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DAL 14 MARZO "TANGO Y NADA MAS" DEL DUO SCATTOLIN-VETTORETTI

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Correva l’anno 1926 quando Kurt Weill, precisamente il 27 marzo, debuttò come operista alla Semperoper di Dresda con l’atto unico “Der Protagonist”, ora al Teatro Malibran per una stimolante prima assoluta veneziana. Il contesto culturale dell’epoca era vivace e complesso, segnato dalla nascita della psicoanalisi e dalla scoperta delle patologie mentali, per cui l’opera, il cui libretto riproduce fedelmente un testo di Georg Kaiser del 1920, si presenta come il frutto di questa sensibilità nascente verso gli strati più profondi ed inquietanti della mente umana. “Der Protagonist”, infatti, racconta la vicenda di un’alienazione patologica e narcisistica, che conduce un capocomico a confondere la finzione del palcoscenico con la realtà e a uccidere realmente la sorella in luogo dell’omicidio simulato voluto dalla vicenda che si doveva mettere in scena. La sorella gli comunica l’arrivo dell’amante mentre sono in corso le prove della tragedia al termine della quale un marito ingannato avrebbe dovuto sopprimere la moglie infedele accecato dalla gelosia. Ma il comportamento della donna, che il fratello vive come un tradimento per non essere stato informato della relazione, si sovrappone al tradimento teatrale; quindi, nella confusione di realtà e fantasia, colui che è Der Protagonist sul palcoscenico lo diventa tragicamente anche nella vita, ergendosi ad arbitro supremo dell’esistenza altrui in un finale di autoesaltazione, segnato, come sottolinea il maestro Stenz che dirige l’orchestra al Malibran, dalla trionfalistica tonalità di re maggiore e dall’assertivo ritmo in 4/4. È chiaro che l’alienazione del Protagonist, il cui primo frutto avvelenato è rappresentato dall’amore possessivo e morboso che egli nutre verso la sorella e che la regia giustamente mette in evidenza, viene proposta da Weil e da Kaiser come il simbolo di uno squilibrio che riguarda prima di tutto una società malata e affaticata, i cui figli non potranno che presentare i medesimi sintomi. Tuttavia è altrettanto chiaro che l’eccellente proposta al Teatro Malibran della prima opera del ventiseienne compositore si giustifica in primo luogo per la straordinaria vitalità e varietà della musica, di una ricchezza sorprendente di temi, colori, soluzioni armoniche e ritmiche, nonché di una freschezza creativa entusiasmante. Sembra di stare davanti ad una fontana che erutta zampilli d’acqua di colori e forme continuamente diverse, che, se non permettono di inquadrare l’opera entro una categoria precisa (ma pazienza...), mettono però in pieno risalto la versatilità di un musicista che, nonostante la giovane età e il suo essere al debutto come compositore di teatro, è in grado di accedere ai generi musicali più disparati, piegandoli alle proprie esigenze con una vivacità di scelte che diventa esuberanza. Onore al merito, naturalmente, all’orchestra della Fenice, che risponde alla grande alle sollecitazioni provenienti dal podio, dove il maestro Markus Stenz sa dare pieno risalto alle infinite potenzialità della partitura. Da segnalare anche l’apporto dei musicisti (due flauti, due clarinetti, due fagotti, due trombe) che si esibiscono sul palcoscenico in quanto inviati dal duca per sostenere la pièce teatrale di cui è volubile committente. Di eccellente livello anche il cast, dominato dal tenore Matthias Koziorowski, un Protagonist solido, incisivo e svettante in acuto, accanto al quale si segnala la sorella del soprano Martina Welschenbach, assolutamente credibile come vittima predestinata di un amore fraterno distorto e morboso, oltre che padrona di una parte risolta con vigore e sensibilità. E ancora da apprezzare il giovane gentiluomo del baritono Dean Murphy, dal timbro caldo e avvolgente, l’adeguato maggiordomo del duca impersonato dal tenore Alexander Geller, e il sapido oste del basso-baritono Zachary Altman. Abili e duttili sia negli interventi cantati sia nel dare vita ai siparietti mimati i tre attori, interpretati dal basso Szymon Chojnacki, dal basso-baritono Matteo Ferrara e dal controtenore Franko Klisović. In conclusione, un cast preparato, affiatato, ben dentro alle rispettive parti e pronto a onorare l’impegno vocale richiesto dalla partitura. Ben concepita e attuata la messinscena, di cui è responsabile Ezio Toffolutti per regia, scene, costumi e luci, queste ultime realizzate da Andrea Benetello. Il regista sposta l’originaria ambientazione elisabettiana all’epoca della composizione dell’opera, subito dopo la prima guerra mondiale, sottolineandone così la carica innovativa ed eversiva legata all’avanguardia storica e all’Espressionismo, come spiega lo stesso Toffolutti. Si evidenzia un lavoro attento e di puntuale professionalità sui singoli personaggi, particolarmente efficace durante le due pantomime, quella comica quanto quella seria, che si svolgono all’interno di due strutture poste ai lati opposti del palcoscenico per permettere agli attori di vedersi e svelarsi mentre consumano i rispettivi tradimenti affettivi. Sono le