Rigoletto alla Fenice come un incubo senza tempo
Ma nell’opera di Verdi il protagonista rappresenta il più spiccato elemento di novità, non l’unico. Anche il Duca, per esempio, ha qualcosa di originale da dirci, perché, in piena temperie romantica, gli tocca in sorte di rappresentare una concezione del rapporto uomo – donna imperniata esclusivamente sull’eros, sul piacere fine a se stesso, sul consumo dell’altra a scopo di pura soddisfazione sessuale. E’ una scelta che sorprende, in quanto la cultura romantica l’amore lo prende maledettamente sul serio, lo carica di simboli e di significati, lo vuole assoluto ed eterno fino ad apparentarlo alla morte.
Questa visione trova un riscontro evidente, anche se con qualche incrinatura, in Gilda, donna angelicata e sublime secondo il cliché tradizionale, anche se con qualche insofferenza verso la vita da reclusa cui la costringono le ossessioni paterne. Ma non c’è dubbio che la sua concezione dell’amore è quella idealizzata e quasi disincarnata che si addice alle eroine di Bellini e Donizetti.
Tuttavia, alla sua femminilità così squisitamente pronta al dono di sé non corrisponde, secondo lo schema di coppia caratteristico del melodramma romantico, un eroe senza macchia e senza paura, perseguitato dalla sorte eppure pronto a combatterla, devoto fino all’ultimo agli ideali dell’onore, del coraggio e della fedeltà. Al posto, infatti, tanto per restare nell’universo verdiano, di un Manrico, di un Alvaro, di un Ernani, incontriamo un libertino appagato, cui vanno tutte dritte; ove si vede che Rigoletto e Duca si trovano alleati non solo per ordire beffe crudeli ai danni dei cortigiani e delle loro figlie, ma anche per avviare il superamento dei principali e fino ad allora indiscussi punti di riferimento del teatro musicale romantico.
Nel “Rigoletto” già entrato nel repertorio della Fenice e ripreso con incoraggiante successo in questi giorni per il terzo anno consecutivo (regia di Daniele Abbado con la collaborazione di Boris Stetka, scene e costumi di Alison Chitty, coreografia di Simona Bucci, luci di Valerio Alfieri), il personaggio del Duca di Mantova è affidato all’ormai affermatissimo tenore di Santa Cruz de Tenerife Celso Albelo, felicemente di casa alla Fenice. Questi ci presenta un libertino vocalmente elegante, quasi stilizzato, che ricorda l’emissione ed il modo di porgere di Alfredo Kraus, conterraneo e punto di riferimento artistico di Albelo; una affinità che lo scorso luglio nel ruolo di Nemorino sfuggiva, mentre si rende evidente nell’interpretazione del Duca, ove quanto di nobile e di araldico caratterizzava la vocalità del leggendario Kraus ha modo di emergere. Nulla di male se il modello è così alto soprattutto sul piano della tecnica e dello stile; ma attenzione a non assorbirne anche i limiti, da cui nessun artista lirico per quanto grande è esente, come il leggero vibrato caprino nelle vocali e una certa freddezza nel porgere.
Celso Albelo, comunque, è un Duca di alto livello. All’eleganza del fraseggio si aggiunge il pieno controllo dell’emissione, con la capacità di smorzare a volontà i suoni con dolcezza e morbidezza, per poi rinforzarli senza fatica in luminose lame d’argento. Esemplare, in proposito, nell’aria “Parmi veder le lagrime”, l’attacco a fior di labbro della frase “Ned ei potea soccorrerti”, con l’immediata espansione dinamica, corrispondente a quella emotiva, nel successivo “Ei che vorria con l’anima farti quaggiù beata”. A ciò si aggiunga lo splendore di un registro acuto squillante ed impavido, di cui l’artista ha dato prova anche con una puntatura di solare bellezza a conclusione della canzone “La donna è mobile”.
Certo che è fatica sedurre Gilda con le maniche della camicia rimboccate e aggiustandosi le bretelle, specie se il fisico non è propriamente efebico...Ma qui sono regista e costumista che mandano allo sbaraglio il tenore. Comunque sia, Gilda ci casca, sia perché le piace una certa trasandatezza dello studente Gualtier Maldè (“Signor e principe non lo vorrei, sento che povero più l’amerei”), sia perché è probabile che non veda l’ora di scappare dalla prigione domestica in cui Rigoletto la tiene rinchiusa.
