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ALLA FENICE: UN "ERNANI" OPPRESSO DAI TRAUMI DEL PASSATO

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Forse il merito principale di questa sorprendente produzione di “Rigoletto”, già vista alla Fenice nel 2021 in pieno Covid dopo il debutto all’Opera Nazionale di Amsterdam nel 2017, è rappresentato dalla completa e singolare sintonia fra la concezione registica, dovuta a Damiano Michieletto, e quella musicale, espressa sul podio da Daniele Callegari. La lettura di Michieletto, infatti, imperniata su di un protagonista rinchiuso in un ospedale psichiatrico ove rivive l’intera vicenda in una lunga e angosciosa allucinazione, una lettura così dura, scabra, asciugata da ogni sentimentalismo ma offerta in tutta la sua nuda e spietata disperazione, trova piena rispondenza nella impostazione musicale di Callegari. Questi sembra mortificare ogni parentesi lirica della partitura, per scandirne lo sviluppo secondo un ritmo serrato, implacabile, trascinando il dramma in una corsa sfrenata verso il nulla. L’incubo perenne di Rigoletto, schiacciato dalla tragedia della morte della figlia di cui si sente ed è anche responsabile, quella sua allucinazione incessante popolata dal ricordo di Gilda bambina, dalla presenza sfrontata e invasiva del Duca e dall’agitarsi attorno a lui della massa senza volto e senza anima dei cortigiani, tutto questo universo cui torna a dare vita una mente malata si completa e si compie attraverso una esecuzione musicale a tratti quasi meccanica nella sua implacabile scansione, prosciugata di quegli indugi e di quegli squarci lirici che possano far supporre che, oltre la sofferenza delle vite schiacciate, si apra un altrove armonioso e pacificato. Insomma, il “Rigoletto” messo in scena da Michieletto non dà spazio alla speranza e la direzione di Callegari, sottraendo alla partitura quell’orizzonte lirico in cui la speranza trova una dimensione sonora, compie sul piano musicale ciò che la regia propone. Alla fine si assiste ad una serata memorabile, nella quale nulla è scontato, nulla sa di routine, ma tutto fa riflettere lo spettatore e, prima ancora, lo prende alla gola, lo scuote e lo conturba. Si esce dalla sala emozionati, sconcertati, magari ripassando mentalmente i limiti dello spettacolo come quelli della lettura musicale, ma con lo spirito del reduce che ha appena vissuto un’esperienza forte, artisticamente traumatizzante, di quelle che non si dimenticano. Come sarà difficile dimenticare tutti i momenti solo orchestrali, a cominciare dalle poche battute del preludio, spinti verso una tensione quasi insostenibile e mai udita prima almeno da chi scrive, così non può non restare nel ricordo l’immagine straziante di quell’uomo distrutto, annichilito, vagante per il palcoscenico nell’espressione di una sofferenza che non conosce requie. Su questi presupposti, di fronte ad un così elevato livello culturale ed artistico, non è il caso di indicare i limiti dello spettacolo e dell’esecuzione musicale, già sottolineati su “Asterisco” da chi scrive in occasione della premiere italiana del 2021. Michieletto, coadiuvato da Paolo Fantin (scene), Agostino Cavalca (costumi), Alessandro Carletti (luci) e Roland Horvath (video), sconta la propria creatività sbrigliata e a tratti geniale con una sovrabbondanza di immagini e simboli come Gilda bambina onnipresente sia in scena sia nei video; una sovrabbondanza che è incongrua in una visione così severamente e spietatamente essenziale della vicenda; ed è ovvio che la lettura di Callegari, stringente e quasi asfissiante nella sua assenza di oasi liriche in cui riposare e respirare, non giova al canto, che non si espande libero nei momenti in cui lo potrebbe ma resta sempre un po’ sacrificato, come ingabbiato. Così “Veglia o donna” suona meccanico, carente di sentimento ed umanità, e altrettanto può dirsi di uno spoetizzato “Caro nome”. Ma ‘tout se tient’ in questo indimenticabile “Rigoletto”, perché tutto è coerente con una concezione che dimostra come, partendo dal dramma e non stravolgendolo, si possano proporre spettacoli innovativi, anche trasgressivi, ma non fuorvianti, non ultronei rispetto a quanto suggerito dal libretto e dalla partitura. Certo, le forzature non mancano, sia nella regia come nella lettura musicale; eppure non fanno che riproporre al giorno d’oggi quella carica destabilizzante che gli spettatori dell’epoca percepirono in “Rigoletto” al suo primo apparire. Luca Salsi letteralmente si offre alla regia di Michieletto con totale disponibilità, accogliendone fino in fondo ogni stimolo, ogni suggerimento. Il risultato è un’interpretazione memorabile per la verità della presenza scenica angosciata, straziata, alienata nella gestualità ossessiva e irrequieta. Lo strumento, sontuoso come sempre per rotondità, omogeneità, pienezza di suono, sa piegarsi ad ogni esigenza della partitura con una varietà di colori, accenti e sfumature che non sorprende più chi segue questo eccellente artista, così felicemente e frequentemente presente alla Fenice. A un “Cortigiani” di una violenza inaudita, per esempio, corrispondono innumerevoli frasi sussurrate con straordinaria leggerezza. Da sottolineare, rispetto alla performance del 2021, l’apprezzabile rinuncia, soprattutto nel finale, ad effetti quasi di parlato allora apparsi forse troppo esteriori e plateali, a vantaggio di un canto spianato altrettanto emozionante ma più conforme allo stile verdiano. Anche il Duca di Mantova del tenore peruviano Ivan Ayon Rivas, già presente nel 2021 come il maestro Callegari, Salsi e alcuni comprimari, è perfettamente intonato all’impostazione dello spettacolo. Sicuro di sé sino alla sfrontatezza e oltre, si muove sul palcoscenico come a casa e incarna alla perfezione il ruolo del macho che, come recitava una pubblicità d’antan, ‘non deve chiedere mai’. Anche sul piano vocale la resa è coerente con la sottolineatura della componente arrogante ed egocentrica del personaggio, attraverso un canto che sfoga facilmente verso l’acuto e suona sempre insolente, quasi aggressivo. Quindi il tenore dà il meglio di sé