Torna a Venezia la Parigi di “Boheme”
Quella che viene proposta è una Parigi irreale o surreale, da libro illustrato per ragazzi, o come immaginata in un sogno. E il contrasto fra l’atmosfera vagamente onirica in cui è immersa la vicenda e il suo realismo perfino crudo si avverte, eccome, al punto da suscitare quasi una sensazione di straniamento nello spettatore, al quale sembra di essere tirato ora di qua ora di là senza capire qual è la direzione giusta: se quella del sogno ad occhi aperti, suggerita dallo spettacolo, o quella dell’esperienza di vita vissuta, proposta da musica e libretto.
Così la scena del Quartiere Latino, con la riproduzione naïve delle facciate di famosi locali parigini, i costumi sgargianti, la confusione imperante, la recitazione caricata in senso buffonesco, è piacevole, fa sorridere; ma non sembra la cornice più adatta ad accogliere le tenerezze dell’amore appena sbocciato fra Rodolfo e Mimì. Se invece piombasse lì sul più bello Dulcamara con le sue trombette ed il suo carretto delle meraviglie, non ne saremmo affatto sorpresi.
E la scena della barriera d’Enferre, con quella bella neve che, come in un presepe, scende a spruzzare di bianco le vesti delle lattaie e le divise dei doganieri, è realistica solo in apparenza, mentre è deliziosamente oleografica come l’illustrazione fuori testo di un libro per ragazzi dell’ottocento. E intanto, però, si consuma il dramma di due essere umani che, pur amandosi perdutamente, decidono di lasciarsi a primavera perché fra i due si è infilato un terzo incomodo non trascurabile: la tisi.
E le silhouette di case che chiudono la scena nell’ultimo atto e cambiano vivacemente di colore, ricordano un cartone animato; mentre la cortina luminosa che disegna i più famosi monumenti di Parigi e compare all’inizio dell’opera, quando ritorna alla fine come una cornice festosa, anzi chiassosa, sulla povera Mimì ormai trapassata, risulta singolarmente incongrua rispetto al momento teatrale.
Sia chiaro: tutto è molto simpatico, creativo e accattivante. E farà la gioia dei turisti italiani e stranieri cui questo spettacolo, che fa già parte del repertorio della Fenice, in fondo è destinato. Ma l’esercizio di fantasia, per quanto brillante, scorre un po’ per conto suo rispetto alla vicenda ed alla musica che l’accompagna; e ha il difetto aggiuntivo di imporre ai bohemièn un’agitazione ipercinetica esagerata talvolta fino ai limiti del grottesco.
La parte musicale è affidata a Daniele Callegari, che, nei primi due atti, sembra scegliere la strada della precipitazione anziché quella della vivacità, adottando spesso, per di più, dinamiche troppo sostenute. Raggiunge un maggiore equilibrio negli altri due atti, ma la sua interpretazione sembra non prendersi cura dei dettagli, preoccupandosi invece soprattutto della quadratura generale. Un’esecuzione efficiente, insomma, ma di routine, giustificabile forse con quella certa abitudinarietà che può subentrare quando si fa del teatro cosiddetto di “repertorio”.
Certo, il famigerato “repertorio”, che permette di far alzare spesso il sipario nel corso della stagione, quindi di produrre di più ottimizzando il contributo professionale delle masse e anche dei solisti e vendendo più biglietti al botteghino; il “repertorio”, a causa del quale talvolta guardiamo con sufficienza non sempre giustificata ai teatri d’opera tedeschi e del nord Europa e che inevitabilmente immette nell’attività artistica un po’ di sana, dignitosa routine. Eppure è proprio questo “repertorio” che ora contribuisce a posizionare la Fenice fra i primi tre teatri d’opera italiani per il livello della produzione e la solidità della conduzione amministrativa. Gli altri due sono, per la cronaca, il Regio di Torino e il Massimo di Palermo, mentre la Scala fa storia a sé. Ha fatto quindi benissimo l’attuale direzione della Fenice, cui dobbiamo gratitudine incondizionata per la capacità e la competenza con cui sta pilotando il teatro in un momento in cui il naufragio è facile, ad avviarsi verso una forma di conduzione artistica mista fra il teatro di “repertorio” e quello di “stagione”: una scelta oculata, che sta dando i suoi frutti.
E veniamo al cast. Il soprano USA Kristin Lewis è un’artista sensibile, che si cala con misura e insieme con partecipazione nel personaggio di Mimì, giocandolo sulla sagace alternanza fra toni raccolti, quasi pudichi, e slanci di intensa passionalità. La personalità del personaggio ne esce illuminata di una luce nuova, che ne evidenzia la femminilità delicata ma insieme vibrante di intensa sensualità. La voce, poi, sana, piena, caratterizzata nel medium da quell’impasto scuro, vellutato, corposo, che spesso contraddistingue felicemente i soprano di colore, è sempre pronta sia nel fraseggio sfumato del canto di conversazione sia nelle accensioni drammatiche, vere lame luminose nella zona acuta.
Il tenore Giuseppe Varano, Rodolfo, chiamato a sostituire l’indisposto Gianluca Terranova, è apparso a proprio agio nello spettacolo e con il resto del cast. La voce, da lirico puro con tentazioni verso lo spinto, è di bel timbro, omogenea in tutta la gamma e ben appoggiata. Qualche acuto è affrontato un po’ alla garibaldina, non perché l’artista accusi delle carenze in questa zona, quanto per un certo affaticamento che di tanto in tanto si lasciava intuire e forse anche perché bisognerebbe tenere più presente l’aurea regoletta secondo la quale gli acuti hanno più probabilità di riuscire facili e squillanti se si provvede ad alleggerire le note più gravi che li precedono. Considerato che il materiale c’è, poi, sarebbe proprio bello che il tenore provasse a cantare meno di spinta e più sul fiato.
Il Marcello del ventisettenne baritono veronese Simone Piazzola è umano e simpatico, come dovrebbe essere sempre, oltre che di notevole impatto scenico e vocale. L’artista, in effetti, custodisce in gola una dotazione di assoluto rispetto per ampiezza, potenza e rotondità. Se si esercitasse ancora un po’ nell’alleggerire l’emissione e nel cercare qualche sonorità più contenuta, più sfumata, avremmo già un Marcello completo.
E’ piaciuta la Musetta del soprano di Sassari Francesca Sassu, anche lei molto giovane come quasi tutti gli altri, classe 1984, che Dio la benedica. Ha fatto il suo spigliata il giusto e vocalmente corretta. Bene anche lo Schaunard del baritono parmigiano Armando Gabba, molto nella parte e fin troppo esagitato sul palcoscenico, e il Colline dal bell’impasto vocale del basso Gianluca Buratto. La “Zimarra”, però, è un pezzo talmente bello che richiederebbe qualcosa di più della correttezza esecutiva, come la ricerca di un fraseggio più vario ed espressivo.
A posto Benoit e Alcindoro, entrambi caratterizzati in maniera tradizionale ma con gusto e misura rispettivamente da William Corò e dal veterano Andrea Snarski.
Sempre ben preparato il coro del teatro guidato da Claudio Marino Moretti, così come i Piccoli Cantori Veneziani istruiti da Diana D’Alessio.
Alla domenicale cui si riferiscono queste note si è registrato un successo cordiale per tutti, particolarmente vivo per Kristin Lewis.
Adolfo Andrighetti
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