prove dello spettacolo commissionato dal duca, che, sulla falsariga dell’altrettanto volubile e supponente gran signore dell’”Arianna a Nasso” di Richard Strauss, prima comanda uno spettacolo comico, poi esige che, a causa della presenza di un vescovo, sia girato al tragico. E tragico sarà, dal momento che il Protagonist della pièce teatrale non si accontenterà di esserlo sul palcoscenico ma vorrà diventarlo tragicamente anche nella vita. Toffolutti ambienta la vicenda all’interno di una sorta di magazzino, che, come egli stesso dichiara, riproduce un luogo che aveva affittato alla Giudecca. Una scelta funzionale allo spettacolo e appropriata sotto il profilo concettuale, perché la semplicità del posto, manifestamente dedicato al lavoro, contrasta efficacemente, per la sua quotidiana concretezza, con l’allucinata esaltazione del Protagonist, che confonde arte e vita, finzione e realtà, in una parossistica esaltazione del proprio ego. Funzionali e adeguati al contesto anche i costumi Alla pomeridiana di domenica 4 maggio, applausi calorosi e convinti per tutti gli artefici dello spettacolo. Adolfo Andrighetti
Aprile ha rappresentato l’avvio della stagione canoistica 2025 e la Canottieri Mestre può già vantare un bottino di assoluto rilievo. Si è iniziato con i Campionati Nazionali di Fondo sui 5.000 metri, dove il sodalizio biancoverde ha conquistato a Sabaudia un oro e due argenti. Campione italiano si è laureato l’equipaggio Carolina Zennaro – Emma Carrer nel K2 Ragazze; sul secondo scalino del podio sono, invece, saliti Gabriele Alberti e Marco Pedralli nel K2 Juniores, mentre, nella stessa categoria ma in K4, la medaglia d’argento è andata al collo di Lorenzo Scantamburlo, Giovanni Carrer, Raul Edoardo Profir e Matteo Furlan. Tre titoli regionali sono arrivati dal Campionato Veneto sui m. 1000, disputato a Spresiano, nel Trevigiano. Hanno vinto il titolo: Lukas Scott Schrenk - Alessio Fontanarossa (K2 Ragazzi), Gabriele Alberti – Marco Pedralli (K2 Juniores), Viola Persi Paola – Lukas Scott Schrenk – Alessio Fontanarossa – Veronica Zorzetto (K4 Ragazzi/e misto); Canottieri Mestre ha inoltre conquistato 1 argento e 3 bronzi. Sullo stesso specchio d’acqua si è anche disputata una gara regionale di canoa giovanile; il club di Punta San Giuliano ha ottenuto 2 medaglie d’oro (Francesco Linsalata, K1 4,20; Virginia Ganzaroli, K1 Allieve) oltre a 2 argenti e 4 bronzi. Ultima in ordine di tempo è stata l’International Sprint Race, disputata a Milano, valida come selezione per le prime tappe di Coppa del Mondo e cui hanno partecipato 1205 equipaggi di 65 società con oltre 500 canoisti provenienti anche da Austria, Estonia, Svizzera, Nuova Zelanda e Paesi Bassi; la rappresentativa della Canottieri Mestre era composta da 9 atleti. Due le medaglie di bronzo conquistate: Matteo Furlan – Gabriele Alberti – Marco Pedralli – Giorgio Cravin nel K4 Junior m.500; Lucas Scott Schrenk nel K1 Ragazzi m.500.
“Considerato che abbiamo sede e principale struttura produttiva in Italia, ma un’unità operativa anche in Cina, possiamo affermare di essere l’Ali Baba dei componenti per idropulitrici: entro tre giorni consegniamo in tutto il mondo!”: ad affermarlo con orgoglio è Bruno Ferrarese, Contitolare di Idrobase Group, annunciando la leadership assoluta nei ricambi per le pompe dei 18 maggiori produttori mondiali e lanciando una nuova sfida globale: diventare il principale fornitore di componenti “nobili” delle pompe (anelli di tenuta, valvoline, pistoni), ”cuore” delle idropulitrici. Per farlo l’azienda di Borgoricco, nel Padovano, è andata a giocare in casa dei principali “competitors” alla Fiera di Shanghai, ottenendo riscontri lusinghieri. “E’ come vendere ghiaccio agli eschimesi ma, grazie alla riorganizzazione produttiva con il metodo Lean, riusciamo a proporre prezzi inferiori a quelli dei concorrenti, garantendo al contempo qualità italiana, apprezzata nel mondo e sinonimo di maggiore durabilità. Per questo, vinciamo” chiosa Bruno Gazzignato, anch’egli Contitolare dell’azienda veneta. Il successo della strategia del “made in Italy” è confermata anche dal lancio, sul mercato cinese, di nuove idropompe ad acqua marina, destinate alle attività portuali in un Paese attento alle tematiche della sostenibilità idrica. “Dobbiamo essere pronti a rispondere alle sensibilità emergenti, dettate dalla crisi climatica. Il mondo sta evolvendo, creando nuovi mercati e noi lavoriamo per anticiparli” aggiunge Gazzignato. In questa prospettiva sono proprio i cosiddetti “Elefanti” (grandi “cannoni sparanebbia” realizzati in Italia) a salvare le gemme in molti Paesi (Italia compresa), minacciati da improvvise gelate: i forti flussi d’aria, uniti alla loro oscillazione, garantiscono la diffusione del calore generato dalle torce accese nei campi per proteggere, soprattutto i frutteti, dall’abbassamento delle temperature. “Siamo in piena trasformazione del nostro sistema produttivo e, dopo il disastroso incendio di quasi tre anni fa, possiamo davvero affermare che il 1 Maggio 2025 è per noi la Festa dei Lavoratori, ma soprattutto del Lavoro” conclude un soddisfatto Ferrarese, ringraziando il team aziendale.
