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Asterisco Informazioni di Fabrizio Stelluto

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“La Didone” di Cavalli: seduzioni barocche al Malibran

19/09/2006
Chissà se i numerosi spettatori che hanno sfidato le inondazioni di domenica scorsa per assistere alla “Didone” di Francesco Cavalli in programma al Teatro Malibran sapevano ciò che li aspettava. Chissà quanti erano consapevoli di incontrare un lavoro che, risalendo al 1641, quando fu rappresentato per la prima volta al teatro San Cassiano di Venezia, e quindi a distanza di quarant’anni dalla nascita del melodramma in casa dei conti Bardi a Firenze, è ancora nobilmente legato al “recitar cantando” ed esalta la parola più che la musica in quanto tale. Eppure, pur trovandosi di fronte ad una proposta esigente sotto il profilo culturale, il pubblico della domenica, che si vuole abitudinario e intellettualmente quieto, non ha mosso un muscolo né sollevato un sopracciglio durante le tre ore di “recitazione intonata”, tanto è durata la Didone senza gli intervalli. Tutti, invece, comprese le signore mature dall’acconciatura fresca di parrucchiere, hanno delibato senza segni di stanchezza il nobile fraseggiare degli interpreti sul palcoscenico, sostenuti dal basso continuo dell’eccellente complesso ”Europa Galante”, diretto dal bravissimo Fabio Biondi, che ha curato anche la revisione della partitura. Una conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che i pregiudizi sono sempre sbagliati, in particolare quelli che riguardano il melodramma ed il suo pubblico, che si vorrebbe attratto solo dal repertorio più vieto. Ma, prima ancora, una conferma della bellezza fascinosa di questa proposta inserita nella stagione lirica 2005/2006 della Fenice e che ci riporta agli albori del melodramma, facendoci assaporare una civiltà culturale unica e irripetibile, ove teatro e musica si erano appena incontrati e cercavano e sperimentavano le modalità più adatte per fondersi in una nuova forma d’arte.

La parola, nella “Didone”, rimane ancora sovrana, grazie allo splendido libretto di Gian Francesco Busenello, molto ricco ed articolato sul piano letterario, oltre che capace di dare anima e vita ad una vicenda ove il dramma si mescola con sapienza e anche con una certa spregiudicatezza alla commedia. Se, infatti, le tinte tragiche caratterizzano soprattutto il primo atto, ambientato a Troia ormai preda degli Achei e, in generale, il personaggio della protagonista, un’autentica regina da tragedia greca, i toni si alleggeriscono appena possibile attraverso concessioni al gusto popolaresco o addirittura alla farsa (si pensi alla pazzia di Iarba, lo spasimante di Didone), non disgiunte da qualche licenza erotica. Questa natura variegata, si potrebbe dire anche variopinta, del dramma di Busenello, giocato su registri così diversi, rende meno forzato di quanto si potrebbe immaginare il finale lieto, con la pur altera Didone che, dopo aver vagheggiato il suicidio per l’abbandono di Enea chiamato in Italia a realizzare i destini di Roma, si consola, seppure senza particolare entusiasmo, con Iarba, suo antico spasimante.

La musica di Francesco Cavalli si mette al servizio di un’opera letteraria così accuratamente bulinata, esaltando la parola scenica in tutta la sua forza espressiva, drammatica o comica che sia. La recitazione intonata, infatti, che, sostenuta dall’accompagnamento discreto e mai ridondante del basso continuo, rappresenta il tessuto connettivo della partitura, sa porgere con efficacia ed incisività ogni verso di Busenello, mediatrice sublime fra l’opera letteraria e gli spettatori. Di tanto in tanto, la scansione semplice e raffinata insieme del recitativo si apre verso orizzonti più cantabili, accennando quasi a degli ariosi (quelli che diventeranno le vere e proprie arie con da capo nel melodramma del settecento). Ma presto lo spunto melodico viene castigato e ritorna, quasi timoroso di uno slancio inopportuno, nell’alveo del recitar cantando. Maggiore coraggio dimostrava nel 1607 Monteverdi con il suo Orfeo, in cui si abbandona alla seduzione della melodia con una fiducia ed un senso del canto che il pur raffinato Cavalli, nel 1641, conosce solo a tratti, come nel coro dei cacciatori del III atto. Così, ne “La Didone”, la parola non sente ancora la concorrenza della musica, da cui è accompagnata in maniera sempre discreta e carezzevole. Anzi, in momenti di particolare enfasi drammatica gli interpreti abbandonano addirittura l’intonazione per alcuni brevi incisi di vero e proprio parlato.

