Oro del Reno in forma di concerto, ma che concerto!
Si sa, l’“Anello del Nibelungo” dovrebbe essere eseguito integralmente nel corso della stessa stagione, in maniera da mettere in risalto la compattezza musicale e drammaturgica dell’immenso e geniale monumento sonoro. Alla Fenice ci si riuscì nell’annata 1967/68. Nel nostro caso, invece, l’esecuzione della Tetralogia wagneriana ha coperto un arco di cinque anni, dal 2006 al 2011. Inoltre, chiudere con il prologo è manifestamente un’anomalia. Ma pazienza: mettere in scena la Tetralogia è impresa ardua sul piano organizzativo e finanziario e quindi, soprattutto di questi tempi, bisogna essere accomodanti. Inoltre, non dimentichiamoci che l’Anello portato alla Fenice è stato veramente bello, emozionante ed entusiasmante, confermando la caratura di Carsen quale regista di primo livello nell’attuale panorama mondiale e proponendo Tate come uno dei più autorevoli interpreti wagneriani di oggi.
Purtroppo a Carsen non è stata data la possibilità di presentare sul palcoscenico veneziano il suo “Oro del Reno”, che, secondo i critici che hanno potuto assistere allo spettacolo all’Opera di Colonia, è la pietra angolare dell’intero ciclo. La proposta wagneriana della Fenice, portata avanti certamente con molta fatica e altrettanto sacrificio ma anche con eccellenti riscontri, quindi, rimane culturalmente monca, lasciando incompleta una narrazione di grande compattezza concettuale e, ciò che più conta, di forte impatto drammatico. Ci si chiede, quindi, se non era possibile rinviare ancora l’esecuzione dell’opera o rinunciare a qualche altro spettacolo in cartellone piuttosto che chiudere in maniera così deludente un ciclo che ha lasciato ricordi intensi in chi ha potuto assistervi.
Carsen, si ricorderà, compie una scelta non particolarmente accattivante né originale, ambientando l’Anello in una realtà moderna truce, cupa e militaresca, ove le forze in campo si scontrano nella ricerca esasperata del potere all’interno di un mondo devastato dalla violenza e dall’inquinamento. Ma se questa attualizzazione dei miti wagneriani può apparire forzata, la mano dell’uomo di teatro è felicissima e il lavoro sui personaggi dà vita a dei ritratti umani di singolare sincerità ed efficacia. Niente più mito, dunque, ma un’umanità ora sofferente ed ora malvagia, comunque votata alla sconfitta ed interpretata sul palcoscenico con palpitante verità.
Jeffrey Tate, dal canto suo, ha saputo sempre unire capacità di analisi e gusto narrativo, “spiegando” le imponenti partiture con lucidità ammirevole ma, nello stesso tempo, animandole, vivificandole, e trovando così un miracoloso punto d’incontro fra la chiarezza di Febo, che da sola potrebbe risultare raggelante, e l’estro comunicativo di Dioniso, esposto di per sé al rischio dell’emotività superficiale.
Comunque, nonostante la triste conclusione dell’“Anello” firmato Tate – Carsen, l’esecuzione de ”L’Oro del Reno” alla Fenice è andata al di là delle più ottimistiche aspettative. Non c’è dubbio, infatti, che Wagner, con il suo sinfonismo e la sua drammaturgia statica e quasi rituale, si presta più di molti altri autori alle rappresentazioni in forma di concerto, che esaltano il fattore musicale come valore assoluto. Inoltre, l’esecuzione della Fenice, appena vivacizzata da pochi ma appropriati gesti scenici dei cantanti, si è avvalsa dell’eccellente, attento, autorevole lavoro di direzione e concertazione del maestro bavarese Lothar Zagrosek, che, con la collaborazione di un’orchestra in gran forma e concentratissima, colma il teatro di un suono sempre sostenuto e brillante, sorprendente per nitore, al cui interno i leitmotiv sono enucleati con particolare evidenza. Il non foltissimo pubblico presente si è lasciato subito sedurre da questa musica di straordinaria forza evocativa e ha decretato agli interpreti un successo caldissimo.