dove può liberare la voce in un canto spiegato e squillante, come nella cabaletta “Possente amor mi chiama” e anche ne “La donna è mobile”, mentre altrove si vorrebbe un suono più morbido e rotondo, ottenibile con un’emissione più controllata ed omogenea. Così i momenti in cui l’artista cerca un canto più modulato sul piano, sembrano quasi giustapposti a quelli in cui il suono viene scagliato verso l’alto con squillo aggressivo, mentre le due fasi dovrebbero apparire l’una il completamento dell’altra senza soluzione di continuità. Maria Grazia Schiavo, apprezzatissima alla Fenice ne “La Fille du régiment” del 2022, è la Gilda, indifesa di fronte all’irrompere dell’amore, che ci si aspetta e che deve essere. La voce, forse in qualche momento in difetto di volume e di rotondità, dà il meglio nei passi più virtuosistici, come “Caro nome”, dove si impongono la tecnica impeccabile del soprano, il suo timbro squillante e adamantino e la sua facilità nel dominio del registro acuto. Lo Sparafucile di Mattia Denti è adeguato nella presenza scenica da bravaccio delle nostre tristi periferie urbane, mentre il canto, nonostante la buona padronanza del grave e l’indiscutibile professionalità, sembra quasi faticare a liberarsi e ad espandersi, e lascia un po’ a desiderare in quella connotazione minacciosa e lugubre pure indispensabile nella resa del personaggio. Misurata nel canto e nella presenza scenica la Maddalena del mezzosoprano Marina Comparato. Adeguati il Monterone di Gianfranco Montresor, anche se la parte richiederebbe un basso piuttosto che un baritono, e il Marullo di Armando Gabba. Apprezzabile, senza scendere in pedanti distinguo, il contributo degli altri: Carlotta Vichi (Giovanna), Roberto Covatta (Borsa), Matteo Ferrara (conte di Ceprano), Rosanna Lo Greco (contessa di Ceprano), Nicola Nalesso (Un usciere di corte), Sabrina Mazzamuto (Un paggio della duchessa). Impeccabile il Coro della Fenice istruito da Alfonso Caiani. Alla serale di martedì 11 febbraio il pubblico si scalda e si sgola per applaudire con entusiasmo tutti gli interpreti, a cominciare dal monumentale Luca Salsi, meritatamente oggetto di ovazioni interminabili. Ma sarebbe stato interessante cogliere qualche reazione di fronte alla spiazzante proposta teatrale e musicale, proprio per capire cosa...è stato effettivamente capito. Adolfo Andrighetti
La creazione di una “joint venture” per lo sviluppo dell’immenso mercato U.S.A. degli “sparanebbia” per l’abbattimento delle polveri industriali (oltre al consolidamento della presenza oltreoceano nel settore della ricambistica) è l’ulteriore novità degli obbiettivi 2025 della veneta Idrobase Group, azienda leader internazionale nell’utilizzo delle tecnologie dell’acqua in pressione e del “respirare sano”, presente oggi in 92 Paesi. A presentare le priorità annuali nell’ “headquarter” di Borgoricco, in provincia di Padova sono stati i contitolari, Bruno Ferrarese e Bruno Gazzignato, da sempre sostenitori delle alleanze strategiche, che hanno già portato alla nascita di una rete italiana d’impresa (Safebreath.net). Così, una convinta filosofia collaborativa sarà anche alla base della rafforzata presenza sul mercato africano, grazie ad accordi di produzione su licenza, conclusi con imprenditori algerini. Lì saranno trasferite alcune produzioni attualmente in carico all’unità produttiva Idrobase Ningbo, in Cina; assemblate con componenti in arrivo dalla casamadre italiana serviranno a realizzare prodotti di “cleaning” per i mercati d’Africa in crescita esponenziale. Nella sede centrale di Borgoricco prosegue intanto (terminerà nel 2026 con un investimento complessivo di mezzo milione di euro) l’implementazione del metodo Lean i tutti i comparti aziendali (dagli acquisti al finanziario) con grande attenzione alla valorizzazione del capitale umano; tale processo porterà ad un risparmio del 40% nei tempi di lavoro, permettendo maggiore formazione qualificata per i dipendenti, più tempo per ricerca ed innovazione, una riduzione selettiva del 15% sui prezzi di listino per garantire più penetrazione sui mercati e combattere anche la concorrenza a basso costo, pur mantenendo alta la qualità “made in Italy”. Grande attenzione sarà dedicata al “post vendita”, passando dalla logica della riparazione a quella della manutenzione preventiva, creando un network di installatori e manutentori garantiti. “Mantenere un macchinario in efficienza costa assai meno che provvedere a ripararlo” chiosa Bruno Gazzignato. Obbiettivo complessivo per il 2025 è incrementare del 13% il fatturato, oggi tornato a circa 15 milioni di euro dopo il rallentamento dovuto alle conseguenze del disastroso incendio del 2022 ed alle contingenze mondiali. “Da quell’esperienza – sottolinea Bruno Ferrarese - siamo usciti determinati a ricostruire l’azienda secondo criteri nuovi: dagli spazi di lavoro ai processi produttivi. I risultati ci stanno dando ragione.” Obbiettivo ancora più sfidante attende il 2025 dell’unità produttiva cinese Idrobase Ningbo: lì si punta ad incrementare il fatturato dell’80%, recuperando quote di mercato, perse a causa della crisi del mercato interno e della concorrenza a basso costo. “Il vento però sta cambiando ed i competitors locali si sono ridotti – conclude Ferrarese – Adeguando l’offerta alle aspettative di mercato, siamo convinti che la qualità sarà premiata.”
Grande soddisfazione alla Canottieri Mestre per l’attribuzione di due benemerenze durante la recente cerimonia svoltasi nel municipio di Cavarzere per la consegna dei riconoscimenti C.O.N.I. a dirigenti, tecnici ed atleti della provincia di Venezia. Ad essere premiati sono stati Alberto Vianello, insignito della Stella al Merito Sportivo come dirigente e Paolo Carraro, che ha ricevuto la Palma di Bronzo al merito tecnico come allenatore. Ogni anno il C.O.N.I., rappresentato a Cavarzere dal Presidente regionale, Dino Ponchio e dal Delegato per la provincia di Venezia, Massimo Zanotto, vuole così premiare personaggi, che si sono particolarmente distinti durante la propria carriera agonistica, dedicando tempo e passione allo sviluppo della pratica sportiva.
