Malibran: tanto sesso, siamo inglesi
Infatti, se si rimane alla superficie vivace e chiassosa di un’esistenza condotta sempre sopra le righe, si rischia di dimenticare che si sta parlando non di un personaggio da soap opera, ma di una donna vera, che ebbe tre figli dal primo matrimonio e che subì un grave incidente che può forse spiegare la sua leggendaria voracità sessuale. Intorno ai trent’anni, infatti, precipitò per una decina di metri nel vano ascensore, procurandosi la frattura del cranio e cavandosela per miracolo con la perdita del gusto e dell’olfatto. Sembra che proprio da quel momento i suoi istinti incominciassero a diventare incontrollabili. E c’è da chiedersi fino a che punto Margaret fosse realmente soddisfatta del suo attivismo alla Monica Lewinsky e fino a che punto, invece, subisse le conseguenze di un incidente che la condannava ad una sessualità compulsiva e degradante perché praticata senza sottilizzare troppo sui partners; una sessualità che, fra l’altro, la costrinse ad affrontare un umiliante processo dalla vasta eco mediatica intentato dal suo secondo marito, il duca di Argyll, il quale non ebbe remore a rendere pubbliche foto imbarazzanti della consorte, colta, come si suole dire, in flagrante adulterio.
Non va dimenticato, inoltre, che Margaret, come spesso capita alle donne e agli uomini che vivono la libertà sfrenatamente, concluse la vita nella solitudine e nella miseria. Non per compiangerla o per fare del facile moralismo; ma solo per ricordare che i lustrini di una vita brillante o le situazioni da barzelletta nascondono comunque un essere umano, che merita la pietas dei suoi simili e la cui parabola esistenziale è certamente più complessa di quanto potrebbe apparire.
Questa la realtà. Nella finzione teatrale, poi, questo personaggio così appariscente e insieme così patetico è diventato il protagonista di un’operina del compositore inglese Thomas Adès, all’epoca appena ventiquattrenne. Un’operina dove sesso ed erotismo tracimano da tutte le parti ed impregnano l’atmosfera. Allora fece scandalo, nella Gran Bretagna ancora puritana del 1995. Già il titolo è tutto un programma: “Powder her face”, cioè “Incipriale il viso”, con le diverse interpretazioni che sono state date sulla natura, anche fisiologica, di quella cipria; e poi c’è la scena della fellatio cui la Duchessa sottopone il cameriere dell’albergo, da ricordare non tanto perché particolarmente osé, ma soprattutto per l’abilità tecnica e l’impagabile ironia con cui canto e musica accompagnano tutte le fasi dell’operazione fino alla fine.
Già, la musica. Quella composta da Adés per quest’opera è fatua e sfiziosa insieme. Suggestioni eterogenee vengono mescolate insieme e danno vita ad un caleidoscopio sonoro che, grazie anche alla ricercata orchestrazione, non manca di momenti accattivanti. Sorprendono, per esempio, certi temi che sembrano tratti da un anomalo ma piacevole Cole Porter atonale. Insomma, si ascolta, un po’ ci si diverte e un po’ ci si annoia, soprattutto perché il declamato dei cantanti è alquanto monotono.
Il libretto di Philip Hensher presenta una struttura circolare, scandita per fasi successive, della vita della protagonista. Si incomincia nel 1990, nella camera d’albergo ancora occupata dalla Duchessa, che cerca di rimanere disperatamente sulla breccia nonostante i segni eloquenti di un declino inarrestabile, dovuto al tracollo economico prima ancora che all’età. Poi, attraverso una serie di flash back che partono dal 1934, si torna al 1990, alla stessa stanza d’albergo dell’inizio, dalla quale la Duchessa viene cacciata per morosità cronica.
