Alla Fenice, don Giovanni come un eroe del nulla
Anche il Don Giovanni di Mozart e Da Ponte esprime la propria formidabile carica trasgressiva non nella dimensione politica e sociale, ove rimane rigidamente conservatore e ben convinto della superiorità conferitagli dalla nascita, ma in quella morale e specificamente in quella sessuale. L’evidenza morale che travolge nella sua corsa frenetica verso il baratro, infatti, è prima di tutto la dignità della donna, vista come mero strumento di un piacere erotico compulsivo. Anche l’uccisione del Commendatore, in effetti, è presentata come una conseguenza tutto sommato casuale del tentativo di stupro nei confronti di Donna Anna più che come un atto di violenza a se stante.
Alla fine della corsa, però, c’è il baratro. Il protagonista è inghiottito dalle fiamme dell'inferno, perché la libertà personale concepita come un assoluto è autodistruttiva, fa del male non solo a chi la subisce ma anche a chi la pratica. Certo, il suo aspetto più appariscente è rappresentato dalla consacrazione della vittoria del più forte su tutti gli altri, costretti a subirne le sfrenatezze; è ciò che emerge dai comportamenti di Don Giovanni non solo verso le donne, ma anche verso il Commendatore e Leporello. Ma celebrare e accontentare sempre il proprio capriccio è anche autodistruttivo. La trasgressione dell'ordine morale naturale, che è il codice cifrato inserito in ogni essere umano, corrisponde alla negazione della realtà di se stessi e della realtà tout court, quindi non può che portare, fisicamente o metaforicamente, alla morte. E' ciò che succede a Don Giovanni, che finisce, così, per diventare un eroe del nulla.
Questi temi si ritrovano tutti nell'emozionante, inquietante spettacolo già ammirato alla Fenice nel maggio 2010, vincitore nel 2011 di un Premio Abbiati (per le scene e i costumi) e di cinque Opera Award, con la regia di Damiano Michieletto, le scene di Paolo Fantin, i costumi di Carla Teti, le luci di Fabio Barettin; uno spettacolo tutto giocato sul contrasto tra la frenetica agitazione che muove Don Giovanni e l'alone funereo che lo circonda, come se il suo vitalismo, che egli comunica agli altri trascinandoli in un vortice agitato e disperato insieme, in realtà alimentasse morte.
Visto per la seconda volta, quindi, l'intero allestimento trasmette sempre di più l'impressione di una febbrile, ipercinetica cerimonia funebre, che, officiata da un Don Giovanni snervato ed onnipresente insieme, celebra la fine di ogni significato e di qualunque ordine nella vita umana. E' l'impressione che trasmette la scenografia, con quelle pareti, quei corridoi di palazzo nobiliare anonimi e scostanti come in un incubo, anch'essi in perenne movimento perché ruotanti di continuo su se stessi, ma che in realtà offrono allo sguardo sempre lo stesso ambiente, in una fissità che è parente stretta della morte. Le luci, ora smorzate come in un loculo, ora livide e violente ma sempre lugubri, illuminano un cimitero dei sentimenti, un universo privo di speranza dominato dalla violenza e dalla follia, in cui si agitano come dei fantasmi alcuni personaggi cui Don Giovanni ha succhiato l'anima e che ora mantiene in una vita apparente manovrandoli come marionette allucinate.
Una tristezza cupa, un'angoscia inesprimibile trasuda da questo memorabile spettacolo, contenuta all'interno delle pareti senza uscita del palazzo nobiliare e occultata dal febbrile agitarsi generale. Ne sono esempi lampanti, fra i molti che si potrebbero portare, i singhiozzi disperati con cui Donna Elvira inframmezza l'aria del catalogo di Leporello; o l'interpretazione che questi dà della stessa aria, come se ogni conquista rappresentasse non una prodezza, per quanto esagerata e smargiassa, ma il sintomo di una patologia da compiangere. Ma in questo universo allucinato la sofferenza viene privata di ogni capacità redentrice, così come i sentimenti non sono mai veri ed umani. Ce lo ricordano Donna Anna e Don Ottavio, che per convenzione fingono l'esistenza di un amore morto prima di nascere, e la stessa Zerlina, che canta “Vedrai carino” a Masetto, mentre con la fantasia evoca l’immagine di Don Giovanni. Il quale ricompare irridente e sicuro di sé durante il sestetto conclusivo, a confermare che questa è la vita che egli trasmette alle sue vittime e che non ve n’è un’altra, ove la sofferenza conosca la speranza e i sentimenti siano veri, umani.