E’ a poca distanza dall’Italia, è una porta naturale verso l’Africa, gode di maestranze ben istruite, infrastrutture e costi del lavoro adeguati ad un piano di sviluppo d’area: così la veneta Idrobase Group ha individuato l’Algeria come “head quarter” per il proprio sviluppo nel Continente Nero, considerato uno degli obbiettivi principali del 2025. L’azienda, che ha sede a Borgoricco nel Padovano, è leader nei settori delle tecnologie per l’utilizzo dell’acqua in pressione e del “respirare aria sana”, riconosciuta portabandiera del “made in Italy” nel mondo. “Anticipando i nuovi scenari mondiali, stiamo lavorando da tempo per riposizionare le nostre strategie internazionali. Pur ribadendo e volendo consolidare la nostra presenza sui mercati della Cina e degli U.S.A., abbiamo deciso di investire nel settore del cleaning anche in Africa, continente dalle enormi potenzialità, aggiungendo così un tassello in linea con il Piano Mattei, indicato dal Governo” indica Bruno Ferrarese, Contitolare di Idrobase Group. Le peculiarità della vastità delle terre africane necessitano, però, di prodotti adatti alle esigenze dei singoli mercati. “Per questo – aggiunge Bruno Gazzignato, anch’egli Contitolare della “multinazionale” tascabile padovana - abbiamo deciso di spostare parte delle produzioni dall’unità produttiva cinese di Idrobase Ningbo all’Algeria dove, grazie a partnership con imprenditori locali, saranno assemblate con componenti in arrivo dall’Italia, dando vita a prodotti di buona qualità, ma con un prezzo adeguato al mercato africano.” Non solo Africa, però, nel futuro di Idrobase Group: all’indomani dell’annuncio sull’accordo strategico Italia-Arabia Saudita, l’azienda veneta rende, infatti, noto che il primo appuntamento fieristico 2025 sarà a Riyad.
Ridurre del 40% il tempo-lavoro per dedicarlo alla formazione ed essere pronti alle sfide dell’innovazione come l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale per lo sviluppo di prodotti innovativi: è questo uno dei visionari scopi della riorganizzazione aziendale della padovana Idrobase Group, diventata un “caso scuola” per la valorizzazione del capitale umano, proprio mentre il diritto al lavoro torna drammaticamente d’attualità anche in Europa; è la via nippo-veneta all’applicazione della metodologia Lean-Toyota, oggetto di un recente approfondimento della CUOA Business School, uno dei più qualificati centri formativi in “management” italiani. Il percorso di trasformazione aziendale è iniziato nel II° semestre dell’anno scorso e terminerà nel 2026, interessando tutti i comparti dell’ “headquarter” a Borgoricco (acquisti, produzione, magazzino, commerciale, marketing, amministrativo, finanziario). “Abbiamo due obbiettivi dichiarati per migliorare la nostra competitività sui mercati mondiali, condizionati in questo momento di crisi da prodotti a basso costo e qualità: abbattere del 15% i prezzi nei nostri listini, mantenendo caratteristiche e servizio made in Italy; contestualmente migliorare le performance di prodotto e di processo, valorizzando la professionalità della forza lavoro - evidenzia Bruno Ferrarese, contitolare dell’impresa - I risultati si stanno vedendo ad iniziare dai reparti, dove il metodo Lean è in fase di implementazione: acquisti, magazzino, produzione. Ciò ci ha già permesso di ridurre i prezzi della linea Spara Nebbia, liberando contestualmente energie da dedicare alla crescita professionale.” La trasformazione più evidente è l’abbandono della tradizionale linea produttiva, dove ripetitivamente ciascuno svolge una mansione, in favore invece dell’ “oasi produttiva”, dove le fasi lavorative sono interamente seguite dallo stesso addetto. Non solo: l’organizzazione di ogni reparto è “work in progress” attraverso costanti confronti interni per individuare criticità e proporre soluzioni. “Siamo un’azienda in costante cambiamento con l’ambizione di trasformare il mercato - chiosa l’altro contitolare del gruppo, Bruno Gazzignato - Da sempre riteniamo che un grande valore di Idrobase sia la capacità di fare squadra come dimostrato anche dall’immediata ripresa a seguito del grave incendio di due anni fa: dopo la realizzazione degli uffici dove si respira aria sana, ora stiamo valorizzando ogni apporto d’esperienza. Vogliamo osare quello, che gli altri non fanno, per contribuire a cambiare il mondo.”
"Siamo una società egoista in cui cani e gatti prendono il posto dei figli”: il paradigma dell’egoismo umano citato da Papa Francesco qualche tempo fa ha fatto molto riflettere i segusinesi, tanto da farli convergere all'unanimità nel dedicare l'edizione 2024 del Presepio artistico all'importante tema della denatalità, fenomeno che affligge in particolare l'Italia da qualche decennio a questa parte. Affermano gli Amici del Presepio, soci onorari Argav: "Papa Francesco punta l’indice sulla negazione della genitorialità, affermando che la società contemporanea sta vivendo un inverno demografico un po’ dettato dall’egoismo, ma anche un po’ dettato (aggiungiamo noi) da situazioni economiche incerte che potrebbero far preferire ai figli, gli amici a quattro zampe; rischiando però di condannare la nostra società a restare orfana del futuro. Papa Francesco ha ribadito questo messaggio in occasione dell’Epifania di due anni fa, un messaggio che potrebbe apparire un po’ ironico, ma che a noi, Amici del Presepio di Segusino, ha fatto riflettere e ci ha portato indietro nel tempo agli anni 20-40 del Novecento: gli anni della fame, ma anche gli anni dove le famiglie erano numerose e dove non mancavano i figli. Quei figli che poi hanno dato vita allo sviluppo economico e alla crescita che oggi tutti noi, comodamente, viviamo". Genitori si diventa Continuano gli Amici del Presepio: "L’accontentarsi delle cucce piene lasciando le culle vuote, nonostante Papa Bergoglio affermi che “non basta mettere al mondo un figlio per dire di esserne padri o madri”, ci dovrebbe portare a ragionare sia sul come si può essere genitori (e non necessariamente si può esserlo solo biologicamente, e qui infatti il Papa cita l’adozione) ma anche il “come” lo si è. Padri e madri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui: nell’etica religiosa, laica e nella responsabilità, dove il tutto si esplicita in un atto di puro amore unito all’insegnamento dei valori della persona nella società. Nel Presepio di Segusino, edizione Natale 2024 ci sarà questo forte confronto: l’oggi e il ieri, il nuovo e il vecchio, le nuove famiglie ricche di cani e gatti e le grandi famiglie di un tempo ricche di bambini. Le cucce piene, le culle vuote e le culle quando erano piene; il tutto vicino a quella che è la nascita più importante: quella di Gesù. Senza ovviamente il voler giudicare nessuno (non è sicuramente nostro compito farlo), ma solo ed esclusivamente con la volontà di voler aprire uno spunto di riflessione. Informazioni per la visita Il Presepio Artistico di Segusino (Treviso), allestito come di consueto nella ex casa del Cappellano, in viale Italia 270, sarà aperto tutti i pomeriggi dalla notte di Natale fino al 2 febbraio 2025, e i giorni festivi anche al mattino, gli orari completi e tutte le informazioni si possono trovare sul sito internet www.presepiosegusino.it sui canali social Presepio Segusino, oppure telefonando al 334.3797867. L’entrata è libera. Alla scoperta dei presepi e dei borghi di Segusino Ritorna a Segusino anche l'iniziativa “Alla scoperta dei presepi e dei Borghi di Segusino” con vari presepi allestiti nei borghi e una serie di eventi (dettagli nel sito sopracitato e nei canali social Presepio Segusino).
