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Alla Fenice, Bellini fra sci di legno e racchette da neve

26/04/2012
“La sonnambula” di Vincenzo Bellini, che trionfò al Teatro Carcano di Milano il 6 marzo 1831 grazie anche al libretto del maggior poeta teatrale del romanticismo italiano cioè Felice Romani, è un delizioso idillio montano pervaso da qualche sottile inquietudine. L’ambientazione fa tenerezza e allarga il cuore: un villaggio svizzero spirante serenità e pace, ove due giovani si conoscono, si amano e vogliono sposarsi. Ci sarebbe il rischio di scivolare nella banalità del quadretto di genere, della cartolina illustrata; ma l’invenzione musicale di Bellini, che non conosce momenti di stanchezza, il suo canto terso e insieme cordiale, le sue melodie carezzevoli, sognanti eppure altamente espressive, sfuggono il rischio del sentimentalismo sdolcinato, collocando la vicenda in una dimensione trasfigurata di superiore purezza, arricchita anche da una sottile vena nostalgica.

Naturalmente fra la promessa di matrimonio che si scambiano Elvino e Amina ed il lieto fine, in cui tutto il paese si unisce alla gioia dei due fidanzati, succede qualcosa: un brivido di ignoto, un affacciarsi sul mistero, che può far vacillare le sicurezze acquisite.

Il mistero è modesto, a dir la verità, ma sufficiente a turbare la pace della piccola comunità agreste: il sonnambulismo, metafora di quelle forze ignote ed oscure che possono far perdere il controllo della propria vita e gettare le persone in situazioni tanto pericolose quanto indesiderate. Così capita ad Amina, che, in stato di sonnambulismo, è colta in camicia da notte nella stanza da letto del Conte Rodolfo, il signorotto locale. E’ quindi accusata di immoralità alla vigilia delle nozze e viene abbandonata dal fidanzato. Senza scomodare Freud, si può anche immaginare che la perdita momentanea del controllo razionale che usualmente si esercita sui propri stati d’animo e sulle proprie azioni, conduca Amina là dove il desiderio inconscio la porta, cioè fra le braccia del Conte Rodolfo, spinta da un erotismo altrimenti sublimato e rimosso.

E’ così, non è così? “La sonnambula”, con il suo profumo così fragrante e domestico, in fondo è una favola. Ma è pur vero che le favole rappresentano, in forma elementare ma fortemente simbolica, ciò che l’uomo è, nel bene e nel male. Si può quindi riconoscere che l’opera di Bellini racconti di come ogni essere umano, anche il più sereno ed equilibrato, nasconda un lato oscuro, un inquietante elemento irrazionale e forse anche autodistruttivo, che però, se conosciuto e guardato con pacata accettazione come fanno i paesani di Amina quando vengono informati di cos’è il sonnambulismo, non fa più paura e perde gran parte della propria energia negativa.

La componente inconscia, psicologicamente notturna de “La sonnambula”, è assente nello spettacolo, simpaticamente disinvolto, presentato alla Fenice per la regia di Bepi Morassi, le scene di Massimo Chechetto, i costumi di Carlos Tieppo, le luci di Vilmo Furian; così come non è particolarmente sottolineata neppure la corda sentimentale, mentre molto si punta sui toni brillanti della commedia.

L’allestimento, ambientato in un Grand Hotel fra le Alpi svizzere intorno agli anni trenta del secolo scorso, diverte con il solarium aperto verso le cime innevate, il Conte Rodolfo che esce sulla scena a bordo di una sgargiante funivia rossa, il pullman d’epoca anch’esso rosso salutato dagli applausi del pubblico, i contadini del villaggio trasformati in una folla di sciatori con i pantaloni alla zuava e vecchi sci di legno oppure negli eleganti clienti dell’albergo. Peraltro la regia appare più interessata alle scene di massa, godibili e molto accurate anche se appesantite da un eccesso di sottoscene di genere, che ai momenti in cui sono in primo piano le passioni individuali, ove dovrebbe prevalere l’approfondimento psicologico e drammatico dei personaggi e delle situazioni.

La parte musicale dello spettacolo è affidata al maestro Gabriele Ferro, la cui esperienza e perizia nel repertorio del primo romanticismo italiano è ben nota e fuori discussione. Ferro valorizza il lirismo ingenuo ed estatico della partitura, prediligendo sonorità delicate, trasparenti e tinte pastello, in ciò assecondato con bravura e dedizione dall’orchestra e dall’eccellente coro del Teatro, guidato da Claudio Marino Moretti.

