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Confesso che, ogni qual volta vedo a teatro “Attila” di Giuseppe Verdi, torno sempre ad emozionarmi come un bambino. Sarà perché la memoria corre veloce a quelle rappresentazioni del 2004, protagonista allora come ora Michele Pertusi, quando sedevamo sotto il funzionale PalaFenice dopo l’orrendo incendio del 1996, mesti per l’esilio coatto ma anche grati perché ci era data la possibilità di continuare ad ascoltare l’opera. E, in quel contesto grigio e disadorno rispetto al teatro che amavamo e che non c’era più, ascoltavo commosso la cabaletta di Foresto, che rianima i profughi di Aquileia profetizzando la rinascita della “cara patria” “qual risorta fenice novella”. A quelle parole, infatti, e a quel canto dall’energia trascinante, rivolgevo il pensiero al nostro teatro, alla Fenice, “cara patria” della cultura e dello spirito, di cui si attendeva la rinascita come quella del mitico uccello da cui prende il nome. Ma la mia emozione di spettatore deriva soprattutto dalle caratteristiche dell’opera ed in particolare della musica, che tocca il cuore delle anime semplici, capaci di commuoversi ed entusiasmarsi, tanta è l’energia travolgente, a tratti aggressiva e quasi brutale, che ne sprigiona; un’energia che afferra allo stomaco e non molla mai la presa, mozza il respiro e annulla quel distacco critico che la persona ragionevole e istruita dovrebbe o almeno vorrebbe mantenere fra sé e lo spettacolo cui assiste. Di questo magma musicale incandescente, di questo torrente in piena che tutto travolge al suo passaggio, di questa forza impetuosa tutta verdiana perché ormai i grandi padri Rossini e Donizetti sono stati definitivamente abbandonati, si è fatto ottimo interprete il maestro Sebastiano Rolli, sul podio della Fenice per questa nuova produzione di “Attila”, che segue l’edizione critica della partitura, a cura di E.Greenwald, edita da University of Chicago Press e dalla nostra Casa Ricordi. Rolli, infatti, mostra una totale sintonia con l’universo drammatico e musicale dell’opera, nel quale si immerge con convinzione e dedizione, assecondandone gli impeti travolgenti ma anche conferendo adeguato risalto ai momenti di incantato lirismo, tanto più affascinanti in quanto si aprono in mezzo al fuoco e alle fiamme di una partitura incandescente: ci si riferisce, naturalmente, all’alba sulla laguna di Rio Alto nel Prologo, felicemente descrittiva, e alla romanza di Odabella “Oh! Nel fuggente nuvolo”, dal carezzevole accompagnamento, all’inizio dell’atto primo. Non si è capita solo la funzione, nei ‘da capo’ delle cabalette, di alcuni vistosi ‘rallentando’, che sono sembrati delle interruzioni artificiose nell’andamento impetuoso della musica. Con il maestro Rolli hanno collaborato al meglio l’orchestra del teatro e, sotto la direzione del maestro Alfonso Caiani, il coro, particolarmente efficace e compatto nella sezione femminile e in quella delle voci gravi maschili. La valutazione sul cast a disposizione di Rolli non è semplice. “Attila” ha bisogno di voci sonore, impetuose, baldanzose, ma anche stilisticamente avvedute, ché qui ci si muove in un contesto di pieno romanticismo, capaci di andare oltre la routine professionale e di interpretare con convinzione e dedizione. L’Attila di Michele Pertusi è per palati fini. L’artista unisce, alla presenza scenica sempre prestigiosa, il ben noto magistero vocale, fatto di un timbro pieno, pastoso, rotondo, senza un’incrinatura, senza un appannamento se non in qualche affondo nei gravi, di un assoluto controllo dei fiati e quindi delle variazioni dinamiche, di un’intonazione ammirevole, di un fraseggio sempre nobile ed espressivo. Con il suo canto pulito, sonoro e imperioso quando occorre ma sempre sorvegliato e alla fine pienamente umano, Pertusi è perfetto per impersonare il lato più vulnerabile di questo guerriero sanguinario ma in fondo fragile, indifeso, vittima dell’amore per una donna e di un codice d’onore