Fenice: una “Lucia” oppressa da nubi tempestose
Certo è che la Lucia, come la chiamano i melomani, è opera pressoché perfetta, per l’equilibrio esistente fra le sue diverse componenti. Si pensi al mirabile alternarsi degli splendidi recitativi, ricchi di nobiltà, di espressione, di sentimento, con i pezzi chiusi, in cui non si sa se apprezzare di più la felicissima vena melodica, capace di rappresentare con toccante immediatezza situazioni ed emozioni, o la perfezione formale di brani come il sestetto “Chi mi frena in tal momento”. Ma si pensi anche alla fluidità, priva di qualunque forzatura, con cui la vena elegiaca, tenera, femminea nel dolce abbandono dell’espressione, si alterna ai toni ed ai colori corruschi, violenti, foscamente tragici.
Insomma, un capolavoro, che alla Fenice, però, non ha avuto una realizzazione soddisfacente, soprattutto a causa della messa in scena monotona e monocroma voluta dallo scozzese John Doyle (regia), coadiuvato da Liz Ascroft per scene e costumi e da Jane Cox per le luci, in una coproduzione del teatro veneziano con l’Opera di Houston e l’Opera Australia. La scelta di una rappresentazione completamente astratta e priva di riferimenti fisici in scena, dominata da cieli gonfi di nuvoloni neri a simboleggiare il fato di morte che grava sui due amanti, non paga dal punto di vista teatrale e sembra raggelare una vicenda già di per sé poco o punto animata da una regia anonima. Il risultato è uno spettacolo che, nonostante i bei costumi ottocenteschi di tradizione, non possiede il fascino e il profumo del romanticismo, né riesce ad aprirsi in maniera convincente verso una universalità astratta ed atemporale.
Migliore, ma senza entusiasmi particolari, il versante musicale. Il giovane maestro messinese Antonino Fogliani reintroduce molti tagli di tradizione a cominciare dalla Scena della torre, di buon valore musicale e indispensabile per un coerente svolgimento del dramma. Inoltre ripropone, opportunamente variati, i “da capo” nelle cabalette. La sua è un’interpretazione concisa, serrata, molto espressiva nei passaggi esclusivamente strumentali e nel complesso assai efficace, ricca di quella teatralità e vivacità che lo spettacolo non possiede. Purtroppo questa scelta sacrifica la cantabilità preziosa ed incantata di alcuni motivi (un esempio fra tutti il duetto “Verranno a te sull’aure”), che si sarebbe giovata di un respiro più ampio e disteso.
Nel cast spicca il giovane soprano australiano Jessica Pratt, che si avvia a diventare una Lucia di riferimento nell’attuale panorama operistico. Deve soltanto approfondire ancora lo spessore drammatico di un personaggio assai impegnativo non solo vocalmente ma anche emotivamente, per quella sofferenza interiore, così pudicamente trattenuta ma così dilaniante nell’intimo, che può essere espressa adeguatamente solo grazie ad un’acquisita maturità umana ed artistica. Ma Jessica è già ben avviata in questa direzione e sostiene il ruolo con una linea di canto stilisticamente impeccabile ed una tecnica sicura. Non per niente il suo profilo professionale, nel programma di sala, ci dice che è allieva di un’artista di classe sopraffina come Lella Cuberli, ben nota anche al pubblico veneziano. Le sono concesse troppe puntature, però, che non sempre esplodono con naturalezza dal tessuto musicale, al quale, invece, sembrano talvolta artificiosamente appiccicate.
Il suo Edgardo è il tenore georgiano Shalva Mukeria, che colpisce, come già nel precedente “Rigoletto”, per il timbro dolce, quasi angelicato, per l’emissione morbida ed una seconda ottava sicura e luminosa. Ma l’artista sembra, almeno per il momento, impari al ruolo, che, nella sua interpretazione, risulta alquanto zuccheroso, secondo lo stile dei tenori di grazia fra le due guerre, e in qualche passaggio fa pensare ad un Nemorino smarritosi fra le brume scozzesi. Viene evidenziato, così, solo un versante del tenore romantico preverdiano, cioè quello amoroso e soave, dalle espressioni sublimi e quasi disincarnate, alle quali ben si addicono sonorità flautate e delicate come vetro di Murano. E’ carente, invece, l’altro aspetto, quello epicheggiante, ove l’eroe senza macchia e senza paura sfida a fronte alta il destino avverso; qui si richiederebbero accenti più incisivi, un fraseggio più ardente, una scansione più trascinante.
Il baritono Claudio Sgura ha tutto per essere un ottimo Enrico Asthon: l’autorevolezza scenica e vocale; uno strumento importante per omogeneità, rotondità, proiezione. Un’interpretazione che potenzialmente potrebbe essere di alto livello, però, si ridimensiona causa un’emissione un po’ impastata e, soprattutto, una certa genericità e quindi uniformità di colori e di accenti.
Il basso riminese Mirco Palazzi porta in dote a Raimondo Bidebent la sua ben nota educazione musicale e vocale. Averne che cantano con questa pulizia e correttezza, anche se la voce non è di quelle che fanno tintinnare i lampadari.
Adeguato l’Arturo di Leonardo Cortellazzi, meno il Normanno di Luca Casalin, cui il regista conferisce un insolito risalto teatrale facendolo spesso vagare assorto per il palcoscenico, quasi tetro motore della vicenda dopo che l’ha innescata in tutte le sue tragiche conseguenze con lo svelamento ad Enrico dell’amore fra Lucia e Edgardo. Apprezzabile, per l’incisiva presenza scenica e vocale, l’Alisa di Julie Mellor, così come l’ottimo Coro del Teatro istruito da Claudio Marino Moretti.
Alla domenicale, caldo successo per tutti con alcuni isolati dissensi per Fogliani.
Adolfo Andrighetti
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