E’ il sandonatese Lorenzo Furlan, Dirigente di “Veneto Agricoltura” ma soprattutto scienziato ed entomologo di fama internazionale, il Premio A.R.G.A.V. 2024, indicato dal Consiglio Direttivo dell’Associazione Regionale Giornalisti Agroambientali di Veneto e Trentino Alto Adige fra le personalità che, con la loro attività, danno lustro alla regione. Il Premio sarà consegnato nel corso di una semplice cerimonia, che si terrà sabato 7 Dicembre prossimo, alle ore 12.00, nel salone del Ristorante Villa Contarini, a Monselice (Padova). Nell’occasione sarà anche attribuito un Premio speciale all’imprenditore vicentino, Remo Pedon, per i 40 anni dell’omonimo gruppo alimentare ed il suo impegno filantropico.
La stagione d’opera 2024-25 si inaugura alla Fenice con “Otello” di Verdi: diretto e concertato dal maestro sud-coreano Myung-Whun Chung, scelta sicura e vincente per diverse inaugurazioni del passato e sempre sottoscrivibile con convinzione, trattandosi, a mio modesto avviso, della bacchetta più emozionante e coinvolgente apparsa sui palcoscenici veneziani negli ultimi vent’anni insieme al compianto Jeffrey Tate; con Francesco Meli nel ruolo del titolo, un artista consapevole e tecnicamente ferratissimo la cui adeguatezza vocale per un ruolo così spinto rappresentava però per molti un punto interrogativo, considerato anche che non molti anni fa, sempre a Venezia, era un applaudito Conte d’Almaviva nel “Barbiere” rossiniano; e con la regia di Fabio Ceresa, il cui immaginario, per sua stessa ammissione, “si nutre di costumi grandiosi e maestose scenografie” e che, dopo averci divertito ed ammaliato in Vivaldi, era atteso alla prova con un mondo culturale affatto distante da quello barocco. I motivi di richiamo in questa prima della stagione, quindi, non mancavano e a cominciare dalla scelta stessa del titolo: un’opera imponente non per le dimensioni (non sono queste che fanno il capolavoro) ma per la carica drammatica che contiene e che sprigiona, creando un’atmosfera di tensione che a volte rimane sotto traccia, a volte esplode furiosamente, ma è sempre presente in maniera inquietante e dolorosa dal primo all’ultimo istante. Di questa tensione lancinante si è fatto interprete ideale il maestro Myung-Whun Chung, che ha trovato proprio nei passi più drammatici, se non addirittura tragici, l’estro più felice e la via di una comunicazione diretta e immediata con il pubblico: come nella travolgente, sconvolgente tempesta iniziale o, per portare un esempio opposto dal punto di vista dello scenario sonoro, la morte di Otello. Per il resto racconta da par suo, riuscendo persino a creare un’atmosfera colloquiale, quasi familiare, là dove, come nella scena Jago-Cassio del terzo atto, la tensione rimane latente. Ovazioni per il maestro a fine spettacolo, ben meritate non solo per la conduzione impeccabile della serata ma anche per quanto ha dato fino ad ora al teatro veneziano ed al suo pubblico in tanti indimenticabili spettacoli. Francesco Meli fa onore al principio che, quando si sa cantare, si può cantare tutto (o quasi). Il suo è un Otello vincente e convincente. La declamazione in zona centrale lo trova incisivo ed efficace e anche la salita all’acuto è sicura, salvo un paio di episodi alla fine marginali come nelle due puntature consecutive e di micidiale difficoltà che concludono il monologo del Secondo Atto “Ora e per sempre addio” sulle parole “Della gloria d’Otello è questo il fin” e il selvaggio “Gioia!!” (non per niente con due punti esclamativi nel libretto...) con cui Otello accoglie la notizia dell’arrivo di Cassio nel Terzo Atto. Risultano di alto livello artistico, per contro, il duetto d’amore del Primo Atto, soprattutto nella frase conclusiva “Già la pleiade ardente al mar discende...Vien...Venere splende”, la cui salita all’acuto in pianissimo è tecnicamente impervia mentre il nostro risolve alla grande; e la magistrale esecuzione del monologo del Terzo Atto, “Dio mi potevi scagliar tutti i mali”, nel quale Meli esprime tutta la stanchezza e la desolazione di Otello mentre guarda alla propria vita che sta piombando nel baratro dell’insignificanza. Dalla lettura che ne dà Meli, con uno strumento fondamentalmente lirico ma supportato da una impostazione impeccabile in cui il sostegno perfetto del fiato permette di dare piena risonanza e proiezione alle note, esce un Otello profondamente umano e quindi tanto più credibile. Certo, in alcuni momenti, come ad esempio nella scena della morte, la tragicità sconvolgente e, per così dire, cosmica, che echeggia in altre esecuzioni, è assente, e al suo posto si trova una sofferenza straziante, sì, ma personale, quasi borghese, non eroica. Ma si tratta di una lettura pienamente convincente, che non scende a patti con la partitura ma la interpreta entro i limiti e le possibilità (ampie, integrate anche dal bellissimo timbro) dello strumento. Lo Jago di Luca Micheletti è il più applaudito e in effetti non manca di nulla. Sa tutto quello che deve fare e lo fa proprio bene, in ogni momento, sostenuto da una voce salda ed omogenea in tutta la gamma, in grado di sfogare con sicurezza in acuto e capace di espressive (anche se non troppo frequenti) variazioni dinamiche. Eppure...Eppure, a causa forse di un’emissione un po’ ruvida, di un timbro che potrebbe essere più limpido, il personaggio risulta troppo sbilanciato verso il lato ‘vilain’, mentre sarebbe più completo se risultasse ancora più sottile, più insinuante, visto che lo stesso Verdi, nell’epistolario, raccomanda che sia raffigurato come una brava persona, affabile, rassicurante, affinché la sua perfidia risulti moltiplicata dall’ipocrisia con cui viene occultata. Ciò riesce molto bene all’artista nella presenza scenica, assolutamente disinvolta e convincente, meno nel canto. Il suo “Credo”, infatti, tanto per portare l’esempio più noto, suona giocato troppo sulla declamazione stentorea e troppo poco sulla sottigliezza degli accenti. La Desdemona del soprano sud-coreano Karah Son è difficilmente decifrabile. L’artista sa fare buon uso del proprio strumento, sa modulare, alleggerire e rinforzare, ma spesso sfoga in alto in modo brusco