Tristano e Isotta
Un amore che nasce dalla morte, abbiamo detto: il filtro magico che Isolde vuole bere e far bere a Tristan, infatti, è quello che doveva arrecare la morte ad entrambi e solo per l’intervento dell’ancella Brangäne viene sostituito con quello dell’amore. I due protagonisti credono di essere prossimi all’estremo passaggio e, quasi liberati dalla consapevolezza di trovarsi ormai al di là di ogni obbligo umano, si scoprono perdutamente, follemente innamorati. Forse non si sarebbero amati se la coscienza della morte non li avesse proiettati in una dimensione ineffabile, ove le anime possono volare libere, senza peso, verso il loro destino.
Infatti, l’amore di Tristan e Isolde su questa terra è impossibile. Lo impediscono, ferree, le leggi dell’onore feudale, che impongono a Tristan, parente e vassallo di Re Marke, di consegnargli illibata la fanciulla che gli è destinata come sposa. I due protagonisti, quindi, desiderano ansiosamente quella dimensione altra dalla realtà che sola consente loro di amarsi. E, nel grande duetto del secondo atto, cercano rifugio nella notte, simbolo patente della morte, in cui diventa possibile ciò che nella vita, sotto la luce del sole, non lo è. L’invito che Tristan rivolge a Isolde, dopo che la loro passione è stata scoperta da Re Marke, di seguirlo nel regno della notte, è una chiara allusione a quel destino cui non possono sfuggire se vogliono restare uniti. L’amore, insomma, nato dalla morte, alla morte fa ritorno, perché senza di essa non è possibile.
E, alla fine dell’opera, dopo che Tristan e Isolde hanno compiuto il loro destino morendo l’uno per le ferire infertegli da Melot, pretendente della giovane, l’altra perché solo morendo a sua volta può restare unita all’amato, si rende evidente come, in questa visione, amore e morte si identifichino. E’ stato osservato, infatti, che proprio a questo punto il motivo musicale del desiderio, con cui prende avvio l’opera, abbandona quel senso di incertezza, di incompiutezza, che appartiene alla scala cromatica e risolve chiudendo in modo perfettamente, trionfalmente armonico; a dirci, con l’evidenza oggettiva della musica, che, in questa visione, la morte può essere consacrazione e compimento definitivo dell’amore assoluto al punto da identificarsi con esso in una sorta di tripudiante nulla universale, quando è scelta per permettere quella completa fusione di anime che la vita, con tutti i suoi limiti, non consente.
La musica procede ad ondate, come una distesa d’acqua che si impenna a poi si placa e quindi torna ad impennarsi, in un divenire continuo che però è ripetizione senza fine; o come una spirale interminabile che si avvolge su se stessa senza un inizio e senza una conclusione, ora cullandoti ora trascinandoti, e poco per volta ti ipnotizza e ti fa suo; o come un oceano, uno sterminato oceano sonoro senza confini, ora placidamente quieto ora in tempesta, che lentamente ti inghiotte nel suo abbraccio. Per cui lo spettatore si unisce ai due amanti nel loro estatico sprofondare nel nulla, cantato da Isolde nelle ultime battute dell’opera: “Annegare, inabissarmi – senza coscienza – suprema voluttà!”.
La grandiosa partitura è stata onorata alla Fenice dal maestro coreano Myung-Whun Chung, il quale, in armonia di intenti artistici con la partecipe e sensibile orchestra del Teatro, ha cercato e trovato la strada dell’equilibrio fra l’abbandono voluttuoso alle spire sonore, sempre a rischio di retorica ed enfasi, e la lettura analitica, parcellizzata, a rischio di snaturare la musica. Chung, quindi, ha conferito lirica plasticità ai volumi sonori, ampio respiro agli accompagnamenti e pieno risalto all’inesauribile tavolozza timbrica, dando vita poi, nel terzo atto, ad una intensità di accenti eloquente ed emozionante, anche se sempre tenuta sotto controllo.
Il cast è nel complesso buono, ma non c’è da gridare al miracolo.
Il Tristan del tenore inglese Ian Storey è censurabile sotto il profilo vocale. Il timbro è ingrato, l’emissione disomogenea e ingolata. Invano si desidera un po’ di quello smalto tenorile, cui sono abituate le nostre orecchie italiane, viziate ed edoniste, amanti del suono limpido e rotondo. Però...Però Storey è un Tristan partecipe ed intenso, addirittura emozionante nel terzo atto, quando la sofferenza dell’eroe ferito nel corpo e nello spirito, anelante all’unica liberazione che gli può essere concessa cioè quella della morte, è resa con una immedesimazione da brividi. A lungo ci ricorderemo di quel braccio proteso verso la platea, la mano allungata ad afferrare ciò che ancora non si vede ma è ben vivo nella mente di Tristan: la nave che sta veleggiando verso la sua terra di prati e pascoli, e fra poco gli restituirà, per un ultimo addio che è anche il definitivo ricongiungimento, la donna amata. La veste insanguinata, la sofferenza che è fisica e morale insieme, l’attesa spasmodica di una redenzione, lo avvicinano ad un altro personaggio wagneriano piagato e dolente, l’Amfortas di “Parsifal”: quest’ultimo vittima del lato oscuro, erotico, dell’amore, laddove Tristan, invece, ne coltiva una concezione troppo elevata ed assoluta per poter appartenere alla dimensione terrena.