La si potrebbe definire una spettacolare evoluzione dell’ingegneria idraulica italiana, celebre nel mondo. In Campania, infatti, a poche centinaia di metri dal celebre Parco Archeologico di Pompei, è stata realizzata la fontana più grande d’Italia: un fronte di circa 200 metri, dove quasi 2000 ugelli (44 robotizzati multidirezionali, 144 azionati ad aria compressa, 164 interattivi “water switches”, 1500 per l’effetto nebbia realizzato in collaborazione con Idrobase Group) e 1150 fari concorrono a creare straordinarie coreografie, tra cui un “water screen”, cioè uno schermo d’acqua, alto 12 metri e largo 30, utilizzato come sfondo per proiezioni. Realizzata a corredo dell’anfiteatro destinato ad ospitare spettacoli ed eventi nell’area del Maxi Mall Pompeii, il più grande centro commerciale e di intrattenimento del Sud Italia (una superficie di 200.000 metri quadri, di cui 6.000 coperti con 170 esercizi), la “show fountain” da record è frutto dell’ingegno e della tecnologia di “Watercube”, azienda veneta (la sede è a Marano Vicentino) che, nata come società di installazione, ha saputo evolversi anche nella progettazione, diventando un “competitor” globale dei colossi mondiali. “Grazie all’impianto di Pompei, abbiamo l’orgoglio di essere finalmente profeti anche in patria – dichiara Barbara Borriero, Amministratore Unico di “Watercube” - Il nostro è un settore di nicchia, dagli orizzonti poco conosciuti, dove dominano estetica, fantasia ed innovazione nella costante ricerca del connubio fra spettacolarità e sostenibilità idrica. Indicativo è che il maggiore mercato sia quello della Penisola araba, dove grandi disponibilità economiche si accompagnano all’esigenza di ottimizzare l’uso di ogni goccia d’acqua. Così, nella celebre località archeologica campana, abbiamo creato giochi idrici sincronizzati con un impianto audio immersivo, luci, laser, proiezioni, nebbia artificiale con le stesse tecnologie ed effetti speciali, che caratterizzano le fontane danzanti del Burj Khalifa di Dubai piuttosto che di fronte al casinò di Bellagio, a Las Vegas.” La fontana di Pompei movimenta fino a 50.000 litri d’acqua al minuto, grazie a 750 metri di tubazioni e collettori in acciaio inox, 8 chilometri di tubazioni in polietilene (PE), 1 chilometro di tubazioni in polivinilcloruro (PVC), 16 chilometri di cavi elettrici; è anche dotata di un sistema automatico di caricamento e svuotamento per la creazione di un’area “wet/dry” calpestabile di 800 metri quadrati con profondità media di 4 centimetri d’acqua, dislocata attorno alla vasca principale. Nell’epoca post Covid, grande attenzione è stata dedicata alla salubrità idrica, per il cui controllo sono impiegati, tra l’altro, sistemi di sanificazione ad ozono ed a raggi UV. Gestito da un software e da un server dedicato, l’impianto è controllato attraverso 16 universi DMX (l’universo DMX è il massimo numero di canali disponibili su una linea DMX: 512), vale a dire che per la programmazione degli show è possibile utilizzare simultaneamente 8192 canali. “A Pompei – conclude il ceo di Watercube, Barbara Borriero – possiamo dire che è nata la Hollywood delle fontane italiane!”
