Alla Fenice in scena il gelo dei sentimenti
L’autore di questa operazione è il filosofo Don Alfonso, che propone ai suoi amici Ferrando e Guglielmo di corteggiare sotto mentite spoglie l’uno la fidanzata dell’altro, per dimostrare il suo teorema e cioè che la fedeltà in amore non esiste e cercarla è da sciocchi; lo stabilisce la natura, uno dei più cogenti miti illuministici, e quindi non resta che accettare la realtà con sereno distacco, rinunciando a idealizzarla.
Ciò che ha in animo Don Alfonso, stufo di sentire Ferrando e Guglielmo tubare le lodi delle rispettive fidanzate, è un esperimento vero e proprio, il cui presupposto filosofico è la riduzione dell’essere umano alla materialità e all’istinto; elementi, questi ultimi, che negli uomini vengono moderati dalla ragione, mentre nelle donne, esseri uterini, sono liberi di sbrigliarsi secondo l’umore e la situazione. E, in effetti, il titolo dell’opera è “Così fan tutte”, cioè tutte le donne, che, nell’epoca dei lumi, sono considerate il lato oscuro, irrazionale, dell’umanità; tant’è vero che, nell’opera programmaticamente illuministica e massonica di Mozart, “Il flauto magico”, il principio della luce e della saggezza è identificato nella maschilità di Sarastro, che ha come simbolo il sole fonte della vita, cui si contrappone il principio del sentimento e dell’emotività, identificato nella femminilità di Astrifiammante, il cui simbolo è la luna, per antonomasia astro notturno e misterioso.
Comunque sia, per dimostrare che così fan tutte, Don Alfonso mette ripetutamente alla prova le due coppie, per poi osservare, con sovrano senso di superiorità ed una punta di disprezzo, come reagiscono agli stimoli. Non diversamente l’entomologo piazza di fronte all’insetto un ostacolo per vedere se lo scavalcherà, lo aggirerà o tornerà indietro.
L’amoralità filosofica, da perfetto intellettuale illuminista, di Don Alfonso, è completata da quella pratica di Despina, la servetta delle due sorelle, che integra con le proprie lezioni di vita vissuta quelle impartite da Don Alfonso, qualora fossero troppo astratte. Despina, infatti, esorta le due ragazze a comportarsi come lei, cioè a prendere atto lucidamente che l’orizzonte umano si esaurisce nell’eterna giostra dell’attrazione sessuale, dalla quale è sbagliato difendersi, perché si andrebbe contro natura. Meglio è partecipare al divertimento sino in fondo e senza rimorsi.
Ovviamente tutto si svolgerà secondo il piano di Don Alfonso: le due sorelle si innamoreranno l’una del fidanzato dell’altra, ignorandone, almeno in apparenza, la reale identità; quindi, svelato il gioco, le coppie originali si ricomporranno o tenteranno di farlo e, con il trionfo della teoria di Don Alfonso, si celebrerà quello della fine dei sentimenti. E’ un invito alla rassegnazione o alla saggia accettazione di come siamo fatti? Chi vuole risponda, ma certo è che la risata finale, incoraggiata dal filosofo, suona un po’ sinistra sulla sua bocca e amarognola su quelle dei quattro giovani.
Lo spettacolo che è andato in scena in questi giorni alla Fenice (regia Damiano Michieletto, scene Paolo Fantin, costumi Carla Teti, luci Fabio Barettin), che completa la trilogia Mozart – Da Ponte incominciata con “Don Giovanni” e proseguita con “Le nozze di Figaro”, coglie come meglio non si potrebbe il gelo dei sentimenti che trasuda da “Così fan tutte”, elevando un piccolo, geniale monumento all’indifferenza umana e morale.
La vicenda è ambientata nei vari ambienti (la hall, il bar, la zona antistante l’ascensore, la camera da letto), offerti allo sguardo dello spettatore da una scenografia girevole, di uno di quegli hotel che chi viaggia conosce bene: tanto moderni quanto freddi ed anonimi, ove la gente passa e va senza lasciare ricordo di sé e i rapporti umani sembrano congelati in partenza secondo formule stereotipate, in cui dominano la fretta, gli atteggiamenti sbrigativi ed efficienti, la seduzione di plastica.
Il re di questo fatuo mondo à la page (a proposito, semplicemente perfetti gli abiti disegnati da Carla Teti) è il direttore dell’hotel, Don Alfonso: un individuo sgradevole e ambiguo, facile al bicchiere e al palpeggio delle cameriere, compiaciuto osservatore delle difficoltà altrui con il condimento di un pizzico di sadismo. Il basso Andrea Concetti ne fa una caratterizzazione di viscida efficacia, riuscendo a suscitare un disgusto quasi fisico in chi guarda. La voce, poi, di timbro e volume adeguati, ben emessa e controllata, gli fornisce il sostegno necessario per un’interpretazione di acre incisività.
