Fenice: quanta polvere su “L’Opera da tre soldi”!
Ce n’è una per così dire culturale, che si propone come bersaglio l’opera seria di stile italiano, di cui Gay cerca di mettere in ridicolo i deliziosi difetti (il divismo dei cantanti, l’inverosimiglianza delle situazioni...), senza capire che proprio in tali difetti risiede una parte importante del suo fascino. Inoltre Gay, con uno sberleffo questo sì dissacrante, sostituisce l’ambientazione da nobile arcadia classicheggiante tipica del melodramma italiano e i suoi personaggi di elevati sentimenti, con i bassifondi di Londra e un parterre di mendicanti, farabutti e prostitute. Ma, mescolata a quella culturale, c’è anche una satira sociale, genere allora largamente praticato anche da letterati come Pope e Swift. La messa in scena della società degli esclusi diventa così il pretesto per sbeffeggiare quella degli onesti e benestanti.
La provocazione di Gay ha resistito all’usura del tempo e dal 1728, attraverso esattamente due secoli, è giunta fino al 1928, quando è stata aggiornata ma anche sostanzialmente rispettata da Bertolt Brecht e Kurt Weill, gli autori de “L’opera da tre soldi”.
I due, l’uno letterato e l’altro musicista, sono accomunati dalla stessa visione sociale e politica di ispirazione marxista. Nei fermenti culturali ed artistici, fra espressionismo e luci dei cabaret, che animano la Berlino della repubblica di Weimar, trovano lo stimolo ideale per proporsi provocatoriamente alla società dell’epoca. Colgono al volo gli spunti di critica al sistema di vita e di valori tradizionali che la settecentesca Beggar’s opera offre; e ne elaborano una versione aggiornata, appunto “L’opera da tre soldi”, data per la prima volta a Berlino nel 1928 con straordinario successo.
L’intento dei due sodali non è tanto quello di scandalizzare i benpensanti con la volgarità del linguaggio e l’immoralità delle situazioni; quanto, piuttosto, di farli specchiare in personaggi che, pur espressione della feccia della società, replicano, ovviamente esasperandoli ed amplificandoli, vizi e difetti di coloro che sono andati a guardarli a teatro. Vedete, sembrano insinuare Brecht e Weill all’orecchio dei bravi borghesi dell’epoca: quell’umanità marcia, depravata, rassegnata al male, siamo noi, siamo tutti noi; quella repellente corte dei miracoli non è diversa dalla buona società borghese e le piaghe che mostra, quelle morali si intende, sono le nostre.
Ma l’intento provocatorio di Brecht e Weill prende anche una direzione artistico-culturale, nel tentativo di proporre un nuovo modello di opera aperta ad un pubblico vasto, espressione delle tensioni che fermentano nella società (e ad una sorta di “prezzo politico” del biglietto d’ingresso alludono i “tre soldi” del titolo). Una nuova opera tedesca, soprattutto, in aperto contrasto con quella consacrata ufficialmente quale sublime espressione del genio germanico, cioè la wagneriana, con i suoi personaggi emergenti dalle nebbie del mito, il periodare arcano ricco di allitterazioni, le sonorità interminabili ed avvolgenti che ipnotizzano lo spettatore anziché stimolarne la riflessione critica. Secondo Brecht e Weill, insomma, occorre qualcosa di più fresco, di più scanzonato, di meno accademico. Di qui la scelta dello stile della musica leggera, con le canzoni che inframmezzano il testo parlato, il ricorso a modelli espressivi tipici del cabaret, l’abbandono delle voci impostate, l’utilizzo di ritmi di danza allora in voga come il fox-trot, il valzer, il tango: perché basta, Wagner è superato, va proposto un linguaggio musicale e teatrale in grado di esprimere la sensibilità comune.