Risale al 1857 la precedente rappresentazione a Venezia di “Anna Bolena” di Gaetano Donizetti, primo dei suoi capolavori ‘seri’, che debuttò, su libretto di Felice Romani, al teatro Carcano di Milano il 26 dicembre 1830, accolto da un successo clamoroso. Questa nuova proposta, presentata alla Fenice in concomitanza con l’ingresso del nuovo sovrintendente e direttore artistico Nicola Colabianchi, ha quindi il sapore di un evento nella storia del teatro lagunare, da onorare con un allestimento ed una esecuzione musicale del più alto livello possibile. Di qui la domanda: abbiamo assistito ad uno spettacolo tale da rendere giustizia ad una delle opere più significative del romanticismo italiano e da accogliere con quel ‘finalmente’ festoso e liberatorio che si riserva alle attese protratte molto, troppo a lungo, ma poi appagate in modo pienamente soddisfacente? Di sicuro rende giustizia all’occasione la partitura in versione integrale, compresi gli ‘a capo’ con variazioni delle cabalette: circa tre ore e venti di sola musica che, se possono mettere a dura prova la pazienza dello spettatore medio, rappresentano però la conditio sine qua non per ripresentare dopo così tanti anni un’opera nel pieno rispetto delle ragioni del compositore e dell’arte in generale. Adeguato all’evento si può considerare anche l’allestimento pensato e realizzato per regia, scene e costumi da Pier Luigi Pizzi, debuttante nel titolo, con l’ausilio di Oscar Frosio per il funzionale disegno luci. La scenografia si presenta lineare ed essenziale, secondo la dichiarata ultima tendenza di Pizzi volta a sottrarre anziché ad aggiungere, e consiste in una struttura stilizzata di ispirazione tardo-gotica (copyright dello stesso regista), che rimane identica per tutto lo spettacolo e potrebbe rappresentare una sorta di gabbia all’interno della quale i protagonisti restano imprigionati, senza poter dare sfogo ai propri desideri. Le variazioni all’interno di questa struttura base sono pochissime: una camera da letto con un talamo circondato da ampie e sinuose cortine blu, poi una sorta di inferriata che divide il palcoscenico orizzontalmente a figurare un carcere. Si crea, così, un ambiente spoglio, atto ad esaltare, con la sua stessa nudità, la tragedia che ospita. I colori dominanti sono anch’essi austeri e variano dal nero al grigio ferro, mentre sono più ricchi e fantasiosi i costumi, richiamanti fogge e mode dell’epoca Tudor. In questo modo, come osserva lo stesso Pizzi, viene trovato “il giusto clima drammatico”, all’interno del quale gli interpreti vengono lasciati liberi di agire, per poter esprimere, muovendosi prevalentemente al proscenio, la bellezza e l’espressività di un canto nel quale si sostanzia, secondo lo stesso regista, la ragion d’essere di quest’opera. Ed ecco il punto: non saprei dire se, come afferma Pizzi, in “Anna Bolena” “tutto quello che succede è pretestuoso ed è principalmente un’occasione per far esplodere il belcanto”. In proposito mi permetterei di essere più cauto, perché, se è vero che Enrico VIII e Percy corrispondono in fondo a due stereotipi, altrettanto non si può dire di Anna, che vive con grande intensità il dramma di chi, dopo aver perso l’amore, viene privata anche del proprio rango, e di Giovanna Seymour, combattuta fra il rimorso del male che arreca ad Anna accettando le profferte del re, l’amore sincero che la lega a quest’ultimo, il desiderio umano di gloria che manifesta allo stesso Enrico. Figure non banali, insomma, umanamente vive, attorno alle quali la tragedia si compie in maniera forte e compatta. Ma il punto è un altro. Che si tratti di un’opera in cui il canto è fondamentale non vi è dubbio, secondo la logica e l’ispirazione del melodramma italiano del primo ottocento; a confermarlo, basti nominare i primi interpreti: Giuditta Pasta, Giovanni Battista Rubini, Filippo Galli. Qui non si tratta – e Dio ce ne guardi – di evocare un passato immerso nelle nebbie della leggenda per confrontarlo con un presente inevitabilmente inadeguato; ma di provare a vedere se, anche dal punto di vista del canto, che in questo repertorio è determinante, la ripresa alla Fenice, dopo più di 150 anni di assenza, di un titolo storicamente ed artisticamente così rilevante, sia stata all’altezza dell’occasione. La protagonista, la russa Lidia Fridman, merita di essere sostenuta per la giovane età (è nata nel 1996) e per una dotazione vocale di assoluto rispetto. La sua Anna Bolena, che debuttava, sorprende per la colonna sonora compatta, imponente, omogenea, senza una smagliatura, senza una debolezza, prodotta da uno strumento certamente fuori dall’ordinario anche per l’estensione, grazie al quale l’artista affronta il ruolo senza problemi di sorta sul piano vocale. Ne vengono esaltati i momenti di maggiore intensità drammatica, che sono risolti con una compattezza sonora a tratti impressionante; ma anche le oasi liriche sono affrontate con la corretta impostazione e le giuste intenzioni. Purtroppo tutto questo non basta per restituire con piena credibilità un personaggio così complesso e sfaccettato quale Anna Bolena, al quale, nella interpretazione del soprano russo, manca ancora, ma potrà arrivare col tempo, quella sensibilità di donna, quelle trepidazioni, quelle sottolineature espressive, che uno strumento di tale portata, paradossalmente ma non troppo, forse non aiuta a trovare. Ecco, forse manca, in questa Anna Bolena, quel profumo di femminilità che potrebbe impreziosire il personaggio e che viene sacrificato anche a causa del timbro