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Torna alla Fenice “Orfeo ed Euridice” di Gluck e si riproduce l’atmosfera incantata e superna che promana da questo capolavoro, nel quale trova una realizzazione perfettamente compiuta sul piano artistico la riforma del melodramma voluta dal compositore insieme al suo librettista Ranieri de’ Calzabigi e diretta a proporre una drammaturgia musicale più vera, più essenziale, più corrispondente alla parola, rispetto all’esibizionismo esornativo e virtuosistico caratterizzante il gusto barocco. Alla Fenice è stata messa in scena la prima versione dell’opera, quella originale, rappresentata al teatro di corte di Vienna nel 1762 per l’onomastico dell’imperatore Francesco I. E, come si accennava, la magia di quest’opera, baciata dalla bellezza perfetta e purissima delle Muse, si è ricreata intangibile dopo due secoli e mezzo. Ciò si deve ad uno spettacolo pienamente riuscito ed appagante sotto ogni angolo visuale. Si potrebbe osservare che il risultato ottimale dell’insieme fosse prevedibile se non scontato, in considerazione del livello dei responsabili della parte musicale e di quella visiva, rispettivamente Ottavio Dantone come direttore e maestro al cembalo, e Pier Luigi Pizzi, artefice di regia, scene e costumi. Ma non è così, perché nel teatro in musica, dove componenti numerose ed eterogenee sono chiamate ad interagire fra loro, la riuscita complessiva di ciò che si offre al pubblico è legata ad alchimie raffinate la cui positiva combinazione non sempre avviene, o almeno non sempre come era lecito aspettarsi. È da accogliere dunque con pieno gradimento l’”Orfeo ed Euridice” proposto alla Fenice e così l’ha salutato il pubblico alla serale del 4 maggio, esprimendo la soddisfazione appagata di chi ha potuto assistere ad un progetto artistico riuscito sotto ogni aspetto e abbracciando almeno virtualmente, con un entusiasmo caloroso e commosso, il glorioso Pier Luigi Pizzi, apparso sul palcoscenico insieme agli altri artefici dello spettacolo. Ottavio Dantone ci regala, con la positiva collaborazione di un ensemble di ridotte dimensioni tratto dall’Orchestra del Teatro, una lettura vivida e sensibilissima della partitura, della quale nulla è smarrito strada facendo o trascurato, mentre viene restituita in tutta la sua malia fatta di tinte ora malinconiche ora corrusche, ora estatiche ora passionali, e soprattutto di una bellezza ineffabile che possiede le armoniose proporzioni dell’ideale classico. Ha ragione Pizzi, ancora una volta, quando, riferendosi a Dantone, afferma che definirlo specialista della musica antica è riduttivo, perché questa classificazione “fa pensare in qualche modo a un virtuosismo raggelato, e non è questo il caso. Ottavio è un artista vero, dotato di una grande sensibilità, capace di emozionare”. Ottimo anche il cast dei solisti, nel quale si fa apprezzare in modo particolare l’Orfeo del mezzosoprano Cecilia Molinari, per la perfetta corrispondenza del suo canto all’atmosfera ed allo stile tanto della partitura quanto della messinscena, entrambi improntati ad un neoclassicismo nobile, elegante ma tuttavia vibrante di passione. L’artista si impone non tanto per le qualità naturali dello strumento, anche se del tutto adeguato al repertorio, quanto per la dizione perfetta, l’emissione pulita, l’inappuntabile intonazione, soprattutto una ammirevole varietà di accenti e di tinte che permette di esprimere con grande comunicativa l’intera gamma dei sentimenti che vive Orfeo. La sua Euridice è il soprano Mary Bevan, dalla adeguata presenza scenica e dal canto intensamente lirico, in grado di esprimere con la giusta carica drammatica, pur senza mai smarrire l’aplomb richiesto dal contesto culturale cui l’opera appartiene, la passione di una donna innamorata fra l’acre delusione e la felicità del pieno appagamento. Brava come sempre Silvia Frigato, artista ben nota al pubblico veneziano, che è un Amore dalla vocalità fresca e scintillante, come si addice al dio che incarna la gioia e la restituisce per due volte, l’ultima definitivamente, ai due amanti del mito. Di grande rilievo nell’opera di Gluck è il ruolo del coro, tant’è vero che la regia lo vuole sempre sul proscenio, a commentare lo svolgersi dell’azione con la compostezza e la ieraticità della tragedia greca. Si fa apprezzare soprattutto la componente femminile, ma in particolare nell’apoteosi finale qualche disomogeneità si è sentita. Al maestro Alfonso Caiani il compito di sistemare ciò che ancora sembra non funzionare proprio a puntino. Pier Luigi Pizzi, di cui non dirò l’età perché l’illustre regista non ha bisogno di alcun tipo di affettuosa condiscendenza dovuta agli anni fino ad ora vissuti, continua con questo spettacolo quel percorso di sottrazione del superfluo e di ricerca dell’essenziale che egli stesso dichiara di aver intrapreso da un po’ di tempo. Nulla quindi si vede di esornativo, ma solo un’eleganza scabra, asciutta, che evoca e allude con una drammaticità che non perde di vigore ma sia fa anzi più incisiva, più impressionante, in forza della sobria linearità con cui è realizzata. Anche l’eliminazione di fatto dei balli corrisponde a questa concezione severa dello spettacolo, nel quale si vuole che il protagonista dell’azione drammatica sia la musica. In totale sintonia con questa impostazione sono i costumi, neri tranne quello di Euridice, mentre il coro è vestito con tuniche grigio scuro. Il primo atto si apre su di una nuda scena cimiteriale con alcune pietre tombali nere, mentre dei cipressi ed un albero scheletrito si stagliano sullo sfondo di un cielo ingombro di nubi tempestose. L’effetto è di un sapore preromantico, rafforzato anche dalla presenza di due figuranti che restano immobili appoggiati ad una tomba, a ricordare la postura, tragica ed enfatica insieme, di certi monumenti funebri che si vedono spesso nei camposanti. La sena degli inferi è caratterizzata da uno spettacolare incendio perenne che arde dietro una parete nera alta fino al soffitto, a simboleggiare, con la collaborazione di alcuni mimi, l’impossibilità metafisica più che materiale di varcare quelle soglie oscure. I Campi Elisi sono resi soprattutto attraverso una luce candida, quasi abbagliante (“Che puro ciel! Che chiaro sol!”), mentre sullo sfondo si apre un mare placido e trasparente dai tenui riflessi azzurrini. Il drammatico incontro tra Orfeo ed Euridice si svolge davanti ad una sorta di tunnel che si apre con un andamento a spirale verso il fondo illuminato, a rappresentare l’ardua prova che i due amanti devono affrontare prima di potersi riabbracciare. Ma, nel finale, ecco la sorpresa. Il giubilo generale che accompagna il ritrovarsi definitivo di Orfeo ed Euridice si esprime davanti alla raffigurazione della facciata esterna del Teatro La Fenice; perché, spiega Pizzi, in Euridice io vedo la Musica e come rappresentare il ritrovamento da parte di Orfeo del suo ideale e della sua ragione di vita, cioè appunto Euridice-Musica, se non mettendo in scena un teatro? Ma non un teatro qualsiasi, aggiunge Pizzi, bensì il “nostro Teatro”. Grazie, maestro, anche per questo atto di amore verso, appunto, il “nostro Teatro”. Adolfo Andrighetti