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“La vita è sogno”, il dramma seicentesco in versi di Pedro Calderόn de la Barca da cui è tratta l’omonima opera di Gian Francesco Malipiero, all’interno di un’ambientazione fiabesca ed arcana anticipa in qualche modo la ragione prima dell’angoscia esistenziale dell’uomo moderno: l’impossibilità, cioè, di trovare la consistenza della realtà e quindi di distinguerla dalla irrealtà, anche dal sogno, per cui la vita trascorre come all’interno di una bolla in cui dominano l’incertezza, la fluidità, lo smarrimento. L’opera di Malipiero, che ne scrisse anche il libretto, è fedele al dramma da cui è ricavata e ne ripropone l’assunto filosofico soprattutto nella figura del principe, il quale è incapace di capire se è realtà la torre in cui si trova rinchiuso oppure la reggia in cui si desta perché ricondottovi dal re suo padre, pentito di aver imprigionato il figlio solo perché infausti segni della natura confermati dagli oroscopi ne avevano accompagnato la nascita. Ma, di fronte alla reazione violenta del principe infuriato per una reclusione che non ha fine, il re lo avverte che forse è la stessa reggia ad essere un sogno, lo fa riaddormentare e lo riporta nella torre. Ma allora, che cos’è realtà? La prigione oppure la reggia? O forse entrambe si confondono come in una visione all’interno di una dimensione vaga, inconsistente, nella quale tutto e il contrario di tutto si sovrappongono e alla fine si annullano? Neppure l’amore, impersonato da Diana, riesce a restituire un ‘ubi consistam’ al povero principe, che si rivolge alla donna di cui è innamorato e ha compassione di lui dicendole di sentirsi ancora prigioniero del sogno. E anche quando la folla lo acclama e ne ottiene la liberazione, il suo stato di confusione rimane e lo fa sentire ancora prigioniero non più della torre ma di una dimensione di sogno che lo avviluppa. E anche se il lieto fine conclude la singolare vicenda attraverso la piena riconciliazione del principe con il re suo padre e di quest’ultimo con il figlio, rimane la sensazione inquietante di un’ambiguità di fondo che accomuna l’esperienza del principe a quella di ogni essere umano, che sarebbe incapace di vivere il reale come una presenza solida ed oggettiva, rispondente a principi fisici e morali certi ai quali potersi affidare. Così ci raccontano scrittori e poeti esistenzialisti quali Sartre ne “La nausea”, tanto per portare l’esempio forse più illustre ma certo più emblematico. L’eccellente nuova produzione in scena al Teatro Malibran rappresenta il giusto e doveroso omaggio che Venezia tributa ad un suo figlio illustre, Gian Francesco Malipiero, considerato uno dei più significativi compositori del secolo scorso, e, insieme, ad un suo lavoro ricco di musica e di dramma – e di musica perfettamente intonata al dramma – quale appunto “La vita è sogno”, che ritorna in laguna dopo un ingiustificato oblio durato ben ottant’anni da quella prima veneziana del 1944 che fece seguito alla prima assoluta all’Opernhaus di Breslavia del 30 giugno 1943. Come ogni tanto capita, infatti, si è realizzata questa volta una virtuosa ed equilibratissima sinergia fra i tre elementi costitutivi di una rappresentazione operistica: il prodotto della creatività del compositore, qui anche librettista, con la sua realizzazione teatrale e musicale, riuniti in un insieme organico dove le due componenti per così dire esecutive sembrano aiutarsi e sostenersi a vicenda nel cercare e alla fine trovare la chiave per aprire lo scrigno di note contenente la bellezza e il significato voluti dal compositore. Il tutto a beneficio del pubblico - destinatario ultimo e fondamentale di ogni proposta teatrale - al quale viene offerta una produzione che lo rispetta e lo coinvolge. Molto del merito di questa felicissima riuscita va a quello che spesso rappresenta l’anello debole o più discutibile della catena, cioè la regia. In questo caso Valentino Villa, coadiuvato al meglio da Massimo Checchetto per le scene, Elena Cicorella per i costumi, Fabio Barettin per le luci, Marco Angelilli per i movimenti