androgino, soprattutto nella prima ottava, del soprano. Quindi, per portare un esempio, se “Al dolce guidami” è carente di abbandono estatico, di quell’incanto sognante che è l’anima del pezzo, “Coppia iniqua”, invece, è trascinante e pieno d’impeto. Chi, invece, non ha problemi nel fraseggiare con espressività, sensibilità e varietà di accenti è la Giovanna Seymour del soprano Carmela Remigio, che, in un ruolo di solito affidato ad un mezzo, continua a dare prova di una versatilità artistica ammirevole, grazie ad una solida impostazione tecnica e ad una preparazione di tutto rispetto. Nonostante lo strumento, infatti, manifesti qua e là qualche durezza e in certi casi richiederebbe un suono più pieno e rigoglioso, il personaggio viene restituito a tutto tondo nel profilo drammatico ed onorato anche sul piano vocale e stilistico. Altrettanto può dirsi dello Smeton di Manuela Custer, al quale, in certi momenti, si adatterebbe un timbro più fresco, più adolescenziale, ma che è proposto con piena credibilità nella sua patetica natura di ragazzo innamorato, smarrito, vittima di eventi più grandi di lui. Per quanto riguarda il settore maschile, non passa inosservato – e sarebbe da meravigliarsi del contrario – l’Enrico VIII di Alex Esposito, colmo di protervia, di aggressività, di malvagità, al punto da sembrare più un vilain da tradizione che un sovrano, seppure altero, superbo e abituato a imporre a tutti il proprio capriccio. L’approccio vocale privilegia l’accentazione violenta e, appunto, aggressiva, sulla levigatezza e l’omogeneità dell’emissione, il che è discutibile in questo repertorio, anche perché l’artista non ama le mezze misure ma spinge le proprie interpretazioni sempre fino al limite e anche oltre, con esiti di assoluta efficacia sul piano drammatico ma talvolta rischiando, almeno in questo caso, di alterare la linea di canto in nome dell’espressività. La presenza teatrale è del tutto coerente con quella vocale: è un Enrico VIII che tradisce la meschinità delle emozioni che lo agitano muovendosi sul palco con un atteggiamento bieco ben poco regale e non disdegnando di alzare le mani su chi capita. Il Percy di Enea Scala sarebbe molto appropriato se la parte prevedesse solo la zona centrale del pentagramma, dove l’artista sfoggia un fraseggio di bella grana tenorile, nel quale sono presenti abbandono, languore, slancio romantico, quell’afflato lirico, insomma, in cui consiste il fascino di questi ruoli. Purtroppo la zona acuta, affrontata sempre di forza e a voce piena, viene guadagnata con una fatica che compromette la linea e non giova alla resa complessiva. La presenza in scena, però, è viva e spigliata, per cui agli occhi dello spettatore si presenta un Percy come lo si potrebbe immaginare. Anche questo conta. Ottimo, per la vocalità rotonda, nobile e di bel timbro, il Rochefort di William Corrò, mentre ha convinto meno l’Hervey di Luigi Morassi, dall’emissione spesso spinta in un canto che suona stentoreo e forzato. Il ruolo del coro, collocato da Pizzi sul fondo della scena a commentare la vicenda in decorativi tableaux vivant, è fondamentale in quest’opera e viene risolto al meglio, con un suono sempre pieno e compatto a tutti i livelli dinamici, dalla compagine del Teatro istruita da Alfonso Caiani, alla quale vengono giustamente riservati applausi scoscianti al termine dello spettacolo. Ma va detto che un successo pieno ha accolto alla fine della serale di venerdì 4 aprile tutti gli interpreti. Un vero e proprio trionfo, con l’omaggio tradizionale e gentile del mazzo di fiori, è toccato a Lidia Fridman, ma piena soddisfazione è stata riconosciuta a tutti gli altri, a cominciare dal maestro Renato Balsadonna, direttore e concertatore. Questi privilegia i momenti a maggiore intensità drammatica e quindi le sonorità forti e i colori scuri a scapito delle oasi liriche e sentimentali, con un approccio che risulta a tratti un po’ pesante o solo troppo spiccatamente verdiano, specie in alcuni accompagnamenti; una scelta che forse ha influito sullo stile dei cantanti e sul loro modo di affrontare i rispettivi ruoli, ma che va accettata nell’insieme come una delle tante, attendibili letture che si possono dare del capolavoro donizettiano. Adolfo Andrighetti
E’ iniziata bene la stagione canoistica della Canottieri Mestre. Al Campionato veneto fondo & canoa giovani, la cui prima tappa si è svolta a Chioggia con 217 pagaiatori in rappresentanza di 18 società, il sodalizio biancoverde era presente con 29 atleti. Lukas Schrenk Scott si è laureato campione regionale K1 m. 5.000 Ragazzi Maschile, mentre la giovanissima Virginia Ganzaroli ha vinto le serie in K1 4,20 Allievi B Femminile m.2.000 e m. 200; il club di Punta S,Giuliano si è anche aggiudicato 8 medaglie d’argento e 4 bronzi. La settimana successiva la manifestazione è proseguita a Peschiera del Garda con 241 atleti e 21 società (33 i canoisti della Canottieri Mestre). Quattro le medaglie d’oro vinte dai biancoverdi: K4 m. 5.000 Senior (Lorenzo Scantamburlo – Edoardo Raul Profil -Giovanni Carrer -Matteo Furlan); K4 m. 5.000 Ragazzi Maschile (Sebastiano De Piccoli – Lukas Schrenk Scott – Alessio Fontanarosa- Thomas Guzzo); K4 m. 5.000 Ragazzi Femminile (Veronica Zorzetto-Viola Persi Paoli- Giorgia Rossi-Maria Sole Zennaro); K2 m. 5.000 Junior Maschile (Gabriele Alberti- Marco Pedralli). Nella gara regionale K1 4,20 m. 2.000 Allievi B Femminile va inoltre segnalato il nuovo successo di Virginia Ganzaroli. Il bottino finale della Canottieri Mestre ha visto anche tre medaglie d’argento.
