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La stagione d’opera 2024-25 si inaugura alla Fenice con “Otello” di Verdi: diretto e concertato dal maestro sud-coreano Myung-Whun Chung, scelta sicura e vincente per diverse inaugurazioni del passato e sempre sottoscrivibile con convinzione, trattandosi, a mio modesto avviso, della bacchetta più emozionante e coinvolgente apparsa sui palcoscenici veneziani negli ultimi vent’anni insieme al compianto Jeffrey Tate; con Francesco Meli nel ruolo del titolo, un artista consapevole e tecnicamente ferratissimo la cui adeguatezza vocale per un ruolo così spinto rappresentava però per molti un punto interrogativo, considerato anche che non molti anni fa, sempre a Venezia, era un applaudito Conte d’Almaviva nel “Barbiere” rossiniano; e con la regia di Fabio Ceresa, il cui immaginario, per sua stessa ammissione, “si nutre di costumi grandiosi e maestose scenografie” e che, dopo averci divertito ed ammaliato in Vivaldi, era atteso alla prova con un mondo culturale affatto distante da quello barocco. I motivi di richiamo in questa prima della stagione, quindi, non mancavano e a cominciare dalla scelta stessa del titolo: un’opera imponente non per le dimensioni (non sono queste che fanno il capolavoro) ma per la carica drammatica che contiene e che sprigiona, creando un’atmosfera di tensione che a volte rimane sotto traccia, a volte esplode furiosamente, ma è sempre presente in maniera inquietante e dolorosa dal primo all’ultimo istante. Di questa tensione lancinante si è fatto interprete ideale il maestro Myung-Whun Chung, che ha trovato proprio nei passi più drammatici, se non addirittura tragici, l’estro più felice e la via di una comunicazione diretta e immediata con il pubblico: come nella travolgente, sconvolgente tempesta iniziale o, per portare un esempio opposto dal punto di vista dello scenario sonoro, la morte di Otello. Per il resto racconta da par suo, riuscendo persino a creare un’atmosfera colloquiale, quasi familiare, là dove, come nella scena Jago-Cassio del terzo atto, la tensione rimane latente. Ovazioni per il maestro a fine spettacolo, ben meritate non solo per la conduzione impeccabile della serata ma anche per quanto ha dato fino ad ora al teatro veneziano ed al suo pubblico in tanti indimenticabili spettacoli. Francesco Meli fa onore al principio che, quando si sa cantare, si può cantare tutto (o quasi). Il suo è un Otello vincente e convincente. La declamazione in zona centrale lo trova incisivo ed efficace e anche la salita all’acuto è sicura, salvo un paio di episodi alla fine marginali come nelle due puntature consecutive e di micidiale difficoltà che concludono il monologo del Secondo Atto “Ora e per sempre addio” sulle parole “Della gloria d’Otello è questo il fin” e il selvaggio “Gioia!!” (non per niente con due punti esclamativi nel libretto...) con cui Otello accoglie la notizia dell’arrivo di Cassio nel Terzo Atto. Risultano di alto livello artistico, per contro, il duetto d’amore del Primo Atto, soprattutto nella frase conclusiva “Già la pleiade ardente al mar discende...Vien...Venere splende”, la cui salita all’acuto in pianissimo è tecnicamente impervia mentre il nostro risolve alla grande; e la magistrale esecuzione del monologo del Terzo Atto, “Dio mi potevi scagliar tutti i mali”, nel quale Meli esprime tutta la stanchezza e la desolazione di Otello mentre guarda alla propria vita che sta piombando nel baratro dell’insignificanza. Dalla lettura che ne dà Meli, con uno strumento fondamentalmente lirico ma supportato da una impostazione impeccabile in cui il sostegno perfetto del fiato permette di dare piena risonanza e proiezione alle note, esce un Otello profondamente umano e quindi tanto più credibile. Certo, in alcuni momenti, come ad esempio nella scena della morte, la tragicità sconvolgente e, per così dire, cosmica, che echeggia in altre esecuzioni, è assente, e al suo posto si trova una sofferenza straziante, sì, ma personale, quasi borghese, non eroica. Ma si tratta di una lettura pienamente convincente, che non scende a patti con la partitura ma la interpreta entro i limiti e le possibilità (ampie, integrate anche dal bellissimo timbro) dello strumento. Lo Jago di Luca Micheletti è il più applaudito e in effetti non manca di nulla. Sa tutto quello che deve fare e lo fa proprio bene, in ogni momento, sostenuto da una voce salda ed omogenea in tutta la gamma, in grado di sfogare con sicurezza in acuto e capace di espressive (anche se non troppo frequenti) variazioni dinamiche. Eppure...Eppure, a causa forse di un’emissione un po’ ruvida, di un timbro che potrebbe essere più limpido, il personaggio risulta troppo sbilanciato verso il lato ‘vilain’, mentre sarebbe più completo se risultasse ancora più sottile, più insinuante, visto che lo stesso Verdi, nell’epistolario, raccomanda che sia raffigurato come una brava persona, affabile, rassicurante, affinché la sua perfidia risulti moltiplicata dall’ipocrisia con cui viene occultata. Ciò riesce molto bene all’artista nella presenza