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Divertimento puro alla Fenice col Barbiere di Siviglia

19/09/2011
Divertimento puro alla Fenice col Barbiere di SivigliaLa commedia “Il barbiere di Siviglia” di Beaumarchais, da cui fu tratta l'opera omonima di Gioacchino Rossini su libretto di Cesare Sterbini, è un lavoro fragile sul piano teatrale, con uno sviluppo insufficiente delle situazioni e dei personaggi. Sembra che l'illustre commediografo non credesse fino in fondo nella sua creatura e si fosse limitato ad abbozzarla per rapidi tratti, senza portarla a compimento; quasi un cartone preparatorio in cui l'artista prova le soluzioni e i colori di un lavoro più vasto ed ambizioso, più compiuto e risolto, che, nel nostro caso, saranno “Le nozze di Figaro”.

Tuttavia, il carattere sperimentale non impedisce al “Barbiere” di anticipare quella carica innovativa e quasi eversiva che deflagrerà rumorosamente nelle “Nozze”. La trama, in effetti, ripropone una situazione tradizionale del teatro comico in musica e in prosa, con un tutore anzianotto che concupisce la giovane pupilla attraente e provvista di una dote cospicua, ma è destinato a rimanere con un palmo di naso. Questa situazione stereotipata, però, viene ravvivata in maniera imprevedibile dall'inserimento di una versione aggiornata ed ipercinetica del popolano furbo e faccendiere, cui Beaumarchais prima e quindi Rossini, grazie alla carica di energia e comicità contenuta nella sua musica, conferiscono un risalto inusitato, facendone il simbolo il primo di una classe sociale in ascesa, il secondo della stessa vitalità umana.

Ne “Il barbiere” si assiste ad una singolare alleanza fra il terzo stato, rappresentato da Figaro, e la nobiltà, cioè il Conte d'Almaviva, a danno della borghesia colta, vale a dire il medico Bartolo. Ma l'equilibrio su cui si regge l'accordo è instabile e sbilanciato verso Figaro, senza il quale il Conte sarebbe privo di fantasia e di iniziativa. Al frusto espediente della serenata sotto i balconi della bella, infatti, il barbiere replica con un fuoco d'artificio di trovate che, nella loro ribalderia, si rivelano assolutamente efficaci. E mettono in risalto la vitalità di una classe sociale che ha capito di possedere tutte le doti per potersi affermare e ha perso ogni timore reverenziale non solo verso la borghesia, di cui è messa alla berlina l'avidità e la grettezza, ma anche verso la nobiltà, con la sua fatuità e leggerezza.

La strana coppia, quindi, in cui il popolano conduce per mano il nobile attraverso le difficoltà della vita fino al lieto fine, è destinata a scoppiare. Il proletariato, una volta sperimentate le proprie capacità, non accetta più la protezione paternalistica e mai a costo zero della nobiltà, rivendica per sé autonomia e dignità: ma questa è la puntata successiva a quella de “Il barbiere” e sarà raccontata ne “Le nozze di Figaro”.

La musica di Rossini, con il suo brio scintillante e la sua geniale forza parodistica, si appropria della satira di Beaumarchais e ne fa un iperbole di irresistibile efficacia, trasfigurandone il realismo e proiettandolo nel mondo della comicità pura. Così la affranca dalla dimensione del contingente e le conferisce un valore assoluto ed atemporale, in cui Figaro assurge alla grandezza di simbolo non più soltanto di una classe sociale ma, in generale, di un’umanità libera e sfrontata, vogliosa di affermarsi grazie ad un’irresistibile energia vitale.

I temi sociali ed umani sottesi al “Barbiere” di Beaumarchais e di Rossini-Sterbini sono però sostanzialmente estranei allo spettacolo in questi giorni al Malibran: il già noto e collaudato allestimento di Bepi Morassi (regia), Lauro Crisman (scene e costumi), Vilmo Furian (luci), presentato sempre al Malibran nel 2003 e ripreso alla Fenice nel 2008 e nel 2010.

