alla fine, non va preso troppo sul serio e si sgonfia, grazie all’intervento di un’autorità che mette le cose a posto. La scena consiste di una doppia scalinata bianca di ispirazione neoclassica, che si apre al centro per consentire il traffico dei personaggi e si congiunge in alto in un praticabile. Il candore della scalinata e di una parte dei costumi, esaltato dal fondale nero, è ravvivato da un gioco cromatico quanto mai vario e vivace, a tratti sfavillante, cui partecipano altri costumi e i vari elementi ornamentali. E, a proposito dei costumi, simpaticamente ascrivibili ad un mondo mitico rivisto come una coloratissima favola, va doverosamente ricordato che l’artefice, Giuseppe Palella, ha ottenuto il Premio Abbiati 2018, il più prestigioso riconoscimento esistente in Italia in campo operistico, come costumista del già citato “Orlando furioso” del Malibran. Fondamentale anche l’apporto delle luci, che intervengono con puntualità ed efficacia a sottolineare i vari momenti psicologici ed emotivi della vicenda. La pomeridiana di domenica 5 maggio, cui si riferiscono queste note, ha riscosso, come già accennato, un successo calorosissimo, segnato dalla partecipazione viva e convinta del pubblico, che ha applaudito a scena aperta ogni aria dell’opera. Adolfo Andrighetti

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