coreografici, sceglie con lodevole umiltà, così rara fra i suoi colleghi, la strada di un’interpretazione semplice e pulita ma mai banale, che aiuta lo spettatore a entrare dentro un’opera ancora sconosciuta comprendendone al meglio le ragioni musicali, drammaturgiche e alla fine culturali. Lo spettacolo si avvale di una scenografia tanto essenziale quanto efficace ed evocativa, che si riduce a delle pareti incombenti, cupe e minacciose quando rappresentano la prigione in cui è rinchiuso il principe, soffuse di una luce dorata ma non per questo meno opprimenti quando la vicenda si trasferisce nella reggia. All’interno di questa cornice, in cui trova un’ambientazione perfettamente adeguata ed espressiva il pessimismo di cui è impregnata l’opera di Malipiero nonostante l’ambiguo lieto fine, si muove con assoluta pertinenza oltre che con ammirevole professionalità un cast di alto livello, aiutato nel compito dai bei costumi, che richiamano un seicento un po’ realistico e molto favolistico. Il vero protagonista è il principe straziato, sofferto, del tenore Leonardo Cortellazzi, che non trascura nulla di ciò che serve a definire l’indole inquieta ed inquietante del personaggio nel suo essere schiavo della confusione fra sogno e realtà di cui le catene che lo avvincono rappresentano un simbolo, offrendoci una caratterizzazione di assoluto rilievo. L’artista conferma per l’ennesima volta la sua preparazione e duttilità nell’affrontare, sempre con ottimi esiti, repertori e personaggi anche molto distanti. Qui, aiutato da una tessitura sostanzialmente centrale, brilla per l’intensità del declamato, che trova i momenti di maggiore verità umana ed artistica nell’alternanza frequente dell’invettiva violenta alle frasi sussurrate dolcemente in pianissimo, quasi in una sorta di mesta rassegnazione ad un destino troppo pesante per essere stornato. Gli altri gli fanno da contorno, seppure con ottima riuscita: la Diana veemente, appassionata, di Veronica Simeoni, che risolve in maniera più che apprezzabile, grazie ad un’emissione limpida e sicura e ad uno strumento omogeneo e sonoro, una parte dalla tessitura fin troppo acuta per un mezzosoprano; il solenne, ieratico e un po’ stordito re del basso Riccardo Zanellato, che mette a disposizione la propria imponente presenza scenica e la propria voce dal bel timbro scuro e dalla morbida emissione ad un personaggio in fondo pavido e superstizioso, nel quale le paure indotte da equivoci presagi hanno la meglio su uno dei più intensi fra i sentimenti umani, l’amore paterno; il Clotaldo, più cortigiano che carceriere, ben caratterizzato vocalmente e scenicamente dal baritono Simone Alberghini, il quale ci offre un personaggio che fa del principe la propria vittima perché anch’egli è a suo modo una vittima, della fedeltà assoluta dovuta al re e al sistema di cui è parte integrante. Più o meno adeguati, nei ruoli di contorno, Francesca Gerbasi (Estrella), Levent Bakirci (don Arias e uno della folla) e Enrico Di Geronimo (un servo di Diana e uno scudiero del re). Fondamentale il ruolo del coro, sia nell’intonazione precisa e suggestiva dei madrigali che impreziosiscono la vita raffinata della reggia, sia nell’imponente compattezza sonora con cui interpreta la folla che acclama il principe e lo vuole definitivamente libero e a capo del suo popolo; ben meritati gli applausi che lo salutano al termine dello spettacolo insieme al maestro Alfonso Caiani. Tutto questo è reso possibile dalla presenza sul podio del maestro Francesco Lanzillotta, che offre allo spettatore un’esperienza rara immergendolo nel mondo di Malipiero, costituito in quest’opera da un tessuto sonoro di raffinata elaborazione strumentale e insieme di straordinaria aderenza al nucleo drammatico della vicenda; in Britten è dato incontrare, lo scorso secolo, una tale corrispondenza fra musica e parola, per cui il suono si esalta nel suo mettersi al servizio del dramma e quest’ultimo si arricchisce di un valore emotivo altrimenti impossibile. La rappresentazione di giovedì 7 novembre è stata salutata da un successo vivo e cordiale. Adolfo Andrighetti