Sono arrivate dai più piccoli le maggiori soddisfazioni per la Canottieri Mestre, impegnata nelle regate inaugurali della stagione remiera a San Giorgio di Nogaro, in Friuli Venezia Giulia; presenti circa 800 atleti di tutte le età, provenienti anche da Croazia, Slovenia ed Austria. Alessio Romano e Sebastiano Restivo si sono classificati primo e secondo nelle rispettive serie in singolo allievi cat. B. In un avvio d’annata complessivamente soddisfacente per la rappresentativa biancoverde va segnalata anche la buona prova degli under 19, Alexandros Saraji e Nicolò Bellemo (settimo ed ottavo in singolo; quinti in 2 senza) in preparazione delle selezioni a Gavirate per i campionati europei.
Felicissima proposta, al teatro Malibran e per la prima volta a Venezia in occasione del trecentesimo anniversario della morte di Alessandro Scarlatti, dell’unico titolo dell’insigne musicista definibile come comico: “Il trionfo dell’onore”, commedia in tre atti su libretto di Francesco Antonio Tullio in prima esecuzione assoluta al Teatro dei Fiorentini di Napoli il 26 novembre 1718. Non si tratta, come il titolo farebbe supporre, di una riflessione moraleggiante sugli usi e costumi di personaggi paludati di alto sentire, ma appunto di una commedia, nella quale si assiste ad una sarabanda caotica, ad alto livello di licenziosità, animata da quattro coppie che si intrecciano, si contrappongono, si desiderano, si odiano, fino alla ricomposizione finale, ove, giusto il titolo dell’opera, trionfa l’onore, cioè buon senso e realismo. Il merito dell’eccellente riuscita di questa nuova produzione, salutata al calar del sipario da intensissime e giustificate ovazioni del pubblico, va ascritto in parti uguali alla componente scenica e a quella musicale. Il palcoscenico è tenuto in mano con sicurezza esemplare dal regista Stefano Vizioli, coadiuvato da Ugo Nespolo per scene e costumi, questi ultimi realizzati con gusto e abilità da Carlos Tieppo. Nevio Cavina è il responsabile dele luci. Vizioli riesce a conferire coesione e un ritmo compatto, senza una sbavatura, senza un momento di stasi, con la massima vitalità ma senza quella frenesia che il vorticoso alternarsi delle situazioni potrebbe suggerire, allo scervellato agitarsi degli otto personaggi in fregola. Tutto sul palcoscenico funziona a meraviglia, come un meccanismo perfettamente oliato in cui ogni ingranaggio si incastra senza attrito nell’altro a creare il movimento richiesto; e si rischia di dimenticare bellezze e difficoltà del canto per seguire il gustoso alternarsi dei personaggi sulla scena, che danno vita a simpatici siparietti ricchi di humor e di animazione. Non sono tanto le singole trovate, numerose e spesso ben centrate, a riscattare una comicità inevitabilmente datata risalendo all’inizio del settecento, quanto, come si accennava, il ritmo, sostenuto ma non troppo, mantenuto sul palcoscenico dal regista, che manovra con ammirevole sicurezza e capacità professionale movimenti e gestualità degli otto personaggi; ognuno dei quali, per di più, è caratterizzato in maniera gustosa ed accurata, non sfuggendo allo stereotipo ma anzi valorizzandolo con intelligenza per sottolinearne l’effetto comico. All’eccellente esito dello spettacolo dà un contributo determinante Ugo Nespolo, scenografo e costumista, che avvolge la scena - tranne alcuni momenti seri del III atto affidati al personaggio di Leonora che si svolgono su un fondale scuro - in una meravigliosa sarabanda colorata, ove sono dominanti le quinte decorate con grandi figure di animali, di case o di natura, il fondale geometrico ma altrettanto vivace, e i costumi, di fogge varie e di epoche diverse, anch’essi sovrabbondanti di colore, fantasia, allegria; il tutto rimanendo nell’ambito aureo dell’equilibrio, del buon gusto, della creatività sollecitata al massimo grado ma sempre nel pieno controllo dei mezzi usati allo scopo. E altrettanto può dirsi del disegno luci. Insomma, verrebbe da dire, uno spettacolo più da carnevale che da inizio quaresima, nel quale il giocoso e vitalissimo succedersi delle situazioni erotiche si riflette come in uno specchio nella festa dei colori e della fantasia proposta da scene e costumi; e, forse, viene reso ancora più ammiccante dall’ambiguità sessuale di alcuni personaggi, dovuta certo alla disponibilità degli artisti sulla piazza all’epoca della prima per cui si dovevano accettare quelli che c’erano, ma che finisce per accentuare, almeno per la sensibilità di oggi, quel senso di licenziosa confusione che caratterizza la vicenda. Riccardo, ad esempio, è un seduttore impenitente, collezionista seriale di conquiste femminili, che, dopo aver messo incinta Leonora, vuole ora spassarsela con Doralice fingendosene innamorato perso e pronto a fuggire con lei scopo matrimonio. Ebbene, Riccardo è un soprano donna en travesti sin dalla prima assoluta dell’opera, mentre, secondo la finzione, deve corteggiare, sbaciucchiare, brancicare altre donne. Il personaggio comico di Cornelia, riproposizione del buffo stereotipo della vecchia in fregola ancora a caccia di gratificazioni erotiche, è affidato, secondo l’uso barocco consacrato da illustri precedenti come Monteverdi, ad un tenore, il che ne accentua la componente comica ma anche la fluidità di genere, vista la frequenza delle schermaglie amorose fra Cornelia e il suo amato Flaminio, entrambi tenori. E il tocco conclusivo lo mette Erminio, innamorato di Doralice, che aggiunge il suo timbro asessuato di controtenore alla allegra miscellanea. Anche la parte musicale dello spettacolo è di alto livello, in primo luogo grazie alla impeccabile preparazione musicale, stilistica e scenica degli otto protagonisti, che costituiscono un ensemble affiatato, divertito, professionalmente perfetto. È una gioia vedere questi artisti muoversi e cantare sul palcoscenico con tanta sicurezza e