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Correva l’anno 1926 quando Kurt Weill, precisamente il 27 marzo, debuttò come operista alla Semperoper di Dresda con l’atto unico “Der Protagonist”, ora al Teatro Malibran per una stimolante prima assoluta veneziana. Il contesto culturale dell’epoca era vivace e complesso, segnato dalla nascita della psicoanalisi e dalla scoperta delle patologie mentali, per cui l’opera, il cui libretto riproduce fedelmente un testo di Georg Kaiser del 1920, si presenta come il frutto di questa sensibilità nascente verso gli strati più profondi ed inquietanti della mente umana. “Der Protagonist”, infatti, racconta la vicenda di un’alienazione patologica e narcisistica, che conduce un capocomico a confondere la finzione del palcoscenico con la realtà e a uccidere realmente la sorella in luogo dell’omicidio simulato voluto dalla vicenda che si doveva mettere in scena. La sorella gli comunica l’arrivo dell’amante mentre sono in corso le prove della tragedia al termine della quale un marito ingannato avrebbe dovuto sopprimere la moglie infedele accecato dalla gelosia. Ma il comportamento della donna, che il fratello vive come un tradimento per non essere stato informato della relazione, si sovrappone al tradimento teatrale; quindi, nella confusione di realtà e fantasia, colui che è Der Protagonist sul palcoscenico lo diventa tragicamente anche nella vita, ergendosi ad arbitro supremo dell’esistenza altrui in un finale di autoesaltazione, segnato, come sottolinea il maestro Stenz che dirige l’orchestra al Malibran, dalla trionfalistica tonalità di re maggiore e dall’assertivo ritmo in 4/4. È chiaro che l’alienazione del Protagonist, il cui primo frutto avvelenato è rappresentato dall’amore possessivo e morboso che egli nutre verso la sorella e che la regia giustamente mette in evidenza, viene proposta da Weil e da Kaiser come il simbolo di uno squilibrio che riguarda prima di tutto una società malata e affaticata, i cui figli non potranno che presentare i medesimi sintomi. Tuttavia è altrettanto chiaro che l’eccellente proposta al Teatro Malibran della prima opera del ventiseienne compositore si giustifica in primo luogo per la straordinaria vitalità e varietà della musica, di una ricchezza sorprendente di temi, colori, soluzioni armoniche e ritmiche, nonché di una freschezza creativa entusiasmante. Sembra di stare davanti ad una fontana che erutta zampilli d’acqua di colori e forme continuamente diverse, che, se non permettono di inquadrare l’opera entro una categoria precisa (ma pazienza...), mettono però in pieno risalto la versatilità di un musicista che, nonostante la giovane età e il suo essere al debutto come compositore di teatro, è in grado di accedere ai generi musicali più disparati, piegandoli alle proprie esigenze con una vivacità di scelte che diventa esuberanza. Onore al merito, naturalmente, all’orchestra della Fenice, che risponde alla grande alle sollecitazioni provenienti dal podio, dove il maestro Markus Stenz sa dare pieno risalto alle infinite potenzialità della partitura. Da segnalare anche l’apporto dei musicisti (due flauti, due clarinetti, due fagotti, due trombe) che si esibiscono sul palcoscenico in quanto inviati dal duca per sostenere la pièce teatrale di cui è volubile committente. Di eccellente livello anche il cast, dominato dal tenore Matthias Koziorowski, un Protagonist solido, incisivo e svettante in acuto, accanto al quale si segnala la sorella del soprano Martina Welschenbach, assolutamente credibile come vittima predestinata di un amore fraterno distorto e morboso, oltre che padrona di una parte risolta con vigore e sensibilità. E ancora da apprezzare il giovane gentiluomo del baritono Dean Murphy, dal timbro caldo e avvolgente, l’adeguato maggiordomo del duca impersonato dal tenore Alexander Geller, e il sapido oste del basso-baritono Zachary Altman. Abili e duttili sia negli interventi cantati sia nel dare vita ai siparietti mimati i tre attori, interpretati dal basso Szymon Chojnacki, dal basso-baritono Matteo Ferrara e dal controtenore Franko Klisović. In conclusione, un cast preparato, affiatato, ben dentro alle rispettive parti e pronto a onorare l’impegno vocale richiesto dalla partitura. Ben concepita e attuata la messinscena, di cui è responsabile Ezio Toffolutti per regia, scene, costumi e luci, queste ultime realizzate da Andrea Benetello. Il regista sposta l’originaria ambientazione elisabettiana all’epoca della composizione dell’opera, subito dopo la prima guerra mondiale, sottolineandone così la carica innovativa ed eversiva legata all’avanguardia storica e all’Espressionismo, come spiega lo stesso Toffolutti. Si evidenzia un lavoro attento e di puntuale professionalità sui singoli personaggi, particolarmente efficace durante le due pantomime, quella comica quanto quella seria, che si svolgono all’interno di due strutture poste ai lati opposti del palcoscenico per permettere agli attori di vedersi e svelarsi mentre consumano i rispettivi tradimenti affettivi. Sono le prove dello spettacolo commissionato dal duca, che, sulla falsariga dell’altrettanto volubile e supponente gran signore dell’”Arianna a Nasso” di Richard Strauss, prima comanda uno spettacolo comico, poi esige che, a causa della presenza di un vescovo, sia girato al tragico. E tragico sarà, dal momento che il Protagonist della pièce teatrale non si accontenterà di esserlo sul palcoscenico ma vorrà diventarlo tragicamente anche nella vita. Toffolutti ambienta la vicenda all’interno di una sorta di magazzino, che, come egli stesso dichiara, riproduce un luogo che aveva affittato alla Giudecca. Una scelta funzionale allo spettacolo e appropriata sotto il profilo concettuale, perché la semplicità del posto, manifestamente dedicato al lavoro, contrasta efficacemente, per la sua quotidiana concretezza, con l’allucinata esaltazione del Protagonist, che confonde arte e vita, finzione e realtà, in una parossistica esaltazione del proprio ego. Funzionali e adeguati al contesto anche i costumi Alla pomeridiana di domenica 4 maggio, applausi calorosi e convinti per tutti gli artefici dello spettacolo. Adolfo Andrighetti