Fenice: l’universo claustrofobico di Lou Salomè
Ma la musica non poteva saziare un tale onnivoro bisogno di conoscenza. Ne aveva fatto la sua professione, è vero, ma, in fondo, non era che un aspetto della sua completa disponibilità intellettuale verso ogni espressione del pensiero umano. La laurea in medicina con specializzazione in psichiatria, infatti, non lo aveva distolto dal coltivare interessi di ogni tipo, dalla scrittura al collezionismo di oggetti antichi, fino alla laurea in archeologia, conferitagli alla memoria perché avrebbe dovuto discutere la tesi in egittologia il giorno in cui si tennero i suoi funerali.
Onnivoro anche come musicista, naturalmente: dopo gli studi, non accademici ma di assoluto livello con Stokhausen, Ligeti e Maderna, divenne un direttore d’orchestra di grande fama soprattutto nei Paesi di cultura germanica, che apprezzavano il suo approccio rigorosamente intellettuale alle partiture. Fra l’altro, fu il primo maestro italiano a dirigere il Ring a Bayreuth. Ma si impegnò anche nella composizione, come “Lou Salomé” dimostra.
La curiosità proteiforme del maestro, in effetti, non poteva non essere attirata da questa singolare figura di principessa russa, tipico esemplare di un milieu intellettuale mitteleuropeo che tra fine ottocento e inizio novecento si segnalava per una ricerca culturale tanto vivace quanto disordinata.
Louise (Lou) Salomé (S. Pietroburgo, 1861 – Gottingen, 1937), fu donna libera ed irrequieta, priva di inibizioni e di pregiudizi di tipo culturale come di tipo morale, sempre alla ricerca di un vero che le sfuggiva continuamente dopo aver abbandonato ancora adolescente il cristianesimo e attirata dalla percezione di un’energia cosmica da cui deriva e cui si riconduce ogni manifestazione vitale, l’artistica come la religiosa e la sessuale.
Ma ben più delle sue errabonde elucubrazioni filosofiche, di cui lasciò traccia in saggi, recensioni, articoli di vario genere, interessano le sue amicizie con alcune fra le migliori intelligenze del tempo, che restavano affascinate dalla bellezza della donna non meno che dalla sua originalità intellettuale. Lou, il cui erotismo era mentale prima che fisico e che non sempre ebbe con questi personaggi relazioni amorose nel senso tradizionale del termine, aveva però il potere di “fecondarli”, come fu scritto, cioè di stimolarne la potenza creativa estraendo da loro, come in un processo maieutico, il meglio delle forze intellettuali. E’ il caso, solo per portare gli esempi più noti, di Nietzsche, del poeta Rainer Maria Rilke, di Freud, di cui Lou fu, già in età matura, allieva brillante e recettiva.
L’opera, composta da Sinopoli su un libretto di Karl Dietrich Gräwe tratto dalle memorie della protagonista, fu ritirata dopo la prima esecuzione di Monaco di Baviera del 1981 dallo stesso compositore, che voleva rivederla. Ma Sinopoli da quel momento si dedicò soltanto alla direzione d’orchestra e “Lou Salomé” non fu più riportata sul palcoscenico, per cui questa di Venezia è la prima rappresentazione in Italia e la seconda in assoluto.
L’opera ripercorre, attraverso il ricordo di una Lou ormai prossima alla morte, le esperienze da lei compiute con i vari uomini della sua vita. Si tratta di una rievocazione squisitamente intellettuale, nella quale sarebbe inutile cercare un succedersi di avvenimenti ed è difficile anche ricostruire un’evoluzione psicologica della protagonista, che trova nella domanda, nel dubbio perenni, la sua cifra esistenziale e culturale. In effetti le riflessioni e gli aforismi sui temi della libertà, dell’amore e della morte in cui consiste il testo, ritornano circolarmente sempre su se stessi, a riproporre un’immensa domanda cosmica sul senso del tutto; una domanda sofferta e anche patetica perché non sa darsi una risposta ed assomiglia al volo di una farfalla che, attirata dalla luce esterna, picchia continuamente contro il vetro di una finestra e poi è costretta a ritornare indietro e a ripetere all’infinito quell’inutile tentativo.
La soluzione cui Lou giunge nella sua canzone conclusiva è una non soluzione: l’accettazione della vita (e quindi anche della morte) per quello che è, per quel non senso che è, in quanto l’amore ci priva della libertà, mentre la libertà ci ha condotto soltanto nella “confusione e oscurità”.
