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Nozze di Figaro senza sorriso alla Fenice

18/10/2011
Nozze di Figaro senza sorriso alla FeniceQuanta ironia, vitalità, perfetto funzionamento degli ingranaggi teatrali, troviamo nell'opera “Le nozze di Figaro”, altrettanti ne incontriamo nella sua fonte, la commedia omonima di Beaumarchais. Da Ponte e Mozart, insomma, si trovarono fra le mani un capolavoro già compiuto, dal quale ne trassero un altro, consacrato dalla musica di Mozart ad un valore artistico ed umano assoluto, non intaccabile dal tempo.

Prima delle “Nozze”, nella concezione di Beaumarchais, viene “Il barbiere di Siviglia”, in cui l'ascesa prepotente del popolo, incarnata da un Figaro di irresistibile vitalità ed inesauribile vena creativa, è frenata dall'aristocrazia, cioè il Conte d'Almaviva, con cui il popolo – Figaro finisce per scendere a patti forse perché gli manca il coraggio di portare fino in fondo la propria scalata sociale.

Ma fino a quando Figaro accetterà senza discutere di mettere la propria intelligenza al servizio del blasone del Conte? La risposta è nelle “Nozze”, ove l'ex barbiere ed ora servitore di Almaviva prende piena coscienza delle proprie capacità e del fatto che queste contano più di un titolo nobiliare, davanti al quale l'uomo che possiede una dignità e può far valere dei diritti non è più tenuto ad abbassare la fronte. La precedente collaborazione, quindi, si trasforma in antagonismo e, se si ricompatterà, non sarà più sulle stesse basi: il popolo non riconoscerà più come un postulato la superiorità attribuita dalla nascita e l'aristocrazia guarderà con crescente diffidenza verso il popolo, timorosa della sua ascesa.

Così Figaro, nella sua aria “Se vuol ballare signor contino”, attraversata da un'aggressività sotterranea ma chiaramente percepibile, fa una vera e propria dichiarazione di guerra ad Almaviva, ponendosi quindi sul suo stesso piano come avversario di pari dignità, in grado di affrontarlo e di batterlo. Il Conte, a sua volta, quando canta “Vedrò mentr'io sospiro felice un servo mio”, esprime tutta la rabbia per una posizione di privilegio che ora è messa in discussione, mentre in altri tempi gli avrebbe permesso di imporre senza problemi il proprio capriccio.

Il braccio di ferro tra Figaro e il Conte si svolge su di uno sfondo di rapporti umani che si intrecciano e si modificano con un dinamismo febbrile e il cui motore è l’attrazione sessuale. I personaggi sono più o meno tutti trascinati da questo vortice, che li tiene in perenne movimento nel corso di quella che nel titolo della commedia di Beuamarchais (Le nozze di Figaro è solo il sottotitolo) viene giustamente definita “la folle giornata”. E il culmine drammatico, anche se non musicale, dell’opera è il quarto atto, che si svolge di notte, da sempre simbolo della dimensione sessuale vissuta come oscura e misteriosa forza dell’istinto. Qui il gioco dei travestimenti e degli scambi di persona fa sì che l’attrazione erotica diventi un vortice universale in cui le identità, le differenze personali, le relazioni consolidate, si annullano e si confondono in un tripudio dei sensi eccitante ma anche distruttivo.

La trasgressione notturna non può durare a lungo e la realtà torna presto ad imporsi con le sue evidenze, espresse in maniera geniale da quel “Contessa perdono” che il Conte rivolge alla sua sposa: una frase musicale semplice ma di stupefacente verità e bellezza, in cui si stempera e si conclude l’eccitazione della “folle giornata”. Fino a quando? L’equilibrio raggiunto è sempre instabile e anche il pentimento più sincero può essere rimesso in discussione dalla malizia di Eros.

La concezione registica di Damiano Michieletto, che, insieme con il suo team (Paolo Fantin per le scene, Carla Teti per i costumi, Fabio Barettin per le luci) sta portando sul palcoscenico veneziano tutta la trilogia Mozart-Da Ponte, non prende in considerazione gli aspetti lato sensu politici delle “Nozze”, ma solo quelli privati, intimistici, soprattutto erotici. La scenografia, che riprende l’impianto del Don Giovanni con vantaggi anche per le casse del teatro, circoscrive la vicenda all’interno di un ambiente chiuso e vagamente soffocante e quindi è funzionale a questa visione, che qualcuno ha giustamente definito un “ritratto di famiglia in un interno”.

L’opera è ambientata in una casa ottocentesca largamente benestante, ove i rapporti umani sono improntati alla logica della violenza e della sopraffazione reciproca. L’atmosfera è torva, carica di tensione al limite della nevrosi. I personaggi si guardano in cagnesco, si urtano in continuazione, si schiaffeggiano e si picchiano: nella realtà oppure nell’immaginazione. Sul palcoscenico, infatti, si vede non solo ciò che accade realmente, ma anche ciò che i personaggi immaginano o desiderano: e il loro universo mentale ovviamente è gremito di fantasie torbide e di desideri inconfessati.

In questo modo la regia esplicita, con sottolineature talvolta fastidiose e con voluta cattiveria, situazioni e stati d’animo cui Mozart e Da Ponte alludono con delicatezza e con un sorriso di indulgenza. Non c’è comprensione umana, invece, nella visione di Michieletto, che analizza con spietatezza i vizi di questa famiglia border line e ce li spiattella davanti per suscitare il nostro disgusto. Il fioretto di Mozart e Da Ponte (ma anche di Beaumarchais), temprato dall’umanesimo illuminista e massone che guardava con indulgenza alle debolezze umane a condizione che fossero mantenute in un giusto equilibrio, è quindi sostituito dalla sciabola di una concezione del tutto moderna che non conosce speranza né perdono.