E a proposito di Gilda, questa è ancora la bravissima e simpatica Desirée Rancatore, anche lei di casa alla Fenice (e speriamo che ci resti a lungo). La sua è una Gilda perfetta, vocalmente immacolata nonostante qualche saltuario accenno asprigno nel timbro, tecnicamente ferratissima; passeggia (o ne dà l’impressione, ché sarebbe merito ancora maggiore) nella coloratura, che esegue con brillantezza facendone scaturire una cascatella iridescente di suoni, ed è fraseggiatrice pertinente se non sempre trascinante. Con intelligenza, poi, evita, nella sua interpretazione, il cliché dell’adolescente ingenua e fuori del mondo, per restituire, invece, il ritratto credibile di una ragazza matura e consapevole, sorpresa e tradita nella sua buona fede da colui del quale si era innamorata. Che bello soprattutto il “Caro nome”, ove l’artista ha modo di mettere in mostra le sue doti migliori!
E Rigoletto? Il baritono greco Dimitri Platanias è un bravo artista, padrone dell’impervio ruolo che ha eseguito un po’ in tutto il mondo. Ha voce sonora, squillante in alto e sufficientemente corposa e rotonda nei centri, cui si aggiungono apprezzabili intenzioni interpretative. Eppure gli manca qualcosa: forse, in qualche momento, un’emissione più controllata; forse la rinuncia a sonorità talvolta troppo forti e a qualche inflessione un po’ sguaiata; forse un’interpretazione più sofferta, più interiorizzata; forse tutto questo insieme e, ancora di più, un certo quid che permette di andare oltre la routine, seppure di apprezzabile professionalità, il che è vivamente consigliabile nel teatro che ha visto nascere “Rigoletto” l’11 marzo 1851 e nell’affrontare un personaggio di questa imponenza psicologica e drammatica.
Molto buono, l’avevamo già osservato gli anni scorsi, lo Sparafucile di Gianluca Buratto, capace di affrontare con suoni pieni e timbrati, cupi ma non morchiosi, risonanti anche nei gravi estremi, il duetto con Rigoletto del primo atto. Anche questa volta, come le precedenti, è piaciuto meno nell’atto conclusivo, ove si sarebbero fatte preferire, in alcuni momenti, sonorità più contenute. Da elogiare anche la Maddalena del mezzosoprano riminese Anna Malavasi e giustamente tonante, quasi terrificante, il basso di Spalato Luciano Batinic, un Monterone che sembra una reincarnazione del Commendatore mozartiano, entrambi a prendersela con un libertino sfrontato ed impenitente.
All’altezza del loro abituale, apprezzabile standard, i cortigiani Armando Gabba (Marullo), Iorio Zennaro (Borsa), Luca Dall’Amico (Ceprano).
A posto, come sempre, il coro della Fenice istruito da Claudio Marino Moretti.
Sul podio, il non ancora trentenne direttore principale della Fenice Diego Matheuz ha mostrato di prediligere i momenti in cui Verdi intensifica il dramma e lo accompagna con sonorità e colori di potente tragicità. Qui Mathueuz cerca e trova un’interpretazione serrata, incalzante ed energica, che sottolinea la concisione e la rapidità con cui Verdi fa precipitare gli eventi.
Dello spettacolo si è già scritto e parlato negli anni scorsi. Nel rivederlo ora conferma pregi e difetti segnalati a suo tempo. L’allestimento non è privo di un suo fascino lugubre e minimalista, espresso da una certa atmosfera fra l’onirico ed il surreale che sprigiona soprattutto dalle scene, solidi geometrici semoventi che l’eccellente gioco di luci trasfigura in un ambiente astratto, misterioso e senza tempo. Ma troppo spesso i cantanti sembrano abbandonati sul palcoscenico, ognuno in piedi a sfogarsi verso il pubblico. E le coreografie pseudo erotiche della festa del primo atto si confermano di rara, quasi esemplare bruttezza.
Adolfo Andrighetti
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