La regia è simpatica, disinvolta, pronta a divertire. E non si prende troppo sul serio, dote rara al giorno d’oggi sui palcoscenici dei teatri d’opera. Ci consegna un “Barbiere” formato farsa ed è una scelta legittima, forse riduttiva ma fondata nel testo musicale e letterario. Certo, fra le innumerevoli gags con cui il regista infioretta la vicenda, quelle viste e riviste, trite e ritrite, non mancano, così come quelle poco felici, per cui un’opera di sfoltimento male non farebbe. Le mossettine, i passettini di danza a ritmo, per esempio, modello avanspettacolo o musical anni cinquanta, possono trovare ospitalità ormai solo nelle recite amatoriali, non sul palcoscenico della Fenice, che merita qualcosa di meglio (come Rossini, del resto). Anche perché le trovate di buona lega non mancano e avrebbero maggior risalto se non fossero soffocate da quelle più dozzinali.

Le scene ed i costumi, tradizionalmente illustrativi, sono funzionali a questo tipo di regia e l’aiutano ad esprimere la sua carica ridanciana un po’ sopra le righe.

C’era molta attesa per il ventiquattrenne direttore d’orchestra veronese Andrea Battistoni, che non ha proprio deluso. Questi vede il “Barbiere”, se non erro, con una certa compostezza neoclassica, prediligendo tutte le volte in cui è possibile le sonorità morbide e soffici, cercando l’equilibrio fra le diverse componenti musicali ed evitando le esasperazioni ritmiche. Certo, i luoghi topici della partitura vengono onorati con la vivacità richiesta, ma la novità di questo Rossini mi pare una certa pacata eleganza, che lo rende particolarmente adatto alla raccolta cornice del Malibran.

Nel cast spicca il bel Figaro del baritono italo-cileno Christian Senn, eccellente per brio, simpatia e comunicativa, spiritoso ed insinuante anziché smargiasso, ottimo come cantante e a suo agio anche come fine dicitore,.

Accanto a lui, la Rosina del mezzosoprano novarese Manuela Custer canta proprio bene, con emissione limpida ed omogenea, padroneggiando la coloratura. Sul palcoscenico mostra di divertirsi assai e non sarebbe male che la Custer attrice cedesse un pizzico di pepe alla Custer cantante, cui forse manca un quid di incisività, di vivacità in più.

Il Conte d’Almaviva del tenore astigiano Enrico Iviglia ha bisogno di sistemare l’emissione, che appare come spezzata in due fra un canto a piena voce sonoro e squillante ed una mezza voce che è un fil di voce, mentre dovrebbe rimanere, pur nella ridotta dinamica, corposa e rotonda. L’alternanza fra i due registri, quindi, non è mai fluida, armoniosa, ma fa segnare come uno stacco, una soluzione di continuità, che sarebbe necessario correggere.

Il baritono di Castelfranco Elia Fabbian, Bartolo, nonostante un’emissione talvolta un po’ ruvida in linea del resto con l’arcigno personaggio da lui tratteggiato, è vocalmente sempre all’altezza. Fra l’altro, esegue con assoluta sicurezza, quasi con spavalderia, la sua difficile aria “A un dottor della mia sorte”, che ha messo e mette a dura prova interpreti ben più noti. A lui e solo a lui, oltre che al collega Massimiliano Liva che è Un ufficiale, il consenso esplicito del coro, raccolto in palcoscenico al termine dello spettacolo per ricevere gli applausi.

Il basso riminese Mirco Palazzi, Basilio, è il solito impeccabile artista, dall’intonazione immacolata. E’ un piacere sentirlo cantare.

Giovanna Donadini torna a divertire e a divertirsi con la sua impagabile Berta, ormai un classico per il pubblico veneziano e non solo. Piovono gli applausi: per la ben nota verve scenica dell’artista (però qualche “caccola” di meno gioverebbe anche a lei) ma anche per le sue tutt’altro che trascurabili doti vocali, che hanno modo di emergere spiritosamente nel concertato finale del primo atto.

Proprio bene, e non solo per modo di dire, il Fiorello del basso-baritono veneziano William Corrò e l’Ufficiale del già citato artista del coro Massimiliano Liva. Altrettanto si dica del coro, preparato da Claudio Marino Moretti.

Al termine della domenicale, naturalmente, entusiasmo alle stelle del pubblico.

Adolfo Andrighetti

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