... una vita come Steve McQueen
30/08/2011
Il riferimento alla spericolatezza è quasi d’obbligo se si considerano la versatilità artistica del regista inglese Steve McQueen e la sua ricerca esagerata nel campo della sperimentazione dell’arte visuale. Già fotografo e scultore, è soprattutto noto per i suoi video, da quelli mediamente minimalisti, muti ed in bianco e nero (di cui il più noto è “Bear” del 1993 dove lui stesso scambia con un altro uomo sguardi che lo spettatore non sa definire se erotici o minacciosi) a “Drumroll” del 1998 con cui inizia ad utilizzare l’audio montando tre telecamere su di un bidone di petrolio che rotola per le strade di Manhattan. Nel 1999 vince il Turner Price con un omaggio alla gag di Buster Keaton in “Steamboat Bill Jr”. Nel video “Deadpan” l’artista in persona se ne sta impassibile, protetto unicamente dal riquadro di una finestra, mentre un edificio crolla più e più volte intorno a lui. Nel 2003 va in Irak come artista ufficiale britannico e l’anno seguente presenta “Queen and Country”, dove propone su francobolli i ritratti dei soldati inglesi caduti in guerra. Una serie che il Governo Inglese non ha ancora deciso di emettere. Nel 2009 rappresenta la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia. Ma è il 2008 che lo vede vincitore alla Camera d’Or a Cannes, col suo lungometraggio d’esordio “Hunger” sulla morte di Bobby Sands che guidava la rivolta dei prigionieri politici dell’Irlanda del Nord nel 1981, il quale fece del proprio corpo uno strumento di rivendicazione politica. In “Hunger” , considerato da alcuni come “un’esperienza sensoriale profondamente sconvolgente” , McQueen si spinge ad audaci scelte stilistiche (la più eclatante delle quali è l’esasperazione del dimagrimento reale di Michael Fassbender che interpreta Sands), come ad esempio i 17 minuti e mezzo in cui riprende la conversazione in presa diretta tra il sacerdote e Bobby. Per girare questa scena McQueen trasferì la troupe a casa del protagonista ripetendola fino a 15 volte al giorno. Anche la scelta della co-sceneggiatrice, la drammaturga Enda Walsh, è fatta per poter interagire con lei, allenata al teatro, anche durante le riprese. Soprattutto il suo uso della macchina da presa alterna linguaggi diversi con immagini drammatiche prescindendo da qualsiasi giudizio politico. Chi ha amato “Hunger” amerà “Shame” a Venezia in Concorso poiché le due sceneggiature non si discostano molto in termini stilistici. “Shame” racconta laconicamente la storia di Brandon, interpretato sempre da Michael Fassbender, che vive a New York ed ha seri problemi nel controllo delle proprie pulsioni sessuali. Tutto il suo tempo trascorre tra la frequentazione di prostitute, locali porno e masturbazioni, e quando non lo fa materialmente, ci pensa: una sorta di prigioniero della lussuria. Ha un lavoro ma del tutto marginale rispetto al suo impegno primario. Quasi tutto il film descrive minuziosamente la sua vita, casa, lavoro, il club, e poi a casa di nuovo (il tutto frammentato al sesso) soprattutto con angolazioni e sottolineature insistenti su oggetti, persone, frasi che possono sembrare non essenziali. Mentre il film continua con l’arrivo apparentemente poco significativo di una sorella minore, lo spettatore comincia ad aspettarsi (quasi ad esigere) un giro di vite dato che il regista ci dà pochi buoni motivi per trovare interessante il personaggio. Le sue azioni sono ripetitive, anche autodistruttive e poiché Brandon parla poco (nell’universo filmico di McQueen, fervido assertore del metodo Film School 101 del mostrare e non dire, le immagini quasi esclusivamente rivelano la storia), lo spettatore dovrà scoprire quale sia la ragione d’essere del protagonista, basandosi su cosa fa e come lo fa. Lasciandosi guidare dal quieto minimalismo del regista fino alla risoluzione perturbante che arriva verso la fine, quando ormai la malinconia che dall’inizio pervade il film l’ha irrimediabilmente contagiato.
Mariateresa Crisigiovanni
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