Emblematica è la figura di Figaro, che il regista vuole come un incazzato perenne torvo e manesco, sempre al limite della nevrosi. Ma si pensi anche che l’opera si conclude con la morte della Contessa, che cade dal davanzale della finestra nel vuoto; un suicidio, probabilmente, perché Rosina ha perdonato il marito solo a parole, mentre, in realtà, la sofferenza per i tradimenti di lui ha infranto in maniera irreparabile il patto d’amore fra i due coniugi. In ogni caso, il suggello all’impossibilità di una pace e di una riconciliazione reali in quell’universo nevrotico e violento: la folle giornata è veramente tale, ma in senso maligno ed inquietante, non come temporaneo e tutto sommato innocente turbamento dei sensi quale ce lo dipingono Mozart e Da Ponte.

Ne esce una visione dell’opera certo legittima ed intelligente, come c’era da aspettarsi, ma non convincente, perché fa delle “Nozze di Figaro” ciò che non sono, sacrificandone l’eleganza e l’ironia, e quindi spegnendo quel sorriso che accompagna sempre la narrazione dei difetti umani in Mozart e Da Ponte. Un Mozart cattivo, inacidito, che guarda gli uomini non con superiore distacco ma con disprezzo astioso, non solo contraddice la sua stessa visione del mondo, ma anche lo spirito della commedia e, ciò che più conta, la componente giocosa e l’equilibrio neoclassico della musica. La sottigliezza dell’interpretazione proposta va apprezzata ma rimane la sensazione di un’operazione fondamentalmente non riuscita, come se alla ricetta mancasse un ingrediente essenziale.

Delude in particolare l’ultimo atto, culmine drammatico dell’opera, ove la magia e la sensualità del giardino notturno sono sostituiti dalla solita sala da pranzo, in cui i personaggi mimano lo stordimento dei sensi salendo e scendendo continuamente dalle sedie e dai tavoli.

Infine, una preghiera al regista e a tutti i suoi colleghi: ogni tanto, per qualche minuto, nei momenti più belli ed importanti dell’opera, lasciamoli cantare in pace questi cantanti, senza pretendere che facciano acrobazie o si muovano in continuazione o si agitino per qualche motivo. Solo per la gioia di poter ascoltare per qualche minuot una bella voce spiegarsi liberamente...

L’interpretazione del maestro Antonello Manacorda ha convinto meno che nel Don Giovanni. Là, infatti, i tempi serrati, talvolta convulsi, evidenziavano con efficacia quegli aspetti inquietanti, oscuri, preromantici della partitura, che la vicenda suggerisce e la regia valorizzava con esiti emozionanti. Nelle “Nozze”, invece, finiscono per sacrificare alcuni momenti topici dell’opera, che risultano congelati in una rigidità ritmica che li priva di sensualità ed eleganza. Valgano per tutti gli esempi dell’aria di Cherubino “Non so più cosa son cosa faccio” e il duetto Conte-Susanna del terzo atto “Dunque al giardin verrai”. Il maestro raggiunge comunque esiti apprezzabili in tutte le scene d’insieme, che governa con sicura mano di concertatore e cui conferisce il giusto rilievo sonoro.

Nel cast non convince il Figaro nevrotico di Alex Esposito, già superbo Leporello nel Don Giovanni. Qui, forse perché condizionato dalle scelte di direttore e regista, dimentica la natura ironica e bonaria del personaggio, finendo per travisarlo; né può restituire il suo irrefrenabile vitalismo da arrampicatore sociale. L’artista si conferma comunque di alto livello, per la vocalità bene impostata, l’emissione omogenea, il bel timbro rotondo e brunito, la singolare propensione di attore.

Accanto a lui è pienamente a proprio agio il Conte di Markus Werba, che concede di più alle logiche della commedia e riesce quindi a mantenere un difficile equilibrio fra le esigenze di questa e quelle della regia. Sul piano vocale è sembrato, poi, ancora più sicuro ed autorevole che nel ruolo di Don Giovanni, miniando, fra l’altro, un “Contessa, perdono” semplicemente perfetto per la mezza voce morbida e suadente e per l’umiltà del tono.

Carmela Remigio risolve il personaggio della Contessa senza preoccupazioni di ordine vocale ed interpretativo, anche se, talvolta, potrebbe cercare accenti meno intensi ma più lirici e contemplativi.

Il giovanissimo soprano Rosa Feola, Susanna, affronta il proprio personaggio con correttezza ma con eccessiva prudenza, quasi timorosa di sbagliare. Con il passare del tempo, però, acquista sicurezza e ci dona nel IV atto un “Deh vieni, non tardar, o gioia bella” eseguito veramente bene, con la giusta emissione morbida, il lirismo sensuale e abbandonato, tutte le sfumature al loro posto.

Fa il suo con sufficiente disinvoltura e apprezzabile vocalità il mezzosoprano perugino Marina Comparato, Cherubino. Perfettamente in ruolo, per l’aggraziata verve scenica e la fresca vocalità, il soprano valdostano Arianna Donadelli come Barbarina. Il basso-baritono Umberto Chiummo, Bartolo, canta bene, con corretta intonazione ed emissione, l’aria della vendetta. Adeguati alle rispettive parti Elisabetta Martorana (Marcellina), Bruno Lazzaretti (un Basilio che ha più mestiere che voce ma va bene così), Emanuele Giannino (Don Curzio), Matteo Ferrara (Antonio).

Alla domenicale cui si riferiscono queste note si è registrato un successo cordiale per tutti.

Adolfo Andrighetti

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