e con un vibrato fastidioso, mentre il suono dovrebbe aprirsi rotondo, dolce, seppure intenso. Se è vero che Desdemona è un angelo, come ci suggerisce anche il regista, va detto che un angelo, per quanto piagato da sofferenze terrene, non canta così, con un’emissione disomogenea e suoni spesso spigolosi, un timbro asprigno e centri talvolta come sordi, ovattati. Un angelo, insomma, deve trovare espressioni più morbide, più alate, più sublimi. Ed è un peccato, perché si capisce che le potenzialità non mancano. Così la canzone del Salce è ben modulata e altrettanto può dirsi dell’”Ave Maria”, eseguita con emissione raccolta e controllata. Ma la canzone si conclude con un brutto acuto finale filato sulla parola “amarlo”, né si può definire riuscito l’”Amen” con cui termina la preghiera. Il resto del cast è più che attendibile. Peccato solo che il Cassio di Francesco Marsiglia sia tanto fresco, luminoso, giovanile nel canto quanto impacciato sulla scena. Gli altri sono Enrico Casari (Roderigo), Francesco Milanese (Lodovico), William Corrò (Montano), Anna Malavasi (Emilia), l’artista del Coro Antonio Casagrande (Un araldo). E a proposito di Coro, diretto dal maestro Alfonso Caiani, non si può che lodarne senza riserve la prestazione, insieme ai sempre bravissimi Piccoli Cantori Veneziani preparati da Diana D’Alessio. Sul palcoscenico Fabio Ceresa torna a proporre, con esiti sempre felici, il proprio stile fantasioso ed immaginifico, coadiuvato da Massimo Checchetto (scene), Claudia Pernigotti (costumi), Fabio Barettin (luci), Sergio Metalli (video), Mattia Agatiello (movimenti coreografici). L’idea di base è quella di mettere in evidenza la venezianità della vicenda, che si svolge tutta all’ombra della Serenissima pur essendo geograficamente ambientata a Cipro, collocandola all’interno di un palazzo che si apre verso la platea con una trifora il cui stile e i cui decori richiamano quelli della Basilica di San Marco. La proposta dello stile bizantino, attraverso i mosaici, le dorature, le luci, non vuole ovviamente essere una riproduzione calligrafica di quel mondo, ma piuttosto, come spiega bene lo stesso regista che è il caso di citare, la traduzione del “concetto in immagine, perché l’immagine acquisti dignità di simbolo e si trasformi in uno strumento in grado di trasmettere significato e suscitare emozione”. I costumi, anch’essi dorati, contribuiscono alla ricreazione simbolica del gusto bizantino, evocando un’atmosfera ricca e luminosa che contrasta efficacemente con l’oscurità della tragedia che si consuma fra tanto splendore. All’interno di questa cornice i personaggi si muovono con accurata pertinenza rispetto alla situazione che vivono e a ciò che cantano. Desdemona, in particolare, è rappresentata in conformità ad un’iconografia mariana, accompagnata da creature angeliche e fatta agire sullo sfondo di cieli stellati, a sottolineare la sua natura di perfetta innocente all’interno di un mondo segnato dal peccato e dalla colpa. Un contributo non secondario all’efficacia del messaggio teatrale è dato dai bravissimi mimi, che rappresentano il Leone di San Marco, sempre presente accanto ad Otello quando costui è ancora padrone di sé stesso e del proprio ruolo, e l’Idra scura del male, che spinge le sue teste e le sue braccia verso Otello per soffocarlo secondo il diabolico disegno di Jago. Il leone, del resto, nell’opera di Verdi simboleggia sia la Serenissima sia lo stesso Otello; per cui, alla fine del terzo atto, quando Jago trafigge con la spada il mimo che rappresenta il Leone di San Marco, muoiono insieme Venezia e l’eroe che ne incarna la grandezza. Ma nel conflitto tra Leone e Idra, cioè fra bene e male, Ceresa sembra immaginare la vittoria di quest’ultima, con Jago che domina dall’alto, imperscrutabile e imperturbabile, l’agonia di Otello alla fine dell’opera. Un’osservazione conclusiva sulla scelta di presentare un Otello bianco, cioè non di colore. Ha ragione Ceresa quando la motiva col fatto che enfatizzare la componente razziale è riduttivo rispetto alla complessità dei sentimenti di Otello, che vanno oltre la questione del colore della pelle. Tuttavia questa opzione trascura un elemento importante della tragedia, che trae origine dal senso di inferiorità di Otello per la sua diversità etnica rispetto a quel mondo veneziano che pure l’ha accolto come un eroe e per la sua matura seriosità rispetto alla giovanile sfrontatezza di Cassio. Alla fine della serale di venerdì 29 novembre, il teatro gremito al massimo della capienza ha riservato agli artefici dello spettacolo un successo ai limiti dell’entusiasmo. Adolfo Andrighetti
E’ nato in Italia, grazie ad un’innovazione della padovana Idrobase Group, il nuovo “Fog box salute” per la nebulizzazione idrica, in grado di garantire non solo la massima salubrità dell’acqua attraverso filtri contro le impurità, nonchè la sterilizzazione anti virus, batteri e spore, ma anche, grazie ad un innovativo sistema, l’eliminazione delle condizioni per lo sviluppo della pericolosa legionella. La presentazione del nuovo macchinario è avvenuta al salone internazionale Ecomondo nell’ambito della Rete d’Impresa “Safebreath.net”, creata con la novarese Sibilia e la trevigiana Mion. La legionellosi viene normalmente acquisita per inalazione e per questo la pericolosità delle particelle d’acqua infettate è inversamente proporzionale alla loro dimensione: gocce piccole arrivano più facilmente alle basse vie respiratorie; la malattia ha una letalità fra il 5% ed il 10% dei casi. La prevenzione delle infezioni da legionella si basa essenzialmente sulla corretta progettazione e realizzazione degli impianti tecnologici, che comportano la nebulizzazione e/o il riscaldamento dell’acqua. “Per chi, come noi, è leader nelle tecnologie dell’acqua in pressione, la salubrità della risorsa idrica è un dogma ed il nuovo nemico si chiama legionella - afferma Bruno Ferrarese, contitolare della veneta Idrobase Group - Il ristagno d’acqua ne è veicolo di propagazione e per questo la nostra ricerca è impegnata ad abbatterne il rischio.” Finora solo quattro Stati (Francia, Spagna, Svizzera, Singapore) hanno