duro, arcaico, che egli osserva con lealtà e che lo espone inerme e generoso come una vittima sacrificale all’odio e alla smania di vendetta degli altri, figli di una civiltà in decadenza che sopravvive grazie all’intrigo. L’Odabella del soprano Anastasia Bartoli, la più applaudita al termine dello spettacolo, manovra con notevole perizia uno strumento rigoglioso ed esuberante, che si lancia impavido nell’invettiva e scaglia verso il cielo acuti sonori ed imperiosi. Da questo punto di vista è l’Odabella ideale, capace, grazie anche alla presenza accattivante e insieme bellicosa, di restituire in pieno il carattere di questa donna indomita e a tratti feroce. La padronanza tecnica permette all’artista di risolvere in maniera adeguata non solo le agilità di forza, che si addicono alle caratteristiche della sua voce, ma anche i passi più lirici, ai quali però, per quanto abilmente impostati e condotti, manca un reale abbandono, quella dolcezza femminile vagamente sognante che si richiederebbe in un’eroina romantica. Il Foresto del tenore Antonio Poli esibisce un bel timbro fresco e smaltato, uno slancio tenorile che scalda il cuore, una presenza scenica disinvolta e gradevole. Purtroppo il canto è prevalentemente impostato sul forte e suona di conseguenza un po’ teso e spinto. Anche se non mancano le note modulate in piano, come alla chiusa dell’aria “Ella in poter del barbaro” sulle parole “mio dì”, l’impressione è che l’artista trovi la propria comfort zone nel canto sfogato. Ne scapitano gli acuti, che ci sono ma potrebbero essere più limpidi e squillanti, e in parte il fascino delle melodie che Verdi mette in bocca al personaggio, a cominciare dall’accattivante arietta d’ingresso “Qui, qui sostiamo!”, che si vorrebbe accompagnata da un involo più aereo, più sognante, più romantico insomma. L’Ezio del baritono Vladimir Stoyanov non incomincia bene. Tenorile in alto, poco consistente al centro, accusa qualche nota brutta, sporca, e un’intonazione a tratti perfettibile, per cui “Tardo per gli anni, e tremulo” e il successivo duetto con Attila non riescono come dovrebbero. Per fortuna il bravo artista, noto per la sua solidità professionale, si riprende a partire dal secondo atto, in cui trova una linea di canto più corretta ed un’emissione omogenea, anche se la sua interpretazione si conferma interlocutoria. Sonoro e sicuro l’Uldino del tenore Andrea Schifaudo. Meno autorevole del necessario il Leone del basso Francesco Milanese. La messinscena, nell’insieme riuscita e dotata di una sua forza e di un certo fascino, è dovuta a Leo Muscato per la regia, Federica Parolini per le scene, Silvia Aymonino per i costumi, Alessandro Verazzi per il disegno luci. L’elemento base è rappresentato da una foresta di alberi spogli e sottili, che occupano i due lati, mentre dal fondo emergono coristi e figuranti. Ma la drammaturgia teatrale prende vita e consistenza soprattutto grazie alle luci, che creano, con effetti assolutamente suggestivi, le diverse atmosfere, improntate tutte al tono generale del tetro e del desolato, mentre la regia gestisce con professionalità il palcoscenico senza offrire però spunti di particolare interesse. Risulta troppo statica la disposizione del coro, mentre la caratterizzazione e i movimenti dei vari personaggi sono adeguati pur nella ordinarietà. Ne deriva che la visione del regista, secondo la quale “Attila” è opera che racconta il disfacimento di una civiltà piuttosto che la nascita di una nuova, è affidata al contesto scene, luci, costumi, questi ultimi saggiamente d’epoca anche se con qualche libertà, piuttosto che all’organizzazione del palcoscenico, dove tutto funziona a dovere ma in maniera sempre un po’ prevedibile. Alla rappresentazione di giovedì 22 maggio un teatro felicemente stracolmo in basso e in alto ha riconosciuto un successo cordiale, caldo ma non incandescente, agli artefici dello spettacolo, con punte di maggiore entusiasmo per Anastasia Bartoli e il maestro Rolli. Adolfo Andrighetti