Interpreti tutti molto bravi, va detto subito, pienamente consapevoli delle ragioni culturali dell’impresa artistica cui si stanno dedicando, musicalmente preparati, pronti a caricare del giusto significato la parola scenica nonostante la nazionalità straniera di molti. All’interno del vasto cast, che non raggiunge dimensioni elefantiache solo perché molti artisti interpretano più ruoli, è necessario ricordare almeno la Didone di colore del soprano statunitense Claron McFadden, che si impone anche vocalmente come l’eroina tragica della vicenda; l’Enea aitante anche fisicamente del tenore (o baritenore?) norvegese Magnus Staveland; lo Iarba un po’ flebile ma musicalmente impeccabile del controtenore spagnolo Jordi Domenech; la Cassandra appassionata del mezzosoprano Manuela Custer (anche Giunone e Damigella); l’accorata Creusa del soprano Donatella Lombardi, che è anche un’ottima Anna ed una damigella; l’intensa Ecuba del mezzosoprano Marina De Liso (anche Mercurio e Ilioneo); la Venere sensuale e dal timbro dolcissimo del soprano Maria Grazia Schiavo (anche Iride e una damigella); l’appropriato Ascanio del soprano Isabel Alvarez (anche Amore e Fortuna), l’impeccabile Sinone, un cameo riuscitissimo, dell’ottimo Filippo Morace, che è anche Un vecchio. Ma pienamente adeguati, come già si accennava, anche gli altri: Antonio Lozano, Gian-Luca Zoccatelli, Roberto Abbondanza.

Tutti si sono esibiti con encomiabile professionalità sotto la guida di Fabio Biondi, musicista da ammirare per la cultura e la dedizione con cui si impegna in questo repertorio e che vorremmo potere ancora applaudire a Venezia insieme alla sua orchestra “Europa Galante”, anch’essa da apprezzare per l’affiatamento e per l’amore che dimostra verso la musica barocca.

Lo spettacolo, proseguendo l’encomiabile e positiva esperienza già avviata con l’Attila di Verdi nel 2004, è dovuto alla facoltà di Design e Arti dello IUAV di Venezia, con il coordinamento di Carlo Majer. L’impostazione prescelta è affatto distante dalla ridondante e macchinosa estetica barocca, tutta proiettata a suscitare lo stupore degli spettatori con quelli che oggi chiameremmo “effetti speciali”. La cifra dell’allestimento, invece, è quella opposta dell’essenzialità, quasi a non voler distrarre il pubblico dall’attenzione che deve essere dedicata alla parola cantata (o, per meglio dire, intonata). L’impianto scenico, quindi, è costituito soltanto da un piano leggermente inclinato, su cui agiscono gli interpreti, circondato da semplici pareti nude a limitare lo spazio. All’interno di questa struttura di linearità geometrica, la regia accompagna gli interpreti con mano felice, trovando un giusto equilibrio fra invadenza ed anonimato e non disdegnando qualche lieve tocco di ironia. Le luci fanno bene la propria parte, contribuendo in maniera determinante alla evocazione di quelle atmosfere che la scenografia, per la sua essenzialità, non è in grado di suggerire. Molto indovinati, infine, i costumi, in cui si mescolano con gusto ed eleganza fogge e stili diversi, a dimostrazione che la scelta della contaminazione è rischiosa e scivolosa (come conferma il recente “Lucio Silla”) ma non impossibile da realizzare con successo.



Adolfo Andrighetti

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