normative stringenti in materia, ma all’Idrobase Group si guarda già al futuro nel rispetto del “claim” aziendale “Respira aria sana”. L’innovazione può trovare immediata applicazione in altre due novità presentate alla fiera riminese: i “fog makers” per l’abbattimento delle polveri in ambienti di lavoro “Elefante Silenzioso” che, a parità di prestazioni, riduce la rumorosità del 20% ed “Elefantino 2.0” che, più industrializzato rispetto alle versioni precedenti, “spara” aria con un incremento di potenza pari al 25%. “Possiamo dire – aggiunge Bruno Gazzignato, contitolare dell’azienda con sede a Borgoricco – che questi sono i primi risultati della riorganizzazione del processo produttivo interno, secondo la metodologia lean, passando dal concetto di linea di montaggio a quello di oasi produttiva, valorizzando la professionalità di ogni singolo addetto. L’effetto è un maggiore protagonismo dei lavoratori, che aumenta creatività ed efficienza produttiva, consentendo un abbattimento del 15% nei prezzi di listino, permettendoci maggiore competitività sui mercati della globalizzazione, pur mantenendo l’alta qualità del made in Italy.” L’apprezzamento del mercato è stato immediato, testimoniato anche dalla presenza alla fiera “Issa Clean Euarasia “ organizzata ad Istanbul in Turchia e che vede la presentazione dei nuovi kit Dolly per idropulitrici semiprofessionali.
“La vita è sogno”, il dramma seicentesco in versi di Pedro Calderόn de la Barca da cui è tratta l’omonima opera di Gian Francesco Malipiero, all’interno di un’ambientazione fiabesca ed arcana anticipa in qualche modo la ragione prima dell’angoscia esistenziale dell’uomo moderno: l’impossibilità, cioè, di trovare la consistenza della realtà e quindi di distinguerla dalla irrealtà, anche dal sogno, per cui la vita trascorre come all’interno di una bolla in cui dominano l’incertezza, la fluidità, lo smarrimento. L’opera di Malipiero, che ne scrisse anche il libretto, è fedele al dramma da cui è ricavata e ne ripropone l’assunto filosofico soprattutto nella figura del principe, il quale è incapace di capire se è realtà la torre in cui si trova rinchiuso oppure la reggia in cui si desta perché ricondottovi dal re suo padre, pentito di aver imprigionato il figlio solo perché infausti segni della natura confermati dagli oroscopi ne avevano accompagnato la nascita. Ma, di fronte alla reazione violenta del principe infuriato per una reclusione che non ha fine, il re lo avverte che forse è la stessa reggia ad essere un sogno, lo fa riaddormentare e lo riporta nella torre. Ma allora, che cos’è realtà? La prigione oppure la reggia? O forse entrambe si confondono come in una visione all’interno di una dimensione vaga, inconsistente, nella quale tutto e il contrario di tutto si sovrappongono e alla fine si annullano? Neppure l’amore, impersonato da Diana, riesce a restituire un ‘ubi consistam’ al povero principe, che si rivolge alla donna di cui è innamorato e ha compassione di lui dicendole di sentirsi ancora prigioniero del sogno. E anche quando la folla lo acclama e ne ottiene la liberazione, il suo stato di confusione rimane e lo fa sentire ancora prigioniero non più della torre ma di una dimensione di sogno che lo avviluppa. E anche se il lieto fine conclude la singolare vicenda attraverso la piena riconciliazione del principe con il re suo padre e di quest’ultimo con il figlio, rimane la sensazione inquietante di un’ambiguità di fondo che accomuna l’esperienza del principe a quella di ogni essere umano, che sarebbe incapace di vivere il reale come una presenza solida ed oggettiva, rispondente a principi fisici e morali certi ai quali potersi affidare. Così ci raccontano scrittori e poeti esistenzialisti quali Sartre ne “La nausea”, tanto per portare l’esempio forse più illustre ma certo più emblematico. L’eccellente nuova produzione in scena al Teatro Malibran rappresenta il giusto e doveroso omaggio che Venezia tributa ad un suo figlio illustre, Gian Francesco Malipiero, considerato uno dei più significativi compositori del secolo scorso, e, insieme, ad un suo lavoro ricco di musica e di dramma – e di musica perfettamente intonata al dramma – quale appunto “La vita è sogno”, che ritorna in laguna dopo un ingiustificato oblio durato ben ottant’anni da quella prima veneziana del 1944 che fece seguito alla prima assoluta all’Opernhaus di Breslavia del 30 giugno 1943. Come ogni tanto capita, infatti, si è realizzata questa volta una virtuosa ed equilibratissima sinergia fra i tre elementi costitutivi di una rappresentazione operistica: il prodotto della creatività del compositore, qui anche librettista, con la sua realizzazione teatrale e musicale, riuniti in un insieme organico dove le due componenti per così dire esecutive sembrano aiutarsi e sostenersi a vicenda nel cercare e alla fine trovare la chiave per aprire lo scrigno di note contenente la bellezza e il significato voluti dal compositore. Il tutto a beneficio del pubblico - destinatario ultimo e fondamentale di ogni proposta teatrale - al quale viene offerta una produzione che lo rispetta e lo coinvolge. Molto del merito di questa felicissima riuscita va a quello che spesso rappresenta l’anello debole o più discutibile della catena, cioè la regia. In questo caso Valentino Villa, coadiuvato al meglio da Massimo Checchetto per le scene, Elena Cicorella per i costumi, Fabio Barettin per le luci, Marco Angelilli per i movimenti coreografici, sceglie con lodevole umiltà, così rara fra i suoi colleghi, la strada di un’interpretazione semplice e pulita ma mai banale, che aiuta lo spettatore a entrare dentro un’opera ancora sconosciuta comprendendone al meglio le ragioni musicali, drammaturgiche e alla fine culturali. Lo spettacolo si avvale di una scenografia tanto essenziale quanto efficace ed evocativa, che si riduce a delle pareti incombenti, cupe e minacciose quando rappresentano la prigione in cui è rinchiuso il principe, soffuse di una luce dorata ma non per questo meno opprimenti quando la vicenda si trasferisce nella reggia. All’interno di questa cornice, in cui trova un’ambientazione perfettamente adeguata ed espressiva il