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Alla Fenice torna a brillare un Mozart ‘minore’

04/03/2019
Alla Fenice torna a brillare un Mozart ‘minore’Correva l’anno 1775 quando l’arcivescovo Colloredo, autoritario vescovo conte di Salisburgo, commissionò al diciannovenne Mozart un’opera per l’arrivo in città del principe Maximilian Franz, ultimogenito dell’imperatrice Maria Teresa. Colloredo scelse anche il testo da musicare, “Il re pastore” scritto da Metastasio nel 1751, forse gradito all’arcivescovo per i suoi contenuti edificanti e adatti all’occasione celebrativa. Infatti, attraverso l’esilissima vicenda ed i versi rotondi del sommo poeta teatrale, viene reso omaggio ad Alessandro Magno, nel quale l’illustre rampollo di Maria Teresa poteva agevolmente identificarsi. Ad ogni buon conto, il testo fu ridotto e rimaneggiato per portarlo entro i limiti imposti dall’occasione.
Si racconta che il grande condottiero, dopo essere giunto a Sidone ed averla liberata dal tiranno ed usurpatore Stratone, metta sul trono il re legittimo, Aminta, che fino a quel momento era vissuto, ignaro della propria grandezza, esercitando il mestiere di pastore. Inoltre, quando Alessandro si rende conto che il matrimonio “politico”, da lui immaginato, fra Aminta e la figlia del dittatore deposto, Tamiri, non è possibile perché l’ex pastore ama Elisa e Tamiri, a sua volta, è innamorata di Agenore, cambia rapidamente programma e lascia che le coppie si uniscano secondo l’amore e non la ragion di Stato.
Su tutto e su tutti, quindi, emerge la figura di Alessandro Magno, che incarna il topos, così diffuso all’epoca, del sovrano illuminato, mostrandosi disinteressato (non vuole esercitare il potere su Sidone), giusto (restituisce la città al re legittimo), magnanimo (benedice due matrimoni anche se non corrispondono ai propri disegni). E quando il coro, nel finale, canta “Viva l’invitto duce, viva del cielo il dono, più caro al nostro cor”, omaggia Alessandro Magno ma in realtà rivolge quelle lodi a Maximilian Franz; e tutti lo sanno, a cominciare dal destinatario, e se ne compiacciono.

Ma, accanto a quello del sovrano illuminato, troviamo un altro topos, risalente addirittura al cinquecento e non ancora scomparso del tutto: è l’arcadia felice, regno di pastori che trascorrono una vita semplice e serena immersi nella natura e rallegrati dall’amore delle ninfe dei boschi o delle acque. Aminta è il degno figlio di questo mondo immaginario e consolante, appagato dalla vita semplice che conduce e pronto a rinunciare al trono e a tornare alle sue pecore se il prezzo del potere è rappresentato dalla perdita dell’amata Elisa.
Anche in questo personaggio umile e schivo ma non dimesso, pronto ad accettare lo scettro che gli offre Alessandro purché non significhi rinnegare se stesso, l’arcivescovo Colloredo poteva trovare motivi di edificazione e di apprezzamento. In particolare, va sottolineato il verso “Sarai buon re se buon pastor sarai”, dalle evidenti reminiscenze evangeliche, rivolto ad Aminta per ricordargli la nuova responsabilità di conduttore del proprio popolo e il legame fra questa e l’umile mestiere fino a quel momento praticato.

“Il re pastore” fu rappresentato il 23 aprile 1775 nella residenza dell’arcivescovo. La musica, secondo il maestro Federico Maria Sardelli, è segnata da un linguaggio più maturo rispetto al “Sogno di Scipione” di cinque anni prima, con arie di una profondità toccante che riflettono l’evoluzione psicologica dei personaggi. Fra queste si segnala soprattutto l’aria di Aminta “L’amerò, sarò costante”, col violino concertante, dalla dolce, sognante melodia soffusa di mestizia. Inoltre, Sardelli fa osservare la varietà dei colori musicali che Mozart riesce ad ottenere con un’orchestra ridotta.
Ed è lo stesso maestro, sul podio della Fenice, a corroborare una partitura erroneamente definita convenzionale, in realtà ricca di spunti melodici, armonici e timbrici, attraverso un’esecuzione estroversa, vitale, dalle sonorità rotonde e piene, sempre sostenuta sul piano ritmico.
Sul palcoscenico, si svolge lo spettacolo firmato da Alessio Pizzech (regia), Davide Amadei (scene), Carla Ricotti (costumi), Claudio Schmid (luci). E va detto che, nella essenzialità della concezione teorica e dei mezzi teatrali usati per realizzarla, trattasi di spettacolo mirabilmente in sintonia con la poetica dell’opera di Mozart. Ne coglie, com’è ovvio, il tema centrale di un potere che ha in sé la forza di mostrarsi illuminato proprio nel momento in cui sembra presentarsi più assoluto ed autoreferenziale. Ma non si accontenta dell’aspetto più scontato del messaggio, che, invece, viene sviluppato fino alle conseguenze ultime, mostrando ciò che ogni genere di potere, illuminato o meno, porta con sé come contraltare della sua stessa grandezza, cioè la componente enfatica e grottesca.
Quindi, ciò che Mozart probabilmente pensava o avrebbe pensato in seguito ma non poteva permettersi di rappresentare, cioè la nudità del re quando pretende di rivestirsi dei più solenni paramenti, viene messo in scena dalla regia, che, in questo modo, rende attuale l’opera d’arte originale senza tradirla, ma, anzi, esplicitando ciò che contiene in nuce. Sono, quindi, molto indovinati quei burattineschi cortigiani nerovestiti dalla zazzera tagliata a frangetta, zelanti e sorridenti esecutori di ogni ordine di Alessandro Magno.