L'ottimo maestro Antonello Manacorda cura con dedizione e competenza la parte musicale dell'indimenticabile spettacolo, governando il tutto con bella sicurezza e spiccato senso del teatro. La sua direzione, serrata fino al punto di togliere il respiro, si mostra in sintonia con la concezione registica dell'opera, di cui sono evidenziate soprattutto le tinte drammatiche, le atmosfere più inquietanti e preromantiche.
In uno spettacolo così compatto, così studiato scena dopo scena e dettaglio dopo dettaglio, in cui ognuno ha dato un contributo prezioso e determinante alla riuscita complessiva, si farebbe volentieri a meno di riferire dei singoli componenti il cast, stilando l'inevitabile elenco dei bravi e dei meno bravi. Eppure è il dovere del recensore, chiamato a riferire ciò che ha visto e sentito.
E questa volta ha visto e sentito, innanzitutto, un Markus Werba che è, semplicemente e in tutto e per tutto, il protagonista pensato e voluto da Michieletto. E detto questo, che è elogio non da poco, non servirebbe aggiungere altro, se non che lo strumento, morbido, duttile, pronto a variare colori, intenzioni, sfumature, lo sostiene sempre; per cui, fra la presenza scenica attraente ma di una bellezza sfatta, viziosa, e il canto sempre pronto a cogliere la febbrile ansia interiore da cui Don Giovanni è divorato, il personaggio viene fuori in tutta la sua inquietante prepotenza. E per una volta crepi il Beckmesser che è in me e che non mi fa amare la tendenza della scuola baritonale germanica, Fischer Dieskau incluso, a sbiancare e falsettare la mezza voce.
Il bravissimo Vito Priante è un Leporello tenero e buffo, giocato sulla chiave dell'ironia bonaria e disarmata, quindi meno straziato di quello presentatoci l'anno scorso da Alex Esposito, che portava la propria umanità dolente come un Amfortas grottesco e balbuziente. A Priante un apprezzamento incondizionato per la dedizione con cui asseconda le indicazioni di regia, per la brillante attitudine di attore, per la vocalità piena e robusta eppure morbida, espressiva, ben timbrata.
Il giovane e promettente tenore viterbese Antonio Poli, invece, non sembra ancora pronto a piegare la propria preziosa e cospicua dotazione vocale alle esigenze del ruolo di Don Ottavio, non riuscendo, soprattutto nelle due arie, ad alleggerire l'emissione e a fornire un'interpretazione stilisticamente pertinente. C'è da chiedersi se non potrebbe con più frutto orientarsi verso altri repertori, come quello francese o il primo romanticismo italiano.
Gli interpreti maschili si chiudono con il basso croato Goran Juric, Commendatore non entusiasmante per volume, timbro, colore, e con il Masetto vocalmente incolore ma disinvolto sulla scena del giovane baritono spagnolo Borja Quiza.
Fra le donne di Don Giovanni la personalità più spiccata, né potrebbe essere altrimenti, appartiene alla Donna Elvira del soprano Carmela Remigio, artista di classe e di temperamento, che conferisce al suo personaggio gli accenti infuocati, straziati che gli sono propri onorandolo nel contempo pienamente anche sul piano musicale e vocale. L'attrice, poi, è appassionata e convinta, per cui ne esce un'interpretazione che penetra fino in fondo all'anima e non lascia tranquilli.
La Donna Anna del soprano australiano Anita Watson risolve il personaggio con adeguata professionalità, pur accusando asprezze in zona acuta, ma può fare di meglio. Graziosa e corretta la Zerlina del soprano ateniese Irini Kyriakidou.
Al termine della matinée cui si riferiscono queste note, un successo entusiasta ha giustamente gratificato tutti gli artefici dello spettacolo.
Adolfo Andrighetti