pessimismo di cui è impregnata l’opera di Malipiero nonostante l’ambiguo lieto fine, si muove con assoluta pertinenza oltre che con ammirevole professionalità un cast di alto livello, aiutato nel compito dai bei costumi, che richiamano un seicento un po’ realistico e molto favolistico. Il vero protagonista è il principe straziato, sofferto, del tenore Leonardo Cortellazzi, che non trascura nulla di ciò che serve a definire l’indole inquieta ed inquietante del personaggio nel suo essere schiavo della confusione fra sogno e realtà di cui le catene che lo avvincono rappresentano un simbolo, offrendoci una caratterizzazione di assoluto rilievo. L’artista conferma per l’ennesima volta la sua preparazione e duttilità nell’affrontare, sempre con ottimi esiti, repertori e personaggi anche molto distanti. Qui, aiutato da una tessitura sostanzialmente centrale, brilla per l’intensità del declamato, che trova i momenti di maggiore verità umana ed artistica nell’alternanza frequente dell’invettiva violenta alle frasi sussurrate dolcemente in pianissimo, quasi in una sorta di mesta rassegnazione ad un destino troppo pesante per essere stornato. Gli altri gli fanno da contorno, seppure con ottima riuscita: la Diana veemente, appassionata, di Veronica Simeoni, che risolve in maniera più che apprezzabile, grazie ad un’emissione limpida e sicura e ad uno strumento omogeneo e sonoro, una parte dalla tessitura fin troppo acuta per un mezzosoprano; il solenne, ieratico e un po’ stordito re del basso Riccardo Zanellato, che mette a disposizione la propria imponente presenza scenica e la propria voce dal bel timbro scuro e dalla morbida emissione ad un personaggio in fondo pavido e superstizioso, nel quale le paure indotte da equivoci presagi hanno la meglio su uno dei più intensi fra i sentimenti umani, l’amore paterno; il Clotaldo, più cortigiano che carceriere, ben caratterizzato vocalmente e scenicamente dal baritono Simone Alberghini, il quale ci offre un personaggio che fa del principe la propria vittima perché anch’egli è a suo modo una vittima, della fedeltà assoluta dovuta al re e al sistema di cui è parte integrante. Più o meno adeguati, nei ruoli di contorno, Francesca Gerbasi (Estrella), Levent Bakirci (don Arias e uno della folla) e Enrico Di Geronimo (un servo di Diana e uno scudiero del re). Fondamentale il ruolo del coro, sia nell’intonazione precisa e suggestiva dei madrigali che impreziosiscono la vita raffinata della reggia, sia nell’imponente compattezza sonora con cui interpreta la folla che acclama il principe e lo vuole definitivamente libero e a capo del suo popolo; ben meritati gli applausi che lo salutano al termine dello spettacolo insieme al maestro Alfonso Caiani. Tutto questo è reso possibile dalla presenza sul podio del maestro Francesco Lanzillotta, che offre allo spettatore un’esperienza rara immergendolo nel mondo di Malipiero, costituito in quest’opera da un tessuto sonoro di raffinata elaborazione strumentale e insieme di straordinaria aderenza al nucleo drammatico della vicenda; in Britten è dato incontrare, lo scorso secolo, una tale corrispondenza fra musica e parola, per cui il suono si esalta nel suo mettersi al servizio del dramma e quest’ultimo si arricchisce di un valore emotivo altrimenti impossibile. La rappresentazione di giovedì 7 novembre è stata salutata da un successo vivo e cordiale. Adolfo Andrighetti

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Sarebbe semplicistico affermare che “Ernani” consiste solo della musica di Verdi: una musica incalzante, trascinante, a tratti travolgente, baciata dalla grazia di una vena melodica sovrabbondante per energia e creatività; perché questa musica è stata pensata e scritta dal suo autore, musicista dall’infallibile intuito teatrale, come un vestito confezionato su misura per il dramma di Victor Hugo adattato da Francesco Maria Piave. Verdi, si sa, componeva per il teatro ed ogni sua nota era studiata per dare vita al personaggio, alla situazione, alla singola parola. Per questo è essenziale cogliere i nuclei drammatici di questa tragedia, “Ernani”, che può apparire irrimediabilmente estranea alla sensibilità moderna, con quei logori e vieti punti d’onore che l’etichetta della nobiltà spagnolesca anteponeva ad ogni altro valore umano; e che trovano la loro assurda apoteosi nella conclusione dell’opera, quando l’eroe si suicida mentre sta entrando nel talamo nuziale per tenere fede ad un ridicolo giuramento pronunciato in precedenza. Quindi, dove cercare l’anima drammatica di questo vuoto armamentario fatto di senso dell’onore, rigide gerarchie nobiliari, e il blasone, e l’onta ecc. ecc.? Prima di tutto, in quel connubio fra sentimenti privati e conflitti politici qui solo abbozzato ma che porterà, una volta approfondito, agli esiti nobilissimi del “Simon Boccanegra” e del “Don Carlos”. E poi nell’amore senile, così egoista e insieme così umano, così patetico, di Silva nei confronti di Elvira. Egoista, certo, ma anche meritevole di comprensione, perché un vecchio, come scrive Hugo mirabilmente ripreso nell’aria “Infelice e tu credevi”, può anche trovarsi a vivere la faticosa e inconciliabile contraddizione di un cuore giovane, capace di emozionarsi ed intenerirsi, custodito dentro un corpo in decadimento. E soprattutto diamo un’occhiata al protagonista, non solo tipico eroe romantico proscritto, perseguitato ed infelice, deciso a combattere fino alla fine contro la sorte avversa in nome della libertà personale e dell’amore; ma anche contraddistinto, meno convenzionalmente, dalla difficoltà a conciliare nel proprio io due personalità distinte, quella del fuorilegge e quella del nobiluomo. Il “bandito Ernani”, infatti, dovrebbe irridere, nel nome della sua scelta di vita romanticamente ribelle, il giuramento che Silva gli impone di osservare richiamandosi all’autorità del codice d’onore spagnolo. Per contro, ritornato don Giovanni d’Aragona in seguito all’indulto generale concesso a tutti i congiurati da re Carlo divenuto imperatore, gli spetterebbe il lieto fine; invece muore alla Ernani, cioè con un suicidio di sapore romantico, pur in osservanza di