Fenice: una “Carmen” verista, anzi vera
Carmen, la creatura letteraria di Prosper Mérimée diventata nel 1875 la protagonista della popolarissima opera di Georges Bizet, è, al pari di Don Giovanni, un’eroina dell’individualismo, che la porta ad assecondare fino alla morte un proprio “daimon” interiore, libero e sensuale. Già al suo primo apparire in scena afferma se stessa, litigando con quella piccola collettività che è il gruppo delle sigaraie in cui lavora. Da quel momento la sua è una corsa inebriante verso il piacere e la morte, quest’ultima accettata come la logica conclusione di una vita vissuta senza calcolo, istintivamente, senza preoccuparsi del male che così ne può derivare.
Sì, perché una libertà vissuta senza limiti, come un bene assoluto da difendere strenuamente contro qualunque condizionamento esterno, è in realtà una legge ferina, una medaglia diabolica che porta su di una faccia l’esaltazione, ma sull’altra la morte. La prima vittima di Carmen è Don José: il brigadiere dei dragoni diventato disertore e contrabbandiere per amore della gitana e quindi indotto ad ucciderla, perché divorato dalla gelosia per una creatura che appartiene a troppi in quanto in realtà non è di nessuno. Ma la seconda vittima di Carmen, naturalmente, è se stessa. Carmen ama il proprio mito di creatura selvaggia e totalmente autonoma non solo più di qualunque uomo ma anche più della sua stessa vita; quella vita che deve sacrificare perché la libertà come lei la concepisce, che ignora legami e responsabilità, che conosce l’oggi ma non il domani, che è appagata solo di se stessa, è un idolo disumano, che pretende le sue vittime.
Eroina straordinaria, dunque, a suo modo, questa creatura di Bizet, vera figlia del vento. Il compositore la circonda di una musica calda e drammatica, straripante di colori, dallo strumentale ricco e cangiante, dall’invenzione melodica felicissima; una musica che riecheggia modi e ritmi di una Spagna presentata e vissuta non tanto come un Paese reale, dove infatti Bizet non si recò mai, quanto come il luogo delle passioni estreme, della sensualità affocata, dell’istinto sfrenato.
La “Carmen” vista alla Fenice è una coproduzione del Teatro veneziano con quelli di Barcellona, Palermo e Torino, per la regia di Calixto Bieito, che si è aggiudicato così l’oscar dell’opera e cioè il Premio Abbiati 2011, le scene di Alfons Flores, i costumi di Mercè Paloma, le luci di Alberto Rodriguez Vega. E’ uno spettacolo indimenticabile, forte, anche eccessivo e sopra le righe. Ma potente, urticante, che non lascia indifferenti.
Bieito, regista dall’inventiva geniale e straripante, ci propone un mondo dominato dal sesso e dalla violenza, ove ogni gesto trasuda aggressività e volgarità, ove il rapporto fra uomo e donna si riduce ad un usarsi reciproco, un sopraffarsi vicendevole ognuno con le armi di cui dispone. Ci sono i soldati, ragazzoni irresponsabili dediti a scherzi stupidamente violenti, come distruggere per puro divertimento una cabina telefonica o issare sull’asta della bandiera una povera ragazza seminuda. C’è la folla dei bambini, laceri, scalzi, ma vivacissimi, piccoli accattoni già adusi alla durezza del vivere. E ci sono i contrabbandieri, guappi dall’eleganza vistosa e dal coltello facile, con la loro corte di donnine allegre in abiti succinti.
Questo mondo, che alligna nella violenza e nel sesso come una mala pianta, è immerso in un’atmosfera da noir anni cinquanta. Si alternano scene affondate in una nebbia lattiginosa, rotta solo dai fari delle automobili oggetto dei traffici dei contrabbandieri, ad altre congelate in una luce cruda, violenta, che enfatizza ogni particolare di ciò che avviene sul palcoscenico.
E ciò che avviene sul palcoscenico è sempre straordinario, perché, al di là delle esuberanze talvolta gratuite di una regia che non conosce la medietà, masse e solisti non sono mai abbandonati a se stessi, ma, anzi, sono messi alla frusta da un lavoro continuo, meticoloso, ove la pregnanza dei gesti, degli atteggiamenti, delle espressioni, rapisce lo spettatore in un crescendo continuo di emozioni.
In questa visione Carmen è una dea carnale dell’eros e della sfrenatezza, libera figlia dei sensi che trasuda seduzione da ogni poro. Le dà corpo e voce il mezzosoprano francese Beatrice Uria Monzon, con un’interpretazione che lascia senza fiato per la capacità dell’artista di “essere” il personaggio con ogni centimetro della pelle ed ogni sfumatura della voce, incarnazione di una sensualità ferina e rovente che brucia ciò che tocca. Ed è quasi un peccato che un’artista così sensibile e ricettiva sia talvolta costretta dalla regia ad esprimere l’erotismo di Carmen in maniera fin troppo esplicita, per esempio sfilandosi gli slip rossi per sedurre Don José, laddove l’allusione potrebbe essere più provocatoria del crudo realismo.
