Trovatore alla Fenice: viva le voci!
La mente di Azucena e l’intera opera sono dominate dal simbolo del fuoco, visto come elemento distruttore di straordinaria e temibile energia, forza primigenia selvaggia ed inarrestabile. La zingara ne è terrorizzata, lo evoca nei suo incubi del passato e lo vede come minaccia continua al suo futuro, perché anche lei potrebbe finire sul rogo come capitò alla madre. In fin dei conti è accusata di aver rapito ed arso vivo il secondogenito di un nobile: che altro potrebbe aspettarsi se non fare la stessa fine cui condannò un innocente? In questo senso la svettante cabaletta “Di quella pira l’orrendo foco” non è soltanto il passo più noto dell’intera opera, ma rappresenta soprattutto la concrezione, in poche trascinanti battute, di questa simbologia arroventata e barbarica, che illumina di sinistri bagliori rossastri l’intera vicenda.
Nel mezzo di questa truce storia, fra i fumi dei roghi e i deliri di una zingara, sboccia una delicata storia d’amore fra Leonora e una figura dal fascino sottile ed arcano: un trovatore, uno di quei poeti e cantori erranti che con la grazia delle loro composizioni e spesso della loro persona allietavano le corti dell’epoca e le nobili dame. Ma ci sono due fatti, terribili, fatali, che faranno sì che la tragedia precipiti: il trovatore, che risponde all’armonioso nome di Manrico, non è altri che il figlio minore del vecchio Conte di Luna, il bimbo rapito da Azucena per bruciarlo vivo e poi invece da lei allevato come una sua creatura; inoltre, il figlio maggiore del vecchio Conte e quindi, ad insaputa di tutti tranne che della zingara, fratello di Manrico, è rivale in amore di questi e anche suo avversario in guerra. Una miscela esplosiva, la cui deflagrazione porterà la fiammeggiante vicenda alla catastrofe finale, al cui interno si estinguerà luttuosamente anche l’amore dei due giovani.
Lo spettacolo in scena alla Fenice (regia di Lorenzo Mariani, scene e costumi di William Orlandi, luci di Christian Pinaud), un nuovo allestimento coprodotto con il Regio di Parma, vuole cogliere un’altra dimensione de “Il trovatore”, quella notturna, che riveste la vicenda di un’atmosfera arcana e squisitamente romantica. I mezzi utilizzati sono semplici: il grande cielo buio che si apre sopra un’ampia landa desolata; la luna incombente e variamente illuminata a seconda delle situazioni; il profilo di Castel del Monte, ora rimpicciolito sullo sfondo ora più vicino a chi guarda e riproposto anche nei due arazzi - sipari che chiudono il proscenio, a dare l’immagine del medioevo turrito ed araldico. Pochi altri elementi si alternano nelle varie scene: un grande cavallo bianco; il tesoro degli zingari; il falò dell’accampamento gitano che alimenta le ossessioni di Azucena; un grande letto durante il duetto d’amore; alcuni massi...
All’interno di questa essenziale cornice, personaggi e coro si muovono secondo un’impostazione fin troppo tradizionale, con i solisti che vanno al proscenio per la ripetizione delle cabalette e fanno ciò che si è sempre visto fare in quest’opera, compreso un gran sfoderar di spade. Tuttavia lo spettacolo nel complesso tiene e, soprattutto in virtù dell’impostazione scenografica e dei bei costumi d’epoca, riesce ad evocare l’atmosfera voluta: rovente eppure onirica, cruda e insieme straniante come un incubo; la proiezione di una visione lucida e irreale.
Ma, si sa, “Il Trovatore” è soprattutto opera di voci e la difficoltà a reperirne di idonee è la causa principale della non frequentissima presenza di quest’opera nei teatri, almeno rispetto alle due consorelle della trilogia romantica, cioè “Rigoletto” e “Traviata”. Ma alla Fenice le voci le abbiamo ascoltate, belle e sguainate come spade; quindi, regia o non regia, gli applausi sono scrosciati calorosi e abbondanti a fine spettacolo.
Il Manrico di Francesco Meli custodisce in gola una miniera d’oro, da cui sprizzano preziose scintille come lampi di pura bellezza. Il timbro, in effetti, è privilegiato, di schietta lucentezza tenorile e insieme avvolto da una patina malinconica che lo rende irresistibile. L’artista, inoltre, è capace di sonorità delicatamente sfumate, perfino soavi e di un fraseggio accurato ed evocativo. Il risultato è un personaggio di freschezza e impetuosità adolescenziali, pronto ad intenerirsi come ad accendersi, cui manca solo un pizzico di squillo e di polpa per essere perfetto. Meli, comunque, ha dichiarato che, per il momento, riporrà la parte nel cassetto, insieme al Riccardo de “Il ballo in maschera” debuttato di recente, per farla maturare pur senza eseguirla in teatro; una decisione saggia, perché il tempo può sviluppare la voce conferendole più spessore e robustezza, ma a condizione che del suo attuale Manrico, così fresco di palpiti giovanili e di trasalimenti adolescenziali, non si smarriscano del tutto le tracce.
Leonora è il soprano Maria José Siri. Padroneggia la difficile parte passando con sicurezza dalle sonorità dolci e sfumate a quelle lampeggianti, dimostrando particolare attitudine e preparazione nelle agilità. Peccato che il timbro tenda a farsi tagliente quando la voce “spinge” in zona acuta.
Azucena è il vero elemento di novità dell’opera, quello che la affranca da una concezione drammaturgica e musicale ancora legata alla tradizione per aprirla verso esiti artistici più coraggiosi e sperimentali. Ne dà un’interpretazione eccellente il mezzosoprano romano Veronica Simeoni, che ha voce non onnipossente ma la usa benissimo, con emissione stabile ed omogenea, adeguata proiezione, linea di canto impeccabile, dizione nitida. Ne esce un personaggio più nevrotico che belluino, una zingara moderna dalla figura bella e quasi elegante, lontana dallo stereotipo della virago scarmigliata infagottata negli stracci, il vocione enorme che si allarga nel grave alla ricerca dell’effetto plateale.
Franco Vassallo, il Conte di Luna, ha voce benedetta da Dio per volume, estensione e risonanza. La usa anche piuttosto bene, alternando sonorità come squilli di tromba ad altre raccolte nel piano. Certo lo strumento è quello che è e talvolta gli prende la mano, ma sarebbe ingeneroso non riconoscere all’artista lo sforzo di restituire, almeno sul piano vocale, un personaggio quanto possibile più sfumato e meno monocorde. L’esito complessivo è un Conte entusiasmante negli involi melodici a piena voce per lo splendido timbro baritonale, ricco, caldo, rotondo; l’interpretazione, però, rimane ancora un po’ generica, un po’ troppo “professionale” e basta, senza quel pizzico di emozione, di fuoco sacro, che pure ci vorrebbe.
Giorgio Giuseppini è un Ferrando dall’emissione limpida e dalla apprezzabile linea di canto, che non cerca sonorità cupe e cavernose per sollecitare il consenso della platea.
Sui comprimari, a parte la brava Antonella Meridda come Ines, è meglio tacere. Ottimo per compattezza e robustezza il coro del Teatro.
Sul podio il maestro Riccardo Frizza si fa apprezzare per un’interpretazione emozionante ed elettrizzante, sempre viva e sostenuta, che fa cantare orchestra e voci e restituisce freschezza e vitalità anche ad accompagnamenti spesso poco valorizzati.
Adolfo Andrighetti
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