Pierluigi Pizzi impacchetta la vicenda in una elegante confezione regalo. La scena fissa rappresenta una camera d’albergo con pretese di lusso, sgargiante di colori che vanno dal rosso al rosa. All’interno di questa cornice spudoratamente appariscente e insieme fasulla come la camera da letto di una bambola o un bordello d’alto bordo, matura il dramma di Margaret. Prima infantile ed irresponsabile, nel suo muoversi come una falena sbatacchiata qua e là da un piacere all’altro, quasi innocente nella sua libidine vissuta senza difese e senza pudori; poi patetica nella decadenza, di cui non sa darsi una ragione e che non è solo sua personale, ma di tutto un mondo di cui era regina incontrastata, dove “i domestici sapevano quando ritirarsi. Non restavano mai quando non erano desiderati”. Ma, finito quel mondo, ove le classi sociali erano ben distinte ed ognuna stava al proprio posto, ove i nobili non si ritenevano vincolati dalle regole morali della borghesia, anche la Duchessa deve andarsene, come una diva che ha concluso la parte ed abbandona il palcoscenico: ancora inconsapevole, ancora stordita, ancora, in fondo, innocente come una bimba viziata.
Ed è memorabile la sua uscita di scena dopo che il direttore dell’hotel l’ha cacciata, vestita di nero come una vedova a solennizzare il lutto della fine di una vita e di un mondo, ma anche con l’alterigia vagamente sprezzante della primadonna che fino a quel momento ha dominato la scena e sa che dopo di lei nessuna sarà più come lei. E intanto risuona dalla buca un tango di Piazzolla, con le sue note intrise di dramma e passione ma anche di esibita teatralità.
Va dato atto a Pizzi, dunque, di aver saputo costruire un personaggio credibile e non banale, sottolineando della Duchessa il suo appartenere ad una dimensione altra rispetto a quella reale; una dimensione ove anche la solitudine e la sofferenza sono vissute, al pari dell’erotismo, come una recita, senza per questo perdere la loro intensità. Ed altrettanto bravo è stato nel conferire evidenza e personalità teatrale alla corte di personaggi senz’anima e senza cervello che circondano la Duchessa, la deridono, la sfruttano, l’abbandonano. Sono tutti quelli che le hanno voluto bene perché li pagava, come la Duchessa riconosce in uno dei rari momenti in cui ha una percezione lucida e disincantata della realtà.
Trova conferma, ma non è certo una novità, anche il gusto prezioso del Pizzi costumista, che disegna, soprattutto per la protagonista, degli splendidi e curatissimi abiti anni trenta, in fondo l’epoca cui la Duchessa appartiene e alla quale si è fermata psicologicamente.
La parte musicale dello spettacolo è affidata al maestro inglese Phlip Walsh, che, insieme a quindici bravissimi musicisti dell’orchestra della Fenice, la disbriga con sicurezza, anche se le dinamiche qualche volta sono sembrate eccessive.
La Duchessa del soprano ucraino Olga Zhuravel è impeccabile sia nei momenti di erotismo, affrontati con elegante nonchalance, sia in quelli della solitudine e dell’abbandono. L’impegno vocale, indubbiamente severo, la trova sempre pronta e all’altezza. La presenza scenica è quella che deve possedere una nobildonna in cui orgoglio di classe e sfrenata passionalità hanno sempre convissuto.
Gli altri, impegnati ciascuno in più ruoli, danno prova di grande impegno ed altrettanta preparazione. Il soprano praghese Zuzana Markova è spigliata, piccante, forse fin troppo caricata nelle sue brillanti caratterizzazioni. Ma questo repertorio le calza come un guanto e le permette di valorizzare non solo l’indubbia avvenenza ma anche uno spiritaccio istrionico che la diverte e diverte gli spettatori. Sotto il profilo vocale, poi, non ha problemi: la voce fresca, smaltata, squillante, la sostiene sempre, anche nelle frequenti ascensioni all’Everest che la parte le impone. Il tenore Luca Canonici sembra aver trovato qui una completa dimensione d’artista, mostrando timbro pastoso e gradevole, presenza scenica sempre sicura ed appropriata. E’ piaciuto meno, invece, il basso di Chicago Nicholas Isherwood, che ha affrontato le indubbie difficoltà della parte con emissione ruvida ed ingolata.
Onore al merito alla Fondazione Amici della Fenice di Venezia, il cui contributo ha permesso la realizzazione dell’opera, che è stata proposta in un allestimento del Teatro Comunale di Bologna e del Teatro Rossini di Lugo di Romagna.
Alla serale fuori abbonamento cui si riferiscono queste note lo spettacolo ha riscosso un cordiale successo da parte dello scarso pubblico presente.
Adolfo Andrighetti