Attorno a lui, burattini che si accasciano o si rizzano gesticolando a seconda di come il puparo muove i fili, si agitano gli altri: tutti e quattro giovani e bellocci, ma storditi, superficiali, privi di consistenza umana e morale; quindi destinati a scherzare con il fuoco per poi scottarsi, a giocare con i sentimenti propri ed altrui fino a straziare e a straziarsi, accorgendosi solo quando è troppo tardi che stanno gettando alle ortiche quel poco di buono che c’è nelle loro vite: l’amore che li lega ai rispettivi partners, piccolo, rachitico se si vuole, ma pur sempre qualcosa di buono, di vero.
E il finale dell’opera viene presentato come la degna apoteosi di questo gioco al massacro. Ha voglia un Don Alfonso ormai barcollante a causa dei troppi drinks tracannati per annegare la disperazione, di reiterare i suoi saggi inviti all’accettazione reciproca, condizione necessaria per raggiungere la tanto sospirata ed utopistica “bella pace”: le sue esortazioni all’alcool etilico cadono inesorabilmente nel vuoto, perché nessuno si fida più di nessuno, tutti si spingono e si strattonano sfogando la rabbia repressa. A parte restano Despina e lo stesso Don Alfonso: la prima, cameriera di piano volgarotta e disinibita (efficacissima eppure mai sopra le righe la caratterizzazione che ne dà il soprano Caterina Di Tonno, vocalmente non entusiasmante ma adeguata), a rimuginare il rimorso per aver fatto scoppiare due coppie fragili ma non peggiori della media; il secondo, stordito dall’alcool, a osservare attonito la piega imprevista che ha preso il suo istruttivo giochino.
E’ quasi scontato osservare che Michieletto muove i personaggi come il dio stesso del palcoscenico, impegnandoli in una recitazione fitta, continua, ove non un gesto è lasciato al caso, non un momento teatrale è sprecato. Tutti si muovono con una naturalezza ed una spontaneità ammirevoli, tutti danno una caratterizzazione felicissima del personaggio che incarnano, si alzano, si siedono, gesticolano, si sdraiano, si accarezzano, si baciano, si spingono...E tutto ciò senza frenesia ma nello stesso tempo senza pause e momenti morti; come in una di quelle commedie cinematografiche USA dai tempi perfetti, ove l’umorismo si mescola al fiele e, alla fine, nonostante il divertimento, resta in bocca allo spettatore un retrogusto amarognolo.
Mentre si comportano come degli attori consumati, gli interpreti dovrebbero anche cantare ed in effetti lo fanno, magari con esiti talvolta perfettibili ma sempre con una professionalità ed una diligenza ammirevoli. Nel quartetto composto dalle due coppie sderenate emerge la vocalità sicura, robusta e ben tornita del Guglielmo impersonato dal baritono austriaco Markus Werba, ormai una presenza costante e sempre gradita alla Fenice, che, grazie anche ad una caratterizzazione gustosa e credibilissima, relega in secondo piano il Ferrando del tenore USA Marlin Miller. Questi, quasi intimidito dalla sensazione di non poter sbrigare la parte con la necessaria sicurezza, sembra giocare in difesa e non riesce a dare il meglio di sé, pur cavandosela sempre grazie alla preparazione ed alla professionalità ben note al pubblico veneziano.
Le due ragazze, entrambe deliziose ed ammirevoli per la sicurezza e la naturalezza con cui incarnano i rispettivi personaggi dando corpo a tutte le sfumature psicologiche della femminilità, forniscono un rendimento vocale differente. Il biondo soprano svedese Maria Bengtsson possiede mezzi interessanti e timbro luminoso, ma emissione non sempre controllata soprattutto nel gioco delle dinamiche, che si alternano fra forte e piano in maniera troppo brusca. Il mezzosoprano Josè Maria Lo Monaco, perfettamente assortita con la collega perché più piccola di statura e mora come la sua origine catanese richiede, è una Dorabella dalla emissione più rotonda ed omogenea, ma dal fraseggio più uniforme.
Anche l’interpretazione che il maestro Antonello Manacorda, già apprezzato alla Fenice nelle altre due opere della trilogia dapontiana, fornisce insieme all’orchestra del Teatro, risulta del tutto coerente con la concezione aspra, cattiva, che Michieletto ha di “Così fan tutte”. L’esecuzione, infatti, come si evidenzia, per esempio, anche nel sublime terzetto “Soave sia il vento”, risulta asciutta, lontana da ogni compiacimento edonistico nella creazione del suono; una esecuzione, quindi, che trova la sua dimensione nella ricerca della logica interna alla partitura e nella attitudine a cogliere il nocciolo del dramma. Bene il coro del Teatro, preparato da Claudio Marino Moretti.
Queste note si riferiscono ad una domenicale fuori abbonamento, alla quale si è registrato un successo molto caldo per tutti.
Adolfo Andrighetti
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