Ma anche il tema dei sentimenti amorosi - prima floridi come natura comanda, poi inariditi sotto il peso della ragion di Stato e infine rifiorenti grazie alla magnanimità di Alessandro - è raccontato con garbo e con grazia, attraverso il simbolo semplice dell’albero, che, nel primo atto, verdeggia ricco di vita, mentre, nel secondo, si rinsecchisce, perché il potere disumano ne ha assorbito la linfa. A quei rami aridi, scheletrici, Aminta resta abbracciato a lungo, perfettamente immobile, dopo essere stato proclamato e vestito re, quasi assorbito, fagocitato da quel sistema che lo ha portato in alto ma vuole privarlo dell’amore. La forza raggelante e annichilente del potere si è impadronita del giovane pastore, che ora ne è parte integrante al prezzo della rinuncia alla vita. Ma quando Alessandro ricompone le coppie originali e permette loro di amarsi, ecco che l’albero si riempie di fiori, perché, almeno questa volta, ciò che è bene, vero ed umano ha prevalso sulla tentazione di usare le persone.
All’interno di un impianto scenografico semplice quanto assolutamente funzionale alla concezione generale dello spettacolo – nel primo atto una landa sabbiosa e desertica, nel secondo delle alte pareti verdeggianti modello giardino all’italiana – si muovono dei personaggi la cui tipizzazione risulta centratissima. Aminta è una sorta di hippie che vive libero e felice ai margini della società, facendo di un autobus in disuso la propria abitazione. Il suo isolamento è rallegrato dalla presenza di Elisa, con la quale si ama gioiosamente, secondo il disinibito costume dei figli dei fiori. La distanza che separa questa interpretazione dal personaggio di Metastasio sembrerebbe incolmabile, ma è così solo in apparenza. A ben vedere, invece, la semplicità bucolica del pastore settecentesco si ritrova pari pari nel pacifico, disinvolto e simpatico contestatore dell’ordine sociale, dal trasandato abbigliamento casual, che ci viene presentato dalla regia. Il soprano Roberta Mameli ne dà un’interpretazione convinta e convincente, con sonorità piene e corpose alternate a piani e pianissimi colmi di efficacia espressiva. L’artista brilla soprattutto nell’aria “L’amerò, sarò costante”, per il morbido canto sul fiato e il pathos rattenuto eppure eloquente.

Elisa è fresca, frizzante e un po’ scervellata, come si addice alla ragazza di un giovanotto così fuori dagli schemi. Con il suo look sbarazzino e disimpegnato, le ballerine argentate e lustrini un po’ dappertutto, il soprano austriaco Elisabeth Breuer incanta per la perfetta immedesimazione scenica e per una vocalità limpida e comunicativa.
In contrapposizione al mondo del libero amore, un po’ svaporato ed evanescente ma deliziosamente giovane e spontaneo, ci viene presentato quello del potere, con le sue divise scure, i suoi movimenti rigidi e stereotipati, che si contrappongono alle sciolte movenze di Aminta ed Elisa. Il tenore argentino Juan Francisco Gatell è un Alessandro Magno autorevole in scena e dal canto stilisticamente sempre convincente, nonostante il ruolo presenti una tessitura centrale che non è la più adatta per permettere all’artista di emergere. Sempre puntuale il contributo del tenore sivigliano Francisco Fernández-Rueda come Agenore, personaggio valorizzato dalla regia anche mostrandolo maltrattato dai tirapiedi di Alessandro, come se costui pensasse che un uomo del suo entourage non può cedere ai sentimenti – è innamorato di Tamiri e sa che Aminta ad Elisa si amano – perché questo atteggiamento può rappresentare un fattore di debolezza nel sistema.
E c’è Tamiri, infine, cupa e nerovestita come si addice alla figlia di un dittatore spodestato e morto suicida prima di essere giustiziato dal nuovo ordine. Si aggira qua e là portando una valigia, simbolo del suo sradicamento e del suo disorientamento ora che il mondo cui apparteneva è crollato. Nella valigia è custodita una spada, con cui la principessa immagina di potersi vendicare un giorno di colui che ha segnato la fine di suo padre: ma è quello stesso che le permetterà di ricongiungersi all’amato Agenore, di cui nello spettacolo è incinta, e di sperare di recuperare altrove il proprio ruolo sociale. Nel ruolo il soprano Silvia Frigato si segnala per la consueta, impeccabile linea vocale.
Alla serale cui si riferiscono queste note (mercoledì 27 febbraio), caldo, cordiale successo per tutti.


Adolfo Andrighetti

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