Anche il cast è apparso affiatato, omogeneo e di ottimo livello. Il Wotan del basso-baritono USA Greer Grimsley è autorevole, sicuro, ben caratterizzato vocalmente, anche se l’artista, interprete molto apprezzato dello stesso personaggio nelle precedenti giornate del “Ring” messe in scena alla Fenice, sembra aver accentuato la tendenza a vociferare e il suo timbro suona talvolta un po’ secco.
Una verve da autentico mattatore viene sfoderata dal baritono USA Richard Paul Fink, un Alberich di notevole intensità drammatica certo sul piano vocale ma più ancora su quello scenico, che l’artista, nonostante la rappresentazione in forma di concerto, ha saputo arricchire con una gestualità molto espressiva eppure mai sopra le righe e sempre adeguata alla situazione teatrale.
Meno mi ha convinto il Loge “belcantista”, com’è stato definito con compiacimento, del tenore Marlin Miller, anch’egli statunitense. Spiace dirlo, dopo le eccellenti prove dell’artista alla Fenice non solo in “Death in Venice” di Britten ma anche come don Ottavio nel “Don Giovanni” mozartiano, a prova di una duttilità che trova fondamento nell’impeccabile preparazione. Se, infatti, l’educazione musicale e vocale del tenore è fuori discussione, solo di rado il suo delicato strumento riesce a conferire al declamato wagneriano il peso e l’incisività necessari.
Molto ben equilibrata la coppia di bassi che interpreta i giganti Fafner e Fasolt, in quanto i due artisti, entrambi di ottimo livello, dispongono di strumenti che permettono loro di onorare con fedeltà la caratterizzazione vocale, psicologica e drammatica dei personaggi voluta da Wagner: più morbida ed acuta la vocalità del basso-baritono di origine israeliana Gidon Saks, Fasolt, adatta ad un personaggio quasi tenero, che rimpiange la dolcezza di Freia, la dea dell’eterna giovinezza, cui è costretto a rinunciare suo malgrado; più ruvida e cupa quella del basso coreano Attila Jun, Fafner, sprezzante dell’amore e voglioso solo dell’oro, già nell’intimo un drago malvagio prima di diventarlo per incantesimo, al punto da uccidere il fratello per poter tenere tutto per sé tesoro ed anello magico.
Eccellente, nel suo breve intervento, il tenore austriaco Kurt Azesberger, che offre di Mime una caratterizzazione gustosa e puntuale, oltre che vocalmente incisiva.
Esibisce accenti da autentico heldentenor il Froh del ceco Ladislav Elgr, mentre il corretto baritono tedesco Stephan Genz non riesce a conferire adeguato risalto alla finale chiamata a raccolta delle nubi da parte di Donner per sgomberare il cielo e lasciar posto all’arcobaleno che condurrà gli dei alla loro nuova dimora, il Walhalla.
Ne “l’Oro del Reno” la componente femminile ha un ruolo secondario rispetto a quella maschile. Tutte molto brave, comunque, le interpreti ascoltate alla Fenice: la Erda dalla ampia e severa vocalità contraltile della gallese Ceri Willimas; la Fricka del soprano viennese Natascha Petrinsky, impeccabile nella sua apprensione così borghese e così poco divina per la fedeltà dello sposo Wotan e la sorte della sorella Freia; l’affiatatissimo e puntuale trio delle Figlie del Reno: Eva Oltivanyi, soprano zurighese, Stefanie Iranyi e Annette Jahns, entrambe tedesche e mezzosoprani; infine, la Freia di lusso per bellezza e pienezza del timbro, oltre che per l’ottima proiezione del suono, del soprano tedesco ma toscano d’adozione Nicola Beller Carbone.
Adolfo Andrighetti