competenza. Il soprano Giulia Bolcato è un Riccardo che si presenta come un giovanetto dalla voce limpida, adamantina e dall’emissione fluida, cui si aggiunge l’incedere ardito, sprezzante, secondo una ben riuscita imitazione di un certo machismo ‘che non deve chiedere mai’. Riccardo è stanco delle lagne di Leonora, da lui sedotta e che ricorda molto la Donna Elvira del “Don Giovanni” di Mozart, mentre è stuzzicato assai da Doralice. Ma dopo aver subito una ferita in duello da Erminio, a sua volta innamorato di Doralice, rinsavisce, si pente e sposa Leonora. Quest’ultima è un personaggio serio affidato al timbro gradevolmente scuro, morbido e ricco di nuances del mezzosoprano Rosa Bove, che interpreta, con la compostezza scenica richiesta dalla parte ma con apprezzabile partecipazione emotiva e suono sempre omogeneo in tutta la gamma, le arie patetiche previste dalla partitura. Doralice, invece, che seria non è, è raffigurata come una biondona un po’ svampita, una ‘bona’ vistosa, volgarotta e sensuale: eccellente il soprano Francesca Lombardi Mazzulli nella caratterizzazione, per la quale si avvale di uno strumento corposo e risonante e di un fraseggio lodevolmente vario. È difficile pensare che di una donna dall’aria così volubile e superficiale come Doralice possa essere innamorato il serioso Erminio, che finirà per averla dopo il ritiro dello sciupafemmine Riccardo. Ma sono i misteri della finzione teatrale, che vanno accettati gioiosamente. Erminio è affidato all’illustre controtenore Raffaele Pe, che esprime la propria sofferenza di innamorato respinto non con la mestizia, come la sorella Leonora, ma con le arie di furore, alle quali piega con successo, grazie ad una competenza musicale e stilistica di alto livello, una vocalità elegante forse più adatta alle espressioni liriche e distese. Il gestire esagitato che accompagna la rabbia, poi, corrisponde allo stato emotivo di Erminio ma sembra esagerato, fuori misura. Il complice di Riccardo nelle sue sregolatezze erotiche, una sorta di Leporello meno complesso e più maschera, è il capitano Rodimarte Bombarda, il classico militare gradasso della commedia dell’arte pronto sempre a dar fuoco alle polveri per poi sparare a salve. Ne è ottimo interprete il basso-baritono Tommaso Barea, grazie ad una vocalità dal bel timbro e robusta, tonitruante a volte, la più adatta a restituire il carattere del personaggio. Rodimarte ama la servetta che, guarda un po’, si chiama Rosina di nome e Caruccia di cognome. Finirà per sposarla, come è ovvio, vincendo senza difficoltà la concorrenza di Flaminio, il classico barbogio dell’opera buffa che concupisce la giovane e finisce per accontentarsi della vecchia. Rosina è il mezzosoprano Giuseppina Bridelli, bravissima per la sciolta, espressiva eppure misurata prestazione scenica e vocale, che ci restituisce una domestica attraente, accattivante, ma mai sopra le righe. Flaminio è caratterizzato in maniera perfetta dal tenore Dave Monaco, che mette la propria sicura e gradevole vocalità di buona tenuta al servizio di un personaggio impagabile, ricco di dignità e di sussiego nonostante la zoppia. Inutile precisare che Flaminio finirà per sposare non la fresca Rosina ma la stagionata Cornelia, a lui già promessa, affidata alla gustosissima ma mai volgare caratterizzazione del tenore Luca Cervoni. Tutti bravi, anzi bravissimi, quindi, sostenuti dalla concertazione del direttore d’orchestra Enrico Onofri, cui è affidata una partitura la più affidabile e completa possibile dopo la revisione compiuta sul manoscritto originale da Aaron Carpenè. Onofri dirige con la competenza riconosciutagli, evitando al meglio quel rischio di meccanicità sempre presente nei ritmi sostenuti del teatro barocco e allargandosi con ammirevole lirismo ed un emozionante effetto patetico nei momenti di ripiegamento intimistico. Adolfo Andrighetti
Rinnovata strategia internazionale per Idrobase Group, vivace realtà imprenditoriale “made in Italy”, con sede a Borgoricco, in provincia di Padova e da anni presente sul mercato africano: anticipando il piano Mattei e prima fra le imprese medio-piccole del nostro Paese avvia, infatti, tre accordi per produzione su licenza in Algeria. Il primo riguarda i componenti per aspirapolveri professionali, mentre il secondo interessa i detergenti per autolavaggi (car wash), hotel e ristoranti (HoReCa); il terzo contratto interessa componenti per idropulitrici professionali. Ai 3 partner algerini saranno fornite tecnologie e “know how” da Idrobase Ningbo (Cina) e dalla casa madre italiana, che si riserva il controllo e la verifica sulla produzione. I componenti prodotti in loco saranno assemblati ai pezzi in arrivo dagli altri due stabilimenti della “multinazionale tascabile” italiana, dando vita ai prodotti finiti . “I prodotti finiti saranno marchiati con logo Idrobase e venduti in Algeria e sul mercato africano; la casa madre italiana garantirà la promozione del brand, il collegamento fra produttori e mercato, nonché naturalmente il controllo di qualità” precisa Bruno Gazzignato, Contitolare di Idrobase Group. Questa implementazione della strategia aziendale nasce tre anni fa ed è parte del piano di sviluppo del marchio Idrobase, che contiamo produca importanti sviluppi sul mercato del settore del cleaning ad iniziare dall’Africa per poi interessare altre aree del mondo. Crediamo così di concretizzare obbiettivi condivisi, offrendo opportunità di collaborazione ad economie emergenti” conclude Bruno Ferrarese, anch’egli Contitolare dell’azienda, specializzata nelle tecnologie dell’ “acqua in pressione” e del “respirare aria sana.” La produzione inizierà fra 9 mesi, cioè il tempo necessario ad approntare le linee di produzione e ad istruire il personale. “Probabilmente siamo la prima azienda europea a delocalizzare dalla Cina all’Algeria!” conclude Ferrarese.