Nel cast emerge l’Amina del giovane soprano australiano Jessica Pratt, già applaudita l’anno scorso alla Fenice in “Lucia di Lammermoor”. L’artista appare sempre più padrona dello stile interpretativo del primo ottocento italiano, ove la bellezza dell’involo melodico deve sposarsi alla disinvoltura nelle agilità, la dizione precisa al legato, l’accento patetico a quello brillante, l’omogeneità in tutta la gamma ad una zona acuta sicura e penetrante. Tutto questo dovizioso bagaglio tecnico è ormai sotto controllo da parte della Pratt, che si è fatta apprezzare, più ancora che per le doti naturali dello strumento o per la correttezza dell’impostazione, proprio per la pertinenza del fraseggio e dell’accento, sempre improntati a quello stile di canto che deve essere insieme pudico ed eloquente, trattenuto e passionale, comunque sostenuto da una tecnica impeccabile.

Accanto a lei, l’Elvino del tenore georgiano Shalva Mukeria, anch’egli già apprezzato nella Lucia della scorsa stagione, conferma i pregi di una corretta linea di canto, di un timbro angelicato particolarmente adatto agli eroi di questo repertorio, di una zona acuta squillante e timbratissima. Nello stesso tempo, però, il fraseggio tende di tanto in tanto a farsi inerte e monotono, specie quando (v. per es. “Non è questa ingrato core” nel I atto e “Ah perché non posso odiarti” nel II) sarebbe necessario un accento più nervoso e mordente.

Il Conte Rodolfo del basso genovese Giovanni Battista Parodi si mette in evidenza per il bel colore brunito e il timbro pastoso. Gli manca forse quel tocco di divertita nonchalance, di ironico distacco, che completerebbe il personaggio, presentandolo, qual è veramente, come l’uomo di mondo che sorride con indulgenza ma anche con un malcelato senso di superiorità per avvenimenti che possono stupire solo dei paesanotti sprovveduti.

La Lisa del soprano friulano Anna Viola appare insufficiente rispetto alle esigenze di un ruolo da coprotagonista, cui è assegnata una fondamentale funzione drammatica e una significativa presenza musicale. Modesto anche l’Alessio del baritono Dario Ciotoli. Un notaro è il baritono Emanuele Pedrini, artista del Coro del Teatro.

La rappresentazione serale cui si riferiscono queste note è stata accolta da un successo unanime ma piuttosto tiepido. Ed è stata preceduta da un minuto di silenzio osservato in memoria del tenore Veriano Luchetti, molto attivo alla Fenice e scomparso nei giorni scorsi. Di lui, fra i vari ricordi riguardanti prestazioni artistiche di alto livello, ne conservo uno particolarmente simpatico, riferito ad un episodio che credo lo farà ancora sorridere lassù dove ora si trova.

Alla Fenice Luchetti era Romeo nei “Capuleti e Montecchi” di Bellini, quando ancora questo ruolo veniva affidato ad un tenore e non ad un mezzosoprano “en travestì” come oggi. Giulietta era una Katia Ricciarelli all’apice della forma vocale e della carriera. Ebbene, l’eccellente Luchetti, artista versatile come pochi e di carriera internazionale, aveva dato sin dall’inizio dell’opera dei segni di disagio, dovuti evidentemente ad una cattiva forma fisica. Ad un certo momento del primo atto Lorenzo, impersonato dal baritono Walter Monachesi, entra in scena rivolgendosi (“Deh per pietà t’arresta ecc.”) ad un Romeo che avrebbe dovuto essere presente sul palcoscenico e che invece, forse per un suo momento di nervosismo o per un occasionale fraintendimento con i responsabili dello spettacolo, in palcoscenico non c’era. Immaginabile lo sconcerto del baritono, rimasto a braccia spalancate ad accogliere un tenore che invece era rimasto dietro le quinte e che si ripresenterà dopo qualche minuto, ma solo per concludere in qualche modo l’atto ed essere sostituito nel secondo.

Un episodio gustoso e simpatico, di quelli che alimentano la sterminata aneddotica del teatro d’opera; un modo affettuoso di ricordare un artista di grande livello e consegnarlo alla memoria di chi, come tutti gli appassionati, gli ha voluto bene per le emozioni che ha saputo trasmettere e la bellezza di cui è stato ambasciatore in un repertorio vastissimo e presso i pubblici di tutto il mondo.

Adolfo Andrighetti

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