Il fatto è che la provocazione di Brecht e Weill, nel passare dalla Berlino del 1928 alla Venezia dei giorni nostri, dove è stata messa in scena alla Fenice nell’allestimento del Teatro Stabile di Napoli e di Napoli Teatro Festival Italia, sembra aver smarrito per strada gran parte della propria carica trasgressiva. Del resto anche all’epoca della prima, in un contesto storico e culturale ben più reattivo dell’attuale, “L’opera da tre soldi” non graffiò com’era nelle intenzioni degli autori, che si aspettavano la reazione indignata dei borghesi e la corsa al botteghino dei lavoratori delle fabbriche. Invece non accadde né l’una né l’altra cosa: il pubblico benestante non si sentì affatto offeso dalla proposta e le decretò un successo trionfale, mentre il popolo, che ovviamente aveva altro cui pensare, non venne in alcun modo coinvolto. Come si direbbe con un linguaggio sessantottino: il “sistema” aveva fagocitato e metabolizzato una trasgressione troppo programmatica, troppo studiata a tavolino, per poter essere veramente destabilizzante.
Per venire all’oggi, il pubblico dell’opera avverte la musica di Weill, programmaticamente povera e volgarotta per accontentare il semplice orecchio popolare e non cadere nelle pompe del wagnerismo, come mediocre ed insignificante ai limiti della sopportazione. C’è ben poco o forse nulla che possa appagare, emozionare, trascinare, per cui, nonostante l’apprezzabile impegno del maestro Francesco Lanzillotta sul podio e dell’orchestra della Fenice, l’ascolto si accompagna ad un educato senso di tedio.
I dialoghi, poi, che non avevano impressionato nel 1928, tanto meno lo fanno adesso, quando siamo impermeabilizzati ad ogni tipo di trasgressione e ce la scuotiamo di dosso con una scettica scrollata di spalle. Le battute, dunque, non fanno male, non incidono, non feriscono. Si segue lo svolgersi della vicenda quasi fosse un cartone animato per adulti, cercando di divertirsi (e non riuscendoci) alle disavventure di personaggi che sono delle maschere e ripetono se stessi secondo cliché standardizzati.
La regia di Luca De Fusco calca forte sul pedale del grottesco, imponendo una recitazione costantemente sopra le righe che alla lunga può risultare monocorde, anche se la scelta di modelli teatrali ispirati all’espressionismo tedesco dell’epoca appare corretta sul piano culturale. Il riferimento al mondo stereotipato e convenzionale della televisione, che avrebbe potuto rappresentare una novità interessante e giustificare la presenza in scena di “maschere e non volti”, come ben scrive De Fusco nel programma di sala, si fa evidente solo nel lieto fine conclusivo; un’intuizione valida, dunque, ma perseguita troppo timidamente.
L’allestimento (scene di Fabrizio Plessi, costumi di Giuseppe Crisolini Malatesta, coreografie di Alessandro Panzavolta, luci di Maurizio Fabretti) sceglie la strada di un raffinato e suggestivo bianco e nero, proponendo l’atmosfera di un film neorealista ambientato nell’immediato dopoguerra. A chiudere la scena, un muro sbrecciato le cui numerose aperture sono utilizzate per far apparire scritte o fantasiose immagini virtuali; al centro del palcoscenico, una massa di rifiuti e masserizie, a simboleggiare un disordine che da morale si fa anche materiale. Questa impostazione, però, non si sposa con la scelta registica di esasperare la componente grottesca, quindi non realistica, della pièce; e, soprattutto, non riesce a vivacizzare e a rendere sufficientemente stimolante per lo spettatore di oggi “L’opera da tre soldi”, che sembra tratta da un museo delle tendenze culturali ed artistiche del novecento e pronta a ritornarci non appena abbassato il sipario.
Tutti bravi gli interpreti, anche nel canto, nonostante un’amplificazione che è sembrata leggermente ma manifestamente sovraesposta. Massimo Ranieri conferma le sue ben note e sperimentate doti teatrali soprattutto nella scena dell’impiccagione, dove, la voce strozzata per il cappio già posto intorno al collo e pronto a stringersi da un momento all’altro, abbandona la maschera da guitto idealmente rivestita fino a quel momento donandoci un momento di dolente umanità e di elevato livello artistico.
Lina Sastri è una signora del marciapiede, una Jenny delle Spelonche dignitosa e severa, di gran classe. Vivacissima e vocalmente dotata la Polly Peachum di Gaia Aprea. Senza l’ombra di una sbavatura il Geremia Peachum di Ugo Maria Morosi. Bravi, veramente bravi, anche gli altri.
Adolfo Andrighetti