Elisir d’amore alla Fenice: canta che ti passa
Ha voglia dunque Dulcamara di confidare al pubblico che l’elisir d’amore rifilato al credulone Nemorino è bordò (sic). No; se si riferisce, come sembra scontato, al rosso, questo ha troppo corpo e troppa stoffa per poter simboleggiare la sublime levità dell’opera che vide la luce nel Teatro alla Canobbiana di Milano nel 1832. “Elisir d’amore” può essere paragonato solo ad un bianco fresco e fragrante, che sa trasmettere sensazioni semplici e insieme preziose a chi vi si accosti.
E queste sensazioni si sono ripresentate ancora una volta alla Fenice, grazie in primo luogo al trentunenne maestro israeliano Omer Meir Wellber, che sa passare con grande duttilità e con esiti sempre di alto livello dal mondo grondante passioni della “Carmen” a quello sorridente e trasognato di “Elisir”. Qui il maestro offre un’esecuzione di notevole compattezza e pienezza sonora, ricca di vitalità e di energia, non trascurando, però, di articolare con sensibilità i momenti di abbandono sentimentale, ove la vena malinconica di Donizetti distilla autentiche perle.
Il cast presenta, come l’anno scorso, due autentici mattatori come Desirée Rancatore e Celso Albelo.
Il trentacinquenne soprano palermitano è un’Adina semplicemente perfetta per la totale adesione psicologica e vocale al personaggio, che indossa come un guanto e amministra con una disinvoltura ed un brio che incantano. Dal punto di vista vocale, poi, l’artista appare giunta ad una splendida maturità, che le consente di passeggiare con nonchalance nella zona acuta e sovracuta, da sempre suo dominio assoluto, ma anche di sfoggiare un centro pieno, carnoso, rotondo, che giova molto al tratteggio di un personaggio realistico e modernamente disinvolto. Il soprano, poi, sa alternare con disinvoltura e sempre con grande efficacia il fraseggio brillante a quello patetico. L’attrice, a sua volta, è spigliata e spiritosa come si conviene; si diverte insieme al pubblico, che, completamente conquistato dall’arte e dalla simpatia di Desirée, al termine dello spettacolo le tributa una meritata ovazione.
E ovazione è stata anche per Celso Albelo, che ha gareggiato con la collega nella ricerca di un rapporto scanzonato con gli spettatori, basato sulla complicità e sul divertimento reciproco. Il suo Nemorino, in effetti, è addirittura vitalistico; non sta fermo un momento e finisce per coinvolgere tutti nel suo moto perpetuo. Ciò non impedisce al tenore di Santa Cruz de Tenerife di convincere pienamente anche dal punto di vista vocale, grazie ad un’esecuzione robusta e virile, lontana dallo zucchero che anche gradi interpreti della tradizione belcantistica versavano senza risparmio sul personaggio. La voce, poi, ha smalto prezioso e splende luminosa in zona acuta (fra l’altro, due risonanti e timbrate puntature hanno fatto la gioia di vociofili e vociomani), anche se, talvolta, si gioverebbe di un’emissione più raccolta, a cercare una maggiore morbidezza di impasto. Ma il tenore, nonostante una certa propensione al suono robusto ed alla scansione incisiva, che sembra proiettarlo verso un repertorio più spinto, è anche capace di deliziose screziature nel canto patetico, ove sa trovare con maestria i colori più appropriati. Lo ha dimostrato soprattutto nella seconda strofa de “Una furtiva lacrima”, cesellata con una tenerezza ed un abbandono veramente rimarchevoli. Il pubblico ne ha inutilmente chiesto il bis.
Ma “L’elisir d’amore” è in primo luogo Dulcamara: il ciarlatano che imbroglia, sì, eppure, anche al di là delle sue stesse intenzioni, rappresenta quel tanto di meraviglioso, di sorprendente, che qualche volta fa irruzione nella vita quotidiana proprio quando appare più grigia e ripetitiva, trasfigurandola e invertendone la direzione. L’anno scorso c’era Bruno de Simone ed è tale la levatura dell’artista napoletano, maestro indiscusso del repertorio comico, che non credo si faccia torto al nuovo interprete constatando che l’assenza si è sentita. Il baritono di Castelfranco Veneto Elia Fabbian, già apprezzato sul palcoscenico della Fenice come Don Bartolo, offre del paradigmatico personaggio un’interpretazione sempre adeguata ma ancora scolastica, priva di quella malizia, di quelle sottolineature e sfaccettature, che si possono conquistare solo con l’esperienza e lo studio.
Il baritono pisano Alessandro Luongo, trentaquattrenne, è un Belcore divertente e brillante, che non si prende mai sul serio. La voce, elastica ed estesa, lo serve a puntino in questo repertorio ed in particolare nei passaggi di agilità, anche se un gioco più vario di dinamiche e colori non guasterebbe.
La Giannetta del soprano albanese Oriana Kurteshi è apprezzabile e corretta.
Lo spettacolo di Bepi Morassi ha il merito di divertire il pubblico e di coinvolgerlo in un’atmosfera di sorridente complicità, che rompe la tradizionale barriera fra officianti il rito artistico e profani. Il teatro d’opera diventa così una festa collettiva, che, quando non comporta uno scadimento del livello artistico come in questo caso, si fa apprezzare per l’allegria e le emozioni che sa donare, sull’esempio del “sovrannaturale dispensatore di gioia Dulcamara” (copyright Franco Abbiati). Ciò non toglie che, nonostante tutta la simpatia ed il brio che gli vanno riconosciuti, questa messa in scena affastelli l’una sull’altra troppe gags, troppe trovatine, e non tutte di primissima lega. Quel Belcore chitarrista rock, per esempio...E quel continuo ricorrere ai passettini, ai movimenti a ritmo di musica...: trovata simpatica, a suo tempo, ma ora troppo già vista, troppo sempliciotta, per non suscitare anche una certa sensazione di fastidio.
Ma il pubblico si diverte, partecipa, si sente coinvolto e ascolta ottima musica ottimamente eseguita. E’ ciò che conta.
Adolfo Andrighetti
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