In un racconto così bloccato, quasi congelato attorno alle riflessioni autoreferenziali che sono ispirate a Lou dagli uomini che ha incontrato, l’elemento sano, vitale, sembra rappresentato dalla musica di Sinopoli. Questa accompagna lo svolgersi delle meditazioni con grande pertinenza drammatica ed emotiva, le asseconda e nello stesso tempo le supera, perché ricostruisce attorno ad esse quella polpa esistenziale, quell’afflato di vita vissuta, che scioglie una certa corazza di freddo cerebralismo in cui sembrano bloccate. E’ una musica che spesso cerca e trova moduli espressivi di intensa comunicazione, per esempio attraverso le imponenti percussioni e nelle splendide parti del coro; che sa essere descrittiva ed allusiva senza mai essere banale; che non vuole essere avanzata a tutti i costi ma tende piuttosto a rielaborare in chiave moderna modi e stili dell’epoca tra ottocento e novecento in cui è ambientata l’opera e dalla cui cultura il compositore era affascinato.
L’operazione, in sé alquanto rischiosa, di mettere in scena un’opera che di teatrale non ha nulla se non, in un certo senso, la parte musicale, è però brillantemente riuscita grazie all’intelligente ed innovativo allestimento realizzato dagli studenti della Facoltà di Design ed Arti dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (IUAV), assistiti da una squadra di tutors, fra i quali Carlo Ripa di Meana, Margherita Palli e Gabriele Mayer, nonché Luca Ronconi come supervisore.
L’invenzione decisiva, senza la quale l’intera operazione sarebbe potuta affondare nel mare della sua stessa anti teatralità, è quella di spostare l’azione dal palcoscenico, ove è posizionata l’orchestra, al centro della platea, in maniera da creare un rapporto diretto fra personaggi e pubblico. Con le poltroncine allineate sotto i palchi (e quanto spazio finalmente per allungare le gambe...), tutto si svolge appunto al centro della platea, ove si erge suggestiva una betulla. Attorno ad essa dei volumi abbandonati, semisepolti o accatastati l’uno sull’altro, come giacenti lì da tempo immemorabile. Alla fine dello spettacolo, mentre scrosciano gli applausi, mi viene spontaneo abbinare all’albero, verde e vitale, la musica di Sinopoli, e ai libri, vecchi e polverosi, le massime di Lou e dei suoi amici...Prezioso il contributo dato alla realizzazione scenica dai costumi, contemporanei all’epoca dei fatti. Molto riuscite anche le proiezioni, che danno vita a suggestivi giochi di luce sui parapetti dei palchi.
Certo, non tutto nella messa in scena è sempre chiaro, qualche significato simbolico certamente sfugge allo spettatore normale, che non abbia potuto studiare in precedenza il libretto; e, sempre allo stesso spettatore, risulta impossibile attribuire un’identità ed uno scopo certi a tutti personaggi impegnati. Ma la vicinanza fisica con la rappresentazione, come si accennava, permette di minimizzare i rischi insiti in questo tipo di operazioni, che tendono a girare sopra le teste del pubblico senza raggiungerlo mai; e consente, invece, di realizzare quel coinvolgimento non solo intellettuale ma anche emotivo senza del quale non c’è teatro.
A tale coinvolgimento dà un contributo determinante Angeles Blancas Gulìn. Il soprano, spagnolo ma tedesco di nascita, è una protagonista straordinaria, superba e trascinante, che sa essere sensuale e insieme cerebrale, istintiva eppure intellettuale, incarnazione di sublimi contraddizioni come doveva essere la Lou della storia. E’ quasi commovente la su immedesimazione nel personaggio, conquistata attraverso un’assoluta dedizione scenica e una vocalità impavida, che rimane morbida e seducente nonostante l’impervio declamato e gli acuti vertiginosi.
Peraltro tutta la compagnia, composta da cantanti ed attori, ché l’opera inframmezza anche qualche passo solo recitato, è stata scelta con cura e preparata a dovere. I cantanti: con il baritono Roberto Abbondanza, prezioso specialista del repertorio contemporaneo, ricordiamo i tenori Gian Luca Pasolini, Matthias Schulz, Marcello Nardis e il mezzosoprano Julie Mellor; gli attori: prima di tutto Claudio Puglisi, Nietzsche sofferto e molto presente in scena, quindi Giorgia Stahl e Alessandro Bressanello.
Resta da dire della prova superba fornita sia dall’orchestra della Fenice, sotto la guida precisa e sensibile del maestro tedesco Lothar Zagrosek, sia dal coro del teatro, istruito da Claudio Marino Moretti. La regia del suono è di Alvise Vidolin.
Alla pomeridiana cui si riferiscono queste note è arriso un cordiale e convinto successo, particolarmente intenso per la protagonista.
Adolfo Andrighetti