scenica, assolutamente disinvolta e convincente, meno nel canto. Il suo “Credo”, infatti, tanto per portare l’esempio più noto, suona giocato troppo sulla declamazione stentorea e troppo poco sulla sottigliezza degli accenti. La Desdemona del soprano sud-coreano Karah Son è difficilmente decifrabile. L’artista sa fare buon uso del proprio strumento, sa modulare, alleggerire e rinforzare, ma spesso sfoga in alto in modo brusco e con un vibrato fastidioso, mentre il suono dovrebbe aprirsi rotondo, dolce, seppure intenso. Se è vero che Desdemona è un angelo, come ci suggerisce anche il regista, va detto che un angelo, per quanto piagato da sofferenze terrene, non canta così, con un’emissione disomogenea e suoni spesso spigolosi, un timbro asprigno e centri talvolta come sordi, ovattati. Un angelo, insomma, deve trovare espressioni più morbide, più alate, più sublimi. Ed è un peccato, perché si capisce che le potenzialità non mancano. Così la canzone del Salce è ben modulata e altrettanto può dirsi dell’”Ave Maria”, eseguita con emissione raccolta e controllata. Ma la canzone si conclude con un brutto acuto finale filato sulla parola “amarlo”, né si può definire riuscito l’”Amen” con cui termina la preghiera. Il resto del cast è più che attendibile. Peccato solo che il Cassio di Francesco Marsiglia sia tanto fresco, luminoso, giovanile nel canto quanto impacciato sulla scena. Gli altri sono Enrico Casari (Roderigo), Francesco Milanese (Lodovico), William Corrò (Montano), Anna Malavasi (Emilia), l’artista del Coro Antonio Casagrande (Un araldo). E a proposito di Coro, diretto dal maestro Alfonso Caiani, non si può che lodarne senza riserve la prestazione, insieme ai sempre bravissimi Piccoli Cantori Veneziani preparati da Diana D’Alessio. Sul palcoscenico Fabio Ceresa torna a proporre, con esiti sempre felici, il proprio stile fantasioso ed immaginifico, coadiuvato da Massimo Checchetto (scene), Claudia Pernigotti (costumi), Fabio Barettin (luci), Sergio Metalli (video), Mattia Agatiello (movimenti coreografici). L’idea di base è quella di mettere in evidenza la venezianità della vicenda, che si svolge tutta all’ombra della Serenissima pur essendo geograficamente ambientata a Cipro, collocandola all’interno di un palazzo che si apre verso la platea con una trifora il cui stile e i cui decori richiamano quelli della Basilica di San Marco. La proposta dello stile bizantino, attraverso i mosaici, le dorature, le luci, non vuole ovviamente essere una riproduzione calligrafica di quel mondo, ma piuttosto, come spiega bene lo stesso regista che è il caso di citare, la traduzione del “concetto in immagine, perché l’immagine acquisti dignità di simbolo e si trasformi in uno strumento in grado di trasmettere significato e suscitare emozione”. I costumi, anch’essi dorati, contribuiscono alla ricreazione simbolica del gusto bizantino, evocando un’atmosfera ricca e luminosa che contrasta efficacemente con l’oscurità della tragedia che si consuma fra tanto splendore. All’interno di questa cornice i personaggi si muovono con accurata pertinenza rispetto alla situazione che vivono e a ciò che cantano. Desdemona, in particolare, è rappresentata in conformità ad un’iconografia mariana, accompagnata da creature angeliche e fatta agire sullo sfondo di cieli stellati, a sottolineare la sua natura di perfetta innocente all’interno di un mondo segnato dal peccato e dalla colpa. Un contributo non secondario all’efficacia del messaggio teatrale è dato dai bravissimi mimi, che rappresentano il Leone di San Marco, sempre presente accanto ad Otello quando costui è ancora padrone di sé stesso e del proprio ruolo, e l’Idra scura del male, che spinge le sue teste e le sue braccia verso Otello per soffocarlo secondo il diabolico disegno di Jago. Il leone, del resto, nell’opera di Verdi simboleggia sia la Serenissima sia lo stesso Otello; per cui, alla fine del terzo atto, quando Jago trafigge con la spada il mimo che rappresenta il Leone di San Marco, muoiono insieme Venezia e l’eroe che ne incarna la grandezza. Ma nel conflitto tra Leone e Idra, cioè fra bene e male, Ceresa sembra immaginare la vittoria di quest’ultima, con Jago che domina dall’alto, imperscrutabile e imperturbabile, l’agonia di Otello alla fine dell’opera. Un’osservazione conclusiva sulla scelta di presentare un Otello bianco, cioè non di colore. Ha ragione Ceresa quando la motiva col fatto che enfatizzare la componente razziale è riduttivo rispetto alla complessità dei sentimenti di Otello, che vanno oltre la questione del colore della pelle. Tuttavia questa opzione trascura un elemento importante della tragedia, che trae origine dal senso di inferiorità di Otello per la sua diversità etnica rispetto a quel mondo veneziano che pure l’ha accolto come un eroe e per la sua matura seriosità rispetto alla giovanile sfrontatezza di Cassio. Alla fine della serale di venerdì 29 novembre, il teatro gremito al massimo della capienza ha riservato agli artefici dello spettacolo un successo ai limiti dell’entusiasmo. Adolfo Andrighetti