quel decrepito codice d’onore che solo a don Giovanni poteva importare. Quasi una doppia identità, insomma, da cui deriva un dramma interiore che rimanda ad un altro, umanamente ed artisticamente ben più intenso: quello vissuto da un altro personaggio di Hugo e Verdi dalla personalità dimidiata: Rigoletto. E di un tentativo di interpretazione psicologica di “Ernani” e soprattutto del suo protagonista si può parlare a proposito del nuovo allestimento presentato dalla Fenice in coproduzione con Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia (regia di Andrea Bernard, scene di Alberto Beltrame, costumi di Elena Beccaro, disegno luci di Marco Alba). Lo dimostra soprattutto il bel filmato iniziale in bianco e nero, che, durante l’ouverture, ci presenta un Ernani ragazzino attonito e rabbioso di fronte alla distruzione del castello di famiglia ed al seppellimento delle spoglie paterne. È chiaro che Ernani vivrà tutte le vicende successive raccontate nel corso dell’opera - a cominciare dall’amore per Elvira e dal desiderio di vendetta nei confronti del re - attraverso la lente deformante di quella terribile esperienza infantile, che tornerà a visitarlo in alcuni momenti topici sotto le apparenze di un guerriero medioevale coperto di ferro e dalle grandi ali bianche: è l’immagine del padre, col quale si ricongiungerà al momento della morte. Si intona a questa visione dell’opera l’impianto scenico, che presenta delle strutture architettoniche d’epoca in forma fortemente stilizzata secondo un modo che si potrebbe definire futurista oppure propone un palcoscenico nudo e buio. La pur apprezzabile intuizione registica di partenza non trova, però, uno sviluppo adeguato, dal momento che lo spettacolo tende a svolgersi in palcoscenico secondo modalità prevedibili e tutto sommato convenzionali, per cui, per esempio, questo Ernani si muove come qualunque altro Ernani della tradizione, senza che il suo trauma infantile abbia modo di manifestarsi in maniera visibile. Corrispondono ad una concezione tradizionale anche i funzionali costumi d’epoca: belli in particolare quelli di Silva, francamente brutti quelli vestiti dal coro durante la festa nuziale dell’ultimo atto così come le coreografie, del tutto estranee al contesto. Ma il problema vero è che lo spettacolo rappresentato alla Fenice, nel suo insieme di scena, musica e canto, sembra accusare un clima generale di scarsa attenzione nei confronti del contesto poetico e culturale rappresentato da “Ernani”, ove gli ideali assoluti e sublimi del romanticismo vengono declinati in chiave araldica, mentre sul palcoscenico sono talvolta proposti con un’ insufficiente sensibilità culturale e stilistica, che porta - non sempre ma più di qualche volta – ad esiti che appaiono fuori gusto. Così il maestro Riccardo Frizza conduce spesso l’orchestra verso un eccesso di platealità, abbandonandosi a sonorità fin troppo intense ed enfatizzando il versante risorgimentale, barricadiero dell’opera, a discapito di quello blasonato e dei momenti più lirici. Altrettanto si deve dire del coro diretto dal maestro Alfonso Caiani, che esegue bene “Si ridesti il Leon di Castiglia” mostrando compattezza ed un impatto sonoro adeguato, ma in altri momenti dà l’impressione di esprimersi in maniera un po’ brada e vociante. La regia, poi, spesso spinge i solisti ad atteggiamenti che non si confanno al loro rango: Elvira gesticola troppo e, complici anche la bella chioma nera, l’appariscente abito scarlatto e una spontanea sovrabbondanza di sensualità, fa venire in mente Carmen, senza contare che non appartiene al personaggio sguainare un pugnale in faccia al re; un gesto accettabile come frutto della disperazione solo nel finale nei confronti di Silva. E anche il re talvolta si dimentica di essere tale, mostrando un incedere non sempre elegante e consono al rango, mettendo le mani addosso ad un bandito, cioè Ernani, e sbattendo le sedie per terra. Anche il canto si dimostra in alcuni casi stilisticamente poco a fuoco. Il Don Carlo del baritono Ernesto Petti ha volume, timbro adeguato, omogeneità di suono, ma se queste doti lo sostengono nella declamazione, non sono sufficienti a rendere con attendibilità l’involo melodico dei pezzi lirici, ove si richiederebbero un’emissione più morbida e carezzevole, una modulazione più sciolta e spontanea. In generale, va tenuto presente che il re è giovanissimo, quindi è bene si presenti impetuoso, irruento, ma rimane sempre il re: la Spagna del XVI secolo non è il luogo adatto per confondere e superare le gerarchie. L’Elvira del soprano Anastasia Bartoli, poi, possiede uno strumento dovizioso soprattutto nella zona medio-acuta e di bel colore, ma di non facile gestione o almeno di gestione non ancora pienamente risolta. L’emissione sembra alla ricerca di una sua scioltezza e fluidità, con la conseguenza che il canto indugia sempre attorno al forte e le variazioni dinamiche scarseggiano. Altro ragionamento si deve fare per l’Ernani del tenore Piero Pretti, che porge e fraseggia con un’eleganza che ben si confà al personaggio, ma che talvolta sembra arrampicarsi su una parte troppo onerosa, che spinge a forzare – ed è un peccato - uno strumento prezioso per la fragranza tenorile del timbro e dell’involo. E un altro ragionamento ancora vale per il superbo Silva del basso Michele Pertusi, dal quale tutti dovrebbero andare a scuola di canto e di portamento per la presenza nobile ed austera e per l’emissione sempre morbida, rotonda, mai forzata, in grado di assecondare senza sforzo apparente le intenzioni dell’interprete. Solo due esempi: Un “Infelice! ...e tu credevi” da manuale non solo per la pienezza pastosa del suono ma anche per il raccolto eppure intenso senso di commozione; i “Morrà” pronunciati nel finale, appena appoggiati, eppure pieni e sonori fino all’ultima fila della platea. Sì, quando il suono è ben impostato, ci si può far sentire senza gridare. “Ernani” comunque è opera strappa applausi e tale si è confermata alla Fenice la sera di mercoledì 22 marzo, in una sala piacevolmente e festosamente gremita. Adolfo Andrighetti

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