Teatro Malibran: Rossini sul fronte del Piave
Ma allora, se non è propriamente farsa, a che genere appartiene “L’inganno felice”? Alla domanda si potrebbe replicare con un’altra: è così importante stabilirlo? Ciò che conta è capire l’opera nella sua valenza culturale ed artistica, piuttosto che classificarla in un genere o in un altro. Il nostro bisogno di mettere etichette sui prodotti della creatività umana ricorda qualche volta il gesto con cui il collezionista infilza farfalle nella bacheca: incasellare può voler dire anche uccidere; chiudere in una categoria può significare tarpare le ali a ciò che va certo contestualizzato storicamente ma deve essere lasciato libero di volare.
Comunque sia, della farsa “L’inganno felice” possiede la struttura formale: lo svolgimento in un unico atto e il succedersi dei pezzi articolato su tre momenti fondamentali: l’Introduzione, il Concertato posto più o meno a metà (qui limitato a tre soli personaggi), quindi il Finale. La trama, invece, apparenta l’opera alle cosiddette piéces a sauvetage, come “Fidelio” di Beethoven o anche “La gazza ladra” di Rossini, ove il personaggio protagonista deve passare attraverso infinite peripezie e subire persecuzioni prima che giustizia trionfi. Di qui, avvicinare “L’inganno felice” al genere semiserio è certamente legittimo. Ma, va ripetuto, si tratta alla fine di elucubrazioni che lasciano il tempo che trovano.
E al Malibran cosa si è visto? Prima di dirlo, una premessa. Va apprezzata e sostenuta senza riserva l’idea, più volte attuata con lo IUAV e ora realizzata per la prima volta con l’Accademia di Belle Arti di Venezia, di permettere alle istituzioni universitarie della città, i cui studi hanno attinenza con il mondo del teatro, di sperimentarsi su palcoscenici prestigiosi come quelli della Fenice ed ora del Malibran, a contatto con un pubblico pagante che giustamente pretende professionalità da ciò che vede. Così si mettono alla prova sul campo energie e talenti che, sotto la guida di tutors autorevoli ed esperti, si impegnano, creano ed inventano. Quale occasione più preziosa per dei giovani che vogliono mostrare ciò che sanno fare e insieme imparare come si fa?
Riconosciuto, dunque, che si tratta di un’iniziativa illuminata, anche nella logica di fare del Malibran un palcoscenico soprattutto sperimentale, va pur detto che ciò che si è visto non solo non è apparso entusiasmante ma neppure convincente. Lo spettacolo, realizzato dalla Scuola di Scenografia dell’Accademia di Belle Arti in attuazione dell’impostazione registica di Bepi Morassi, direttore della produzione artistica della Fenice, è apparso minimalista nelle idee e nella realizzazione, grigio, povero, triste; quindi ben poco adatto a sottolineare la delicata vena sentimentale, screziata di qualche contenuto spunto comico, che caratterizza questo Rossini non ancora ventenne.
Soprattutto non giova a “L’inganno felice”, elegante, squisito divertissement, l’ambientazione realistica, che ne spegne la poesia soffusa ed impalpabile. La vicenda, infatti, è collocata in un contesto militaresco durante la prima guerra mondiale, con divise e abiti dell’epoca (costumi, appropriati, di Federica De Bona); la scena unica, di Fabio Carpene, è povera fino allo squallore, proprio da conflitto bellico in corso: al centro i ruderi di quello che sembra un capanno o un ricovero percosso dal fuoco nemico; un albero rinsecchito sulla sinistra; per terra sabbia e ghiaia verso il proscenio. Tutto, compresa la tetra cupezza delle luci di Andrea Sanson, sembra studiato per trasmettere la sensazione della durezza della guerra. E in questa cornice dovrebbero svilupparsi le tenere melodie di Rossini, le sue delicate armonie? Si fa comunque apprezzare, per la professionalità e la linearità, la regia di Bepi Morassi, che muove i personaggi come si conviene.
Anche sul piano musicale non tutto convince. Detto della direzione sicura e della concertazione impegnata del maestro Stefano Montanari, bravo soprattutto a conferire il giusto risalto alla vena sentimentale di questo Rossini semiserio, detto dell’ottimo e simpatico lavoro al fortepiano del maestro Stefano Gibellato, resta il cast, che si regge sulle voci gravi. Più di tutti è piaciuto il Tarabotto del baritono Omar Montanari, disinvolto, bene in parte, vocalmente affidabilissimo. Il Batone del secondo baritono, Filippo Fontana, possiede buone doti, ma, nel ruolo che fu del grande basso Filippo Galli, mostra di doversi ancora impadronire del segreto, fatto di scioltezza e varietà di colori, del fraseggio rossiniano. Appropriata la caratterizzazione che di Ormondo dà Marco Filippo Romano, ancora un baritono.
Meno bene andiamo con le voci acute. La fresca e simpatica Isabella del soprano Marina Bucciarelli offre una bella emissione pulita, dizione nitida, timbro carezzevole, appropriata linea di canto senza forzature; ma quando la voce sale incominciano i problemi. E’ urgente un’approfondita messa a punto del registro acuto, che l’artista potrà fare con profitto vista che si perfeziona con una certa Mariella Devia...Sistemato questo problema, le si potranno aprire interessanti prospettive di carriera, perché le doti non mancano. Del tenore spagnolo David Ferri Durà, che interpreta il Duca Bertrando, basti dire che è risultata evidente la sua inadeguatezza alla parte. C’è solo da chiedersi se non era proprio possibile trovare un giovane tenore italiano in grado di essere un Bertrando appena un po’ più attendibile, offrendo così ad un artista promettente di casa nostra la possibilità di presentarsi su di una piazza importante e di fare esperienza.
Alla domenicale cui si riferiscono queste note successo tiepidino, non in grado di compensare il freddo pungente che ha accolto i non tantissimi spettatori al termine della recita.
Adolfo Andrighetti
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