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Con “Il Bajazet” di Antonio Vivaldi (libretto di Agostino Piovene da una tragedia di Jacques Pradon), andata in scena la prima volta il 1735 al Teatro Filarmonico di Verona (perché non a Venezia sarebbe intrigante investigarlo) e ora al Malibran, il regista Fabio Ceresa continua quell’opera di investigazione dello spirito del melodramma barocco che ha conosciuto una tappa del tutto diversa ma altrettanto significativa con la messinscena di “Orlando furioso”, sempre di Vivaldi. Il tentativo, pienamente riuscito, operato allora da Ceresa e ora reiterato con modalità diverse ma con lo stesso spirito, è quello di scendere al fondo del gusto barocco per afferrarne la specificità e riproporla attraverso uno stile adatto ai tempi nostri e insieme fedele all’originale. La sfida nell’”Orlando furioso” viene affrontata e vinta mettendo in scena una sorta di neobarocco ad imitazione deliziosamente affettuosa, ironica e quasi fanciullesca, dell’originale; un’operazione che richiede la sorridente complicità di artefici e pubblico, uniti nel vivere una finzione che, nell’impossibilità di riproporre gli spettacoli barocchi originali, li richiama nello spirito così come oggi può essere capito ed apprezzato. Ne “Il Bajazet” la logica è molto diversa. Qui Ceresa, con l’apporto decisivo di Massimo Checchetto (scene), Giuseppe Palella (costumi) Fabio Barettin (luci), Sergio Metalli (video), si trova a dover rendere accattivante per il pubblico del 2024 un ‘pasticcio’: cioè un’opera la cui drammaturgia originale è sviluppata nei recitativi, mentre le arie provengono da opere diverse, non rappresentando altro che una compilation di quelle all’epoca giudicate più riuscite, più virtuosistiche e di maggiore effetto. Le arie, separate dal contesto drammatico, rappresentano delle oasi di bellezza e anche di esibizionismo canoro ciascuna autosufficiente rispetto alle altre, ciascuna animata da una vita artistica e musicale propria. Nel caso de “Il Bajazet”, informa il maestro Federico Maria Sardelli che dirige l’opera al Malibran, sono di Vivaldi i recitativi, i numeri di insieme e dodici arie (quelle di Bajazet, Asteria e Idaspe), alcune scelte da Sardelli per colmare i vuoti della partitura; mentre sette, eseguite dagli altri personaggi, sono di compositori più giovani di Vivaldi e all’epoca assai di moda: Hasse, Giacomelli e Riccardo Broschi, il fratello del celebre evirato Farinelli. Ebbene, Ceresa riesce nella quadratura del cerchio di rispettare la logica del ‘pasticcio’ come parata di pezzi di bravura privi di un tessuto connettivo drammatico, pur riproponendola secondo modalità che la rendono non solo comprensibile ma anche felicemente – si potrebbe dire entusiasticamente dopo la serale di martedì 11 giugno – fruibile da parte del pubblico; perché, se ciò che si aspettavano gli spettatori del settecento da una serata a teatro ed in particolare da un ‘pasticcio’ era il divertimento, divertimento sia anche nel 2024. Così, mentre per i recitativi i cantanti sono collocati in proscenio davanti al leggio e tutti vestiti di nero, come si trattasse dell’esecuzione di un’opera in forma di concerto o di una prova all’italiana, i venticinque pezzi chiusi si succedono uno dopo l’altro come una serie di siparietti del tutto autonomi l’uno dall’altro e differenti per ambientazione, epoca e impostazione realizzativa: ciascuno un microcosmo immaginato a partire da testo e musica nel quale si racconta una brevissima storia. È lo stesso regista che spiega di essersi ispirato a “Carosello”, la storica trasmissione televisiva pubblicitaria degli anni sessanta, composta di una serie di scenette in ciascuna delle quali si promuoveva un prodotto attraverso un brevissimo filmato auto concluso. Ed è innegabile che i siparietti permettono a Ceresa un tale scatenarsi della fantasia e della creatività da suscitare nello spettatore di oggi quel senso della