Un’interpretazione così vibrante è possibile a Storey per la sua ammirevole sensibilità di artista e per l’esemplare padronanza del ruolo, ma anche per la capacità di cantare piano e pianissimo, conferendo ad ogni sussurro una forza drammatica di notevole efficacia comunicativa.
L’Isotta di Brigitte Pinter si situa su di un versante interpretativo per certi aspetti opposto a quello di Storey. Se questi, infatti, privilegia lo scavo del personaggio rispetto alla pura resa vocale, il soprano austriaco mette in mostra nei primi due atti una vocalità luminosa e bene impostata, ma il personaggio cui dà vita non lascia il segno. Nel terzo atto, poi, forse per la stanchezza, l’emissione non viene più controllata a dovere e i suoni tendono a perdersi in un limbo dove precisione e intonazione in parte si smarriscono.
Il Re Marke del coreano Attila Jun possiede una franca e robusta voce di basso, capace anche di suggestive e morbide sonorità a mezza voce, ma a rischio di sfuggire al controllo negli acuti. L’interprete, poi, manca di quell’impronta di nobiltà e grandezza che è parte essenziale del personaggio, anche se la sofferenza e la sorpresa dell’uomo tradito, e tradito dal suo più fidato vassallo che è anche suo nipote, sono restituite con viva partecipazione emotiva.
Il Kurwenal del baritono USA Richard Paul Fink concede troppo, nei primi due atti, ad una visione volgare e rozza del personaggio. Inoltre, mette in mostra una vocalità brada e discontinua. Va meglio nel terzo atto, ove l’intensità del dramma lo costringe ad un’interpretazione più attenta.
Il personaggio più risolto risulta, alla fine, la Brangäne del mezzosoprano finlandese Tuja Knihtilä, che domina il palcoscenico con una vocalità franca, affermativa, sanissima, e con una presenza scenica trepida e partecipe.
Del tutto all’altezza dei ruoli rispettivi Mirko Guadagnini (Un pastore), Gian Luca Pasolini (Un giovane marinaio) e Armando Gabba (Un pilota), mentre il Melot di Marcello Nardis è parso alquanto aperto nell’emissione. Pronto e presente come al solito il Coro diretto da Claudio Marino Moretti.
Il punto debole di questa proposta wagneriana è purtroppo la messa in scena, firmata dallo scozzese Paul Curran per la regia, da Robert Innes Hopkins per le scene e i costumi, da David Jacques per luci. Si è visto, infatti, uno spettacolo tanto brutto quanto povero di contenuti drammatici, quindi inadeguato alla grandezza del capolavoro cui dovrebbe dare espressione teatrale.
Nel primo atto, il respiro e il profumo del mare sono soffocati, anzi annichiliti, da una scenografia claustrofobica. Il fondale, che ricorda la parete di una di quelle case a traliccio tipiche del Nord Europa, è molto avanzato verso il proscenio, per cui lo spazio disponibile per l’azione è veramente poco. Tra fondale e buca è collocata una specie di gabbia, in cui siedono Tristan e Kurwenal quando non interagiscono con Isolde e Brangäne. L’insieme è povero, mesto e, soprattutto, insignificante. Né è di aiuto la regia, priva di fantasia e creatività, che raggiunge il limite del grottesco quando costringe i due amanti a strisciare l’uno verso l’altro appena assunto il filtro d’amore, ottenendo il risultato di ridicolizzare il momento culminante di un’estasi più che umana: quello raggiunto da Tristan e Isolde quando si riconoscono per la prima volta nel loro amore vicendevole.
Non va meglio nel secondo atto, dove la parete a traliccio lascia il posto a due muri bianchi, astratti e curvilinei, davanti ai quali è collocato un brutto albero stilizzato. Sarà intorno ad esso che Tristan e Isolde si cercheranno, si riconosceranno, si ameranno, purtroppo assai inerti ed impacciati, nel corso del sublime (e prolisso) duetto d’amore.
La regia, che fino a qui non ha dato particolari segnali di vita, si riscatta in parte nel terzo atto, ove si riesce a dimenticare il ritorno delle pareti a traliccio, questa volta sospese in posizione sghemba rispetto al palcoscenico, grazie all’efficace rilievo conferito alla sofferenza di Tristan ferito a morte.
I costumi in sé non sono brutti, ma suscitano un po’ di sconcerto perché appartengono a epoche diverse, dall’Alto Medio Evo barbarico di tradizione al 1800.
Resta da dire del franco successo riscosso dalla recita cui si riferiscono queste note; e che questo “Tristan und Isolde” è la parte wagneriana della doppia celebrazione che il Teatro ha ideato, in occasione dell’apertura della stagione 2012 – 2013, per onorare il bicentenario della nascita dei due giganti dell’opera romantica, Wagner e Verdi. Di quest’ultimo si dà “Otello”. Le due opere si succedono in questi giorni l’una dopo l’altra sul palcoscenico della Fenice, con uno sforzo artistico ed organizzativo straordinario, che, ampiamente pubblicizzato sui mezzi di informazione, rappresenta il giusto riconoscimento per l’attuale gestione della Fenice, mai abbastanza lodata per la lungimiranza e la saggezza con cui sta pilotando il Teatro fra le difficoltà dell’oggi.
Adolfo Andrighetti
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