La pecora alpagota
Risale infatti almeno al decimo secolo la presenza di questo importante animale nelle vallate dell’Alpago, digradanti verso il lago di Santa Croce, in provincia di Belluno, e confinanti con il più noto Cansiglio. Come quest’ultimo, anche l’Alpago fu oggetto di speciale protezione nei secoli, in particolare da parte della Repubblica Serenissima, comportando un isolamento di uomini e animali tale che oggi si può parlare con certezza di razza autoctona.
“L’allevamento della pecora alpagota fu per secoli uno dei principali motivi di sostentamento nell’economia di queste valli, anche per la grande resistenza di questo animale sia alle malattie che al freddo invernale e alla siccità estiva”, spiega Alessandro Fullin, agronomo nonché allevatore di circa 300 capi. La scomparsa della pastorizia nel secondo Novecento aveva però confinato i pochi animali rimasti alla cura di qualche famiglia, che li allevava per consumo personale e, forse, anche per tradizione.
Valorizzata da qualche anno come presidio Slow Food, la pecora alpagota è oggi tornata al centro di una filiera piccola ma di grande interesse, che punta nella quasi totalità sulla carne degli agnelli da latte. “Il ritorno della pastorizia – continua Fullin – sta portando anche al recupero di territori che di per se sono molto fragili. Abbandonati da decenni, sono stati lasciati all’invasione del bosco, che ha rovinato secolari opere dell’uomo per la canalizzazione delle acque appesantendo i terreni e causando nuovi smottamenti”.
A riunire i principali produttori della pecora alpagota, una quindicina, è la cooperativa Fardjma, grazie alla quale oggi si contano circa 2500 capi con la prospettiva di giungere, entro pochi anni, alla soglia dei tremila. Rigido è il disciplinare sottoscritto dai soci di Fardjma - tra i quali non stupisce di ritrovare alcuni giovani entusiasti - a partire dall’alimentazione naturale garantita dall’allevamento allo stato brado nei pascoli, tranne nei mesi invernali, quando al fieno prodotto in loco viene aggiunto poco sfarinato di cereali.
Ben definite sono le caratteristiche della pecora d’Alpago: pelo bianchissimo, maculato solo sul muso, e dimensioni medio-piccole, tra i 45 e i 55 chilogrammi (una ventina di più per i montoni). Qualità che finora l’hanno resa poco appetibile per lo sfruttamento economico fuori dal territorio d’origine ma hanno contribuito a preservarla. Il basso rapporto grasso-magro e il sapore delicato, mai “selvatico”, delle carni tenerissime sono stati invece una piacevole scoperta per i buongustai: circa il 90 % degli agnelli da latte viene perciò destinato all’alimentazione, con macellazione tra i due e i tre mesi di vita.
Il mercato tocca vette di richieste nel periodo pasquale, ma ormai l’agnello d’Alpago – anche grazie a Slow Food - trova posto con continuità nei menù di ristoranti sia bellunesi che della pianura veneta e lo si può trovare persino al parigino Mori. Viene abbinato a piatti poveri della tradizione locale, come le zuppe e la polenta, ma unito alla carne di maiale dà vita anche a salumi. Quanto ai vini, da tempo è proposto in abbinata ai Doc Raboso del Piave.
Non solo carni, tuttavia: “Il latte prodotto da questi animali non è molto, ma sta comunque iniziando a dare vita a una piccola produzione di formaggi di alta qualità, anche mischiato al latte vaccino”, spiega Paolo Casagrande, presidente della sezione veneta dell’Anpa, Associazione nazionale produttori agricoli, anima della cooperativa e a sua volta allevatore. “Anche la lana recuperata dalla tosatura primaverile – continua Casagrande - pur se non può competere con filati più pregiati, ha trovato impiego nella produzione di accessori di abbigliamento come cappelli e pantofole, ma anche coperte”.
Emanuele Cenghiaro
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