E la voce? La voce è quella di Carmen, dalle infinite screziature di toni e colori a coprire l’intera gamma delle emozioni che possono appartenere ad una femminilità selvaggia ed istintiva, pronta ad amare e a lasciare, a godere e a soffrire, a vivere e a morire, con la stessa primordiale pienezza vitale. La voce di Beatrice Uria Monzon è quella di una donna tigre: ora si accuccia in sussurri caldi di erotismo, ora esplode nel grido di rabbia; ora accarezza, ora trafigge. Solo così può cantare Carmen.
La sua rivale, Micaëla, è immaginata dal regista non come la santarellina di una certa vieta tradizione, ma come una ragazza moderna e vivace, che sa come si seduce un uomo. La sua disinvoltura, la sua vivacità, però, non sono trasgressive; rientrano, invece, in schemi convenzionali, potremmo dire borghesi. La sessualità di Micaëla, infatti, non è una forza tellurica e primordiale come quella che sprigiona Carmen, ma l’arte femminile, in fondo semplice e domestica, della donna che vuole tenersi vicino il proprio uomo. Una dimensione misteriosa ed inquietante, quasi magica, quella di Carmen, incarnazione delle pulsioni più oscure dell’eros; una dimensione di rassicurante normalità quotidiana, pur nella gioiosa condivisione della sessualità, quella di Micaëla, come dimostrano le foto nelle quali la ragazza si ritrae insieme a Don José, destinate sicuramente ad aprire un album di famiglia che sarebbe poi dovuto continuare con le immagini del matrimonio e dei figli.
Il ventottenne soprano russo Ekaterina Bakanova è perfetta per questa lettura del personaggio, con il suo abito vistoso e un po’ volgarotto, la chioma rossa, la frizzante voglia di scherzare e sedurre nel primo atto e l’atteggiamento accorato nel terzo. La voce da lirico puro le permette un canto schietto e corposo, privo di quei bamboleggiamenti e di quelle note sbiancate, a simulare l’ingenuità virginale, cui ci ha abituato la tradizione. Il fraseggio, poi, sa piegarsi ad ogni sfumatura emotiva del personaggio, che viene così restituito ad una verità umana fino ad oggi inimmaginabile.
E gli uomini? Don José ed Escamillo, indipendentemente dai loro interpreti, fanno da spalla a Carmen, le girano intorno come attratti da un magnete irresistibile.
Il tenore Stefano Secco non possiede uno di quei timbri caldi e comunicativi che accarezzano l’orecchio, né quella scintilla nella gola che illumina le voci tenorili latine e le rende così attraenti. Ma è padrone del suo strumento e lo piega ad un fraseggio di ammirevole sensibilità e proprietà stilistica, grazie anche ad un sapiente gioco dinamico. Ne esce, complice una presenza fisica lontana da stereotipi machisti, un personaggio credibilissimo, dai contorni vaghi, incerto e quasi rassegnato anche nei momenti di ira.
Più convenzionale risulta Escamillo, un po’ perché tale è il personaggio, un po’ perché la gran voce, timbrata e di ottima grana, del basso moscovita Alexander Vinogradov, si piega malvolentieri alle modulazioni e preferisce abbandonarsi al canto spiegato. Ma da quanto tempo non si ascoltava l’aria del Toreador, vocalmente impegnativa come poche altre, così ben cantata, con tutta la gamma ben timbrata ed omogenea dai gravi fino agli acuti, la giusta sfrontatezza da “uomo che non deve chiedere mai”?
Bravi tutti gli altri, a cominciare dalle eccellenti Frasquita e Mercedes di Sonia Ciani e Chiara Fracasso, perfettamente in voce e in ruolo; per continuare con Francis Dudziak (Le Dancaïre), Rodolphe Briand (Le Remendado), Dario Ciotoli (Moralès), Matteo Ferrara (Zuniga).
L’altro grande architetto di questa Carmen, insieme al regista, è il maestro israeliano trentunenne Omer Meir Wellber. Questi, esordendo con un’ouverture furibonda nei tempi e nelle dinamiche, dà l’impressione di volersi gettare a capofitto nella partitura come in un mare in tempesta, tenendo sempre sostenuta la tensione e senza timore di accentuare i volumi sonori nella buca. Poco per volta, però, quanto di enfatico e di eccessivamente esuberante si poteva notare nella sua interpretazione, viene risolto in un ritrovato e meraviglioso equilibrio, che gli permette di raccontare la tenebrosa vicenda di passione e morte senza attenuarne l’impatto drammatico ma anche assecondando con sensibilità i diversi momenti di lirico abbandono; e sempre con sonorità di una bellezza ed ampiezza soggioganti, nonché con un’evidente attenzione al respiro del canto. Nell’insieme, un’interpretazione forse da equilibrare ma di grande personalità, che offre due atti, il terzo ed il quarto, di assoluto splendore.
Tutto ciò, ovviamente, non sarebbe stato possibile senza la piena e convinta collaborazione dell’Orchestra della Fenice, sempre più attenta ed affiatata, del Coro, diretto da Claudio Marino Moretti, impegnatissimo in palcoscenico e di straordinario impatto vocale, degli ammirevoli Piccoli Cantori Veneziani diretti da Diana D’Alessio.
Alla serale cui si riferiscono queste note, teatro praticamente pieno nonostante la concomitanza della partita di calcio Italia – Germania e successo calorosissimo per tutti, con i toni del trionfo per il maestro Omer Meir Wellber.
Adolfo Andrighetti
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