In attesa di rinserrare le fila, ripartendo dal beach handball, la Pallamano C.U.S. Venezia, che in questa stagione sta limitandosi all’attività promozionale, esprime grande soddisfazione per i successi dei “tre moschettieri” che, oggi ventenni, hanno lasciato la società lagunare per i maggiori palcoscenici nazionali, prodotto di un settore giovanile, che si sta lavorando per ricostituire (i biancogranata possono vantare, nel palmares, anche uno scudetto Under 14). Marco Zanon, terzino sinistro approdato nelle fila del Bolzano in serie A Gold, è tra i 19 convocati al raduno della Nazionale in vista della doppia sfida con la Lettonia (13 Marzo a Jelgava – 16 Marzo ad Oristano), valida per le qualificazioni ai Campionati Europei 2026 e che sarà la “prima” del neo Direttore Tecnico azzurro, Bob Hanning. In serie A Gold milita anche Lorenzo Rossi, da tre anni a difesa della porta dei neopromossi marchigiani del Camerano; l’estremo difensore veneziano è stato convocato al raduno della Nazionale di beach handball, iniziato a Trapani, sotto la guida di mister Pasquale Maione in vista degli Europei della prossima estate in Turchia, dove gli azzurri se la vedranno, nella fase preliminare, con Ungheria, Norvegia ed Ucraina. Il pivot, Leo Andreotta, infine, è tra i protagonisti della rinascita del Trieste, la società più titolata d’Italia e che, dopo un anno in Serie A Silver, ha riconquistato la massima serie a quattro giornate dalla fine ed è tuttora imbattuta. “Non possiamo che essere felici del progredire della loro carriera sportiva, partita tra le mura del PalaCus – commenta Sebastiano Varponi, loro primo allenatore ed ancora oggi sul parquet ad insegnare i basilari dello sport ai più piccoli - Manteniamo buoni rapporti e non mancheremo di utilizzarli come testimonial per cercare i loro epigoni, capaci di riportare il C.U.S. Venezia al ruolo, che per tanti anni ha rivestito nella pallamano italiana.”

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Da venerdì 14 Marzo prossimo sarà disponibile, su tutti i canali digitali, “Tango y Nada Màs”, il nuovo lavoro del chitarrista trevigiano, Andrea Vettoretti, Direttore Artistico del Festival Internazionale delle Due Città Treviso-Venezia: si tratta di un “medley a quattro mani”, eseguito con un altro conosciuto chitarrista della Marca, Massimo Scattolin e dedicato alle melodie più iconiche di Astor Piazzolla, Aníbal Troilo e Cacho Castaña, fuse in un’unica, intensa narrazione musicale. “Tango y Nada Màs” è un omaggio alla tradizione ed allo stesso tempo una nuova visione di questa musica, dove le chitarre dialogano e si inseguono, trasformando ogni nota in un racconto di passione e nostalgia: “Vuelvo al Sur”, “Malena”, “Garganta con Arena”, “Chiquilín de Bachín”, “Balada para un loco”, “Yo soy María” sono brani qui trascritti con cura ed interpretati con tocco unico, vibrante di emozione e virtuosismo. Andrea Vettoretti, chitarrista e compositore di prestigio internazionale, porta la sua musica sui palcoscenici del mondo, esplorando un linguaggio musicale innovativo tra classica e nuove sonorità; con “Tango y Nada Más” prosegue il suo percorso nel genere “New Classical World”, una visione musicale, che unisce tradizione e contemporaneità con uno sguardo aperto al futuro. Dopo essersi esibito nel 2024 in eventi musicali dedicati alla sostenibilità (dal G7 Agricoltura al Teatro La Fenice), Andrea Vettoretti sarà ufficialmente nominato a Trento, in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua in calendario il 22 Marzo, “Ambassador del Global Network of Water Museums”, promosso dall’Unesco.

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