Malibran: che Belle Arti quelle dell’Accademia!
Così è la vicenda, in primo luogo, anche se ingarbugliata a tal punto che raccontarla in maniera chiara e completa richiederebbe troppo spazio. Basti dire che vi sono due personaggi, Don Parmenione e il Conte Alberto, ciascuno dei quali e per motivi diversi è alla ricerca di una donna. Un temporale li conduce nella stessa locanda, ove uno scambio casuale di valigie origina i primi equivoci. I successivi sono innescati, invece, dai due personaggi femminili, Berenice e la sua amica Ernestina, le quali, per complicarsi la vita, non trovano di meglio che fingersi la prima la cameriera, con l’obiettivo di testare l’amore del suo pretendente, la seconda la padrona e cioè Berenice. Ma nel mondo dorato e deliziosamente artefatto dell’opera comica lo scambio di ruoli è un espediente che funziona sempre: il Conte Alberto si innamora di Berenice, la donna che gli era destinata, anche se la crede la colf; ed è amore anche fra Ernestina e Don Parmenione, che la stava cercando su incarico del fratello di lei, dal quale la ragazza si era allontanata per seguire un seduttore.
La vicenda è scioccherella assai, farraginosa ed improbabile secondo la più tipica tradizione di questo repertorio, che serviva a riempire una serata nella quale si davano anche dei balletti e non di rado degli intrattenimenti tutt’altro che artistici, come estrazioni a premi e simili. Ma l’operina (un atto unico della durata di circa un’ora e mezza) vince e convince per la sorprendente felicità della musica, composta da Rossini in undici giorni sull’involo di un’inventiva freschissima e sorgiva.
Ne è interprete sicuro e puntuale il maestro Stefano Rabaglia, che conduce dal podio una compagnia di canto affiatata e di buon livello. Su tutti spicca la collaudata professionalità del baritono Omar Montanari, un punto di riferimento di assoluta affidabilità in questo repertorio, che è un Don Parmenione di apprezzabile vocalità e di misurata ma convincente resa teatrale. Accanto a lui si mette in luce il poco più che trentenne soprano siberiano Irina Dubrovskaya, Berenice ancora un po’ discontinua ma in crescendo, che lascia intuire, dallo smalto luminoso della voce e dalla bravura con cui sa sciogliere le agilità brillanti del finale, doti rimarchevoli, impreziosite da acuti squillanti e timbratissimi. Per lei il successo più caloroso di una rappresentazione domenicale accolta con grande soddisfazione e calore dal pubblico.
Tutti più o meno giovani e ben promettenti gli altri interpreti: dal tenore Giorgio Misseri, Conte Alberto di ottime doti ma ancora un po’ scolastico nell’approccio alla parte, al mezzosoprano Paola Gardina, Ernestina sicura e ben calata nel ruolo, al ventiquattrenne baritono Giovanni Romeo, Martino simpatico e vocalmente corretto, al tenore Enrico Iviglia, autorevole Don Eusebio.
L’allestimento, curato dalla Scuola di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, è stato impaginato (il termine non è usato a caso) con grazia ed eleganza. Le scene (Alberto Galeazzo) sono immaginate come delle illustrazioni di un libro; e, per rafforzare la finzione “bibliografica”, i costumi d’epoca (Laura Palumbo), deliziosi per l’impalpabile e insieme ironica bellezza da fiaba, sono di carta. Scene e costumi sono tutti giocati sulle sfumature del bianco, dell’azzurro e del crema, in un insieme monocromatico che evita il rischio dell’uniformità grazie all’atmosfera di incantevole leggerezza ed eleganza che sa ricreare. Appropriate alla concezione scenica le luci di Andrea Sanson.
La regia di Elisabetta Brusà è impeccabile, intonata alla storiella scioccherella ed alla musica felicissima, mai sopra le righe ma neppure statica o monotona. Divertente, in particolare, subito all’inizio dell’opera, la scena del temporale, caratterizzata dalla buffa mimica di figuranti impegnati a realizzare, con attrezzeria vari, i rumori dei tuoni e della pioggia scrosciante. Azzeccata anche l’idea di proiettare sul fondo del palcoscenico, all’inizio ed alla fine dell’opera, l’immagine di una mano che scrive le lettere che Rossini inviava alla madre in occasione della prima rappresentazione de ”L’occasione” a Venezia, ove si colgono, insieme all’affetto filiale, le prime vibranti aspettative di un artista che incominciava a intravedere, per sé e per la propria musica, un avvenire di successo.
Riuscita anche la presenza, elegante e discreta, di alcuni mimi, anch’essi in candidi abiti settecenteschi di carta, che, prima dell’inizio dell’opera, si posizionano con movimenti lentissimi fra platea e buca, donando, agli spettatori che prendono posto, momenti di una grazia squisita ed incantata. Poi li ritroviamo in palcoscenico, mai ingombranti o superflui, ad arricchire di vivacità e di charme una vicenda che da sola rischia di sgonfiarsi come un soufflé.
Adolfo Andrighetti