meraviglia che è identitario del gusto barocco e la cui rivitalizzazione si può considerare un’operazione filologica almeno altrettanto importante quanto eliminare, ce lo spiega il maestro Sardelli, tiorba e chitarra dal basso continuo. È impossibile descrivere quanto succede nei venticinque siparietti, nei quali trova espressione l’universo immaginifico di un regista in grado di evocare infinite atmosfere e situazioni teatrali, dalla tragedia alla farsa passando attraverso un riuscito umorismo, da Jack lo squartatore a Supermario e a Jessica Rabbit, dalle turcherie affascinanti nella loro sublime artificiosità agli abissi del mare e agli orizzonti sconfinati del cosmo celeste. Ma la galleria che si dipana davanti agli occhi del pubblico è quanto di più attraente e accattivante si possa immaginare, nel suo continuo e sorprendente cangiare di situazioni, ambientazione, costumi. Certo, qualcosa si potrebbe limare di questa sovrabbondante creatività, eliminando ad esempio alcune scivolate nel farsesco (Bajazet che diventa Super Mario, appunto, oppure la scena sadomaso che vede impegnata addirittura l’eroina Asteria), ma nell’insieme non si può negare di trovarsi di fronte ad un’operazione quasi geniale nella sua capacità di andare al fondo del gusto barocco rendendolo appetibile per il pubblico di oggi. La fantasmagoria dei siparietti sarebbe fine a sé stessa se non accompagnasse altrettanta meravigliosa varietà delle arie, nella cui esecuzione si impegna con ottimi esiti una compagnia di canto affiatatissima, del tutto consapevole delle esigenze tecniche e stilistiche imposte dal canto barocco e, dote non secondaria, in grado di adeguarsi alle richieste stringenti della regia (a cominciare dai continui e vorticosi cambiamenti d’abito) con una sorprendente e divertita disponibilità. Una menzione speciale va riservata al controtenore Raffaele Pe, un Andronico trepido e sensibile come si conviene all’amoroso della compagnia e dalla grande perizia tecnica, che ammalia con il suo timbro cremoso e rotondo nelle arie patetiche, quando lo strumento non è forzato nell’invettiva ma può adagiarsi nell’espressione elegiaca. L’artista, poi, si dimostra attore finissimo in alcuni siparietti umoristici. Gli è pari il mezzosoprano Lucia Cirillo, un’Irene spericolata nelle arie di bravura anche se un po’ alle corde nelle agilità di forza più acute, ma capace di sedurre con un canto morbido e raccolto nei momenti lirici. Le sue doti di attrice, poi, già ben note al pubblico della Fenice insieme a quelle vocali, hanno modo di esaltarsi ulteriormente in questa occasione. Altrettanto riuscita l’Asteria del mezzosoprano Loriana Castellano, dalla vocalità fluida e corposa anche se non sempre a fuoco nelle note gravi, e straordinariamente disinvolta nei siparietti, a cominciare da quello ove si presenta come un’eroina sadomaso. Il contralto Sonia Prina, Tamerlano, mette in campo la sicurezza di chi è padrona del repertorio. Si segnala per l’incisività del fraseggio e della dizione soprattutto nei recitativi, declamati con la giusta enfasi, oltre che – anche lei! – per la duttilità delle doti sceniche, grazie alle quali, ad esempio, può eseguire un’aria impegnativa mentre, in piedi sulla sommità di una scala alquanto alta, finge di manovrare con i fili un uomo-marionetta posto ai suoi piedi. Da segnalare per la fresca vocalità l’Idaspe del soprano Valeria La Grotta, mentre risulta forse penalizzato dall’acustica del ‘contenitore’ in cui si svolgono i siparietti il Bajazet del baritono Renato Dolcini, autorevole nei recitativi eseguiti in proscenio e invece un po’ esangue, pur nella correttezza dell’approccio stilistico, nelle arie. Il maestro Federico Maria Sardelli mette a disposizione dal podio tutta la propria competenza e il proprio amore per Vivaldi, con esiti significativi tanto nel patetico quanto nell’agitato, che sa restituire entrambi con partecipazione e comunicativa. Adolfo Andrighetti