Fenice: "Salve, gentile, mormorante ruscello"
Questa volta tocca ad un lavoro di Händel, “Acis and Galatea”, che usualmente viene definito come un masque: quella forma tradizionale di spettacolo, nata in Inghilterra, che rappresenta temi mitologici o allegorici combinando musica, canto e danza. “Acis and Galatea” nasce nell’atmosfera, che possiamo immaginare sospesa e idilliaca, delle campagne intorno a Londra di proprietà del conte di Carnarvon, al cui servizio Händel si trovava in quell’anno di grazia 1718. La splendida dimora nobiliare, la pace di quell’ambiente bucolico così diverso dalla frenesia della metropoli, hanno di certo lasciato un segno, un tocco di elegante semplicità, in questo delicato capolavoro.
La vicenda è tratta fedelmente dalle “Metamorfosi” di Ovidio e l’adattamento è attribuito a quel John Gay che qualche anno più tardi consegnò alla storia della musica “The Beggar’s Opera” (L'opera del mendicante), ma probabilmente vi collaborarono anche Alexander Pope e John Hughes. Vi si narra il mito gentile dell’amore di Acis e Galatea e della sua tragica conclusione, provocata dalla violenza bestiale del ciclope Polifemo, che, invaghitosi anch’egli della ninfa, uccide il suo rivale Acis. Questi viene trasformato da Galatea in un ruscello, simbolo della perenne vitalità dell’amore, che non cessa di effondersi libero e fresco nonostante la morte fisica di Acis. In questo modo, viene trasformato in un dono perenne ed universale ciò che prima era soltanto un sentimento individuale, circoscritto fra due persone.
Lo spettacolo in scena al Malibran è un nuovo allestimento del Teatro La Fenice in collaborazione con il prestigioso Festival d’Aix-en-Provence. Regia, scene, costumi, luci e coreografia sono del coreografo giapponese Saburo Teshigawara, che ha già incontrato l’opera barocca a Venezia nel marzo 2010, quando è stato l’artefice del “Dido and Æneas” di Purcell alla Fenice.
L’artista concepisce il masque di Händel come una sorta di coreografia cantata, in cui gli interpreti si abbandonano, tranne quando stanno completamente immobili, ad un continuo movimento ondulatorio soprattutto delle braccia, che talvolta raggiunge esiti di una delicata e sospesa poesia, talaltra, invece, sembra fine a se stesso e sovrapposto artificiosamente alla musica e ai versi.
La scenografia è di una raffinata essenzialità: si incomincia con delle proiezioni sullo sfondo che raffigurano prima dell’acqua scrosciante, in cui si sintetizza il mito dei due amanti infelici, poi delle foreste agitate dal vento. Quindi in scena si vede un canneto, al cui interno Acis e Galatea compaiono e scompaiono rincorrendosi mentre si dicono gioiosi il loro amore; qui la semplicità della soluzione registica incontra in perfetta sintonia la situazione musicale e drammatica, creando un momento di esile eppure autentica poesia. Altrettanto può dirsi della soluzione adottata per la metamorfosi di Acis, con l’interprete immobile al centro della scena, il volto in ombra a rappresentare la spersonalizzazione già avvenuta in lui con la trasformazione in ruscello, mentre l’acqua gli zampilla da entrambe le mani e Galatea, accovacciata ai piedi dell’amato, la raccoglie fra le dita, se ne lascia detergere, quasi in un desiderio di contatto fisico che rimane in lei come lascito degli amori passati e già finiti. Ben risolta anche la figura di Polifemo, grazie all’azzeccato costume di pelle nera, all’incedere rozzo e pesante sempre a gambe larghe e piegate, ai movimenti goffi che lasciano trasparire una violenza pronta a manifestarsi.
L’esito complessivo, insomma, è quello di uno spettacolo di indubbia e un po’ rarefatta eleganza, un masque del XXI secolo gentile e poetico anche se appesantito da movimenti coreografici che, se di solito risultano fluidi ed appropriati, talvolta appaiono meccanici, manierati, e quindi sembrano obbedire più ad una scelta programmatica che ad una reale esigenza espressa dalla situazione drammatica e musicale. In questi casi il filo delicato della poesia rischia di rompersi da un momento all’altro con esiti grotteschi, perché, si sa, il confine fra sublime e ridicolo è labile.
Nell’insieme, però, questo “Acis and Galatea” rappresenta un esempio convincente di come si può mettere in scena anche oggi il melodramma barocco senza tradirne lo spirito e insieme rendendolo apprezzabile ai palati moderni. La meraviglia, caratteristica di quella poetica, non è più ricreabile attraverso le fantasmagorie scenografiche, sia perché lo impedisce l’austerità economica, sia perché siamo ormai adusi alla spettacolarità tecnologica più smaccata. Ma il pubblico di oggi è ancora vulnerabile, per fortuna, alla poesia senza tempo dei sentimenti e delle emozioni ed è in questa dimensione, ricostruita con un linguaggio elegante e adatto alla contemporaneità come fa Teshgawara, che può incontrare, restituito a nuova vita, lo stupore barocco.
Il responsabile musicale dello spettacolo è il maestro argentino Leonardo García Alarcón, che, insieme all’Orchestra del Teatro La Fenice e ai giovani solisti dell’Académie européenne de musique del Festival d’Aix-en-Provence, dà vita ad un’esecuzione che evita le secche di un’eleganza esangue e manierata, per innervare la partitura di una vivacità e anche di una fisicità che trova espressione nei tempi sostenuti e, grazie anche agli strumenti moderni, nel bel suono corposo.
Nel cast, tutto pienamente all’altezza del compito, si segnala la Galatea del soprano francese Julie Fuchs per il bel timbro dolce e luminoso e per la grazia con cui sa stare in scena ed eseguire i movimenti richiesti dalla regia. E’ francese, di Lione, anche il suo Acis, il tenore Julien Behr, che evita giustamente la tentazione di un’esecuzione troppo zuccherosa e manierata per incarnare un amante virile, anche se l’emissione potrebbe essere maggiormente levigata e certe asprezze sarebbe meglio eliminarle, soprattutto in questo repertorio. Ben caratterizzato, anche se non esente da mende per un’emissione che dovrebbe essere più controllata ed omogenea, il Polifemo del basso-baritono USA Joseph Barron. A posto il Damon del tenore inglese Rupert Charlesworth e il Coridon del tenore USA Zachary Wilder; molto ben affiatato ed intonato il coro, composto da cinque solisti dell’Accademia di Aix-en-Provence.
Alla rappresentazione di sabato 29 successo cordiale, anche al netto di una simpatica claque di amici ed estimatori degli interpreti.
Adolfo Andrighetti
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