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Esultate, la Fenice continua la sua brillante navigazione

04/12/2012
Esultate, la Fenice continua la sua brillante navigazione“Otello” è l’ultimo approdo drammatico del confronto, lungo una vita, che Verdi mantenne con Shakespeare. Dopo vi fu la commedia, “Falstaff”. Prima, “Macbeth”, capolavoro che non ha nulla da invidiare alla fonte da cui trae origine, e la mai del tutto abbandonata riflessione su un “Re Lear” che il compositore sentiva in maniera prepotente, forse perché gli avrebbe dato l’occasione di arricchire la propria galleria di padri con un’altra figura indimenticabile.

“Otello”, la cui prima fu data alla Scala il 5 febbraio 1887, è creazione potente e complessa, frutto di una prolungata meditazione musicale e drammaturgica di Verdi, nella quale svolse un ruolo importante il librettista, Arrigo Boito, intellettuale forse un po’ velleitario ma capace di stimolare il compositore con suggestioni che poi quest’ultimo, che velleitario non era, avrebbe tradotto in musica e teatro.

L’“Otello” verdiano è la storia di un diverso che ha fatto carriera ed è questa la colpa che gli viene fatta pagare. Quel “selvaggio dalle gonfie labbra” e dalla pelle scura ha l’improntitudine di sposare una donna ben più giovane di lui, bella e molto desiderata; e di essere nominato dalla Serenissima governatore di Cipro, ridimensionando e forse umiliando le ambizioni di chi, invece, la pelle ce l’ha bianca, insieme all’anima nera.

Il diverso che ha fatto carriera, poi, qui è uno sprovveduto o almeno un ingenuo. In questo senso, sì, è proprio un selvaggio: crede che le vittorie in battaglia siano sufficienti per farsi accettare. Cade, invece, come un bambino nella trappola che gli viene tesa, perché, nell’affrontare il dubbio che gli è stato instillato sulla fedeltà della sposa, riaffiora in lui quel senso di inferiorità che il successo aveva rimosso ma non eliminato; e si convince che il giovane e brillante Cassio ha più numeri di lui per conquistare il cuore di Desdemona.

Nella drammaturgia dell’opera la chiave di volta è Jago, teorico del male e della sua ineluttabilità, cui Boito e Verdi fanno cantare il famoso “Credo in un dio crudel”, che è una sorta di professione di fede rovesciata fino ai limiti della blasfemia. Abile nell’ostentare un’onestà disarmata, quasi ingenua, per coprire la diabolica macchinazione del fazzoletto, è il simbolo di una malvagità che si compiace di se stessa al di là dei risultati che si prefigge di raggiungere, l’incarnazione di un male metafisico che riconosce il peccato ma rifiuta la redenzione.

“Otello” è opera dalla robusta ed articolata struttura sinfonica, che risente dell’evoluzione che il linguaggio musicale aveva fatto segnare verso la fine del diciannovesimo secolo grazie soprattutto alla sconvolgente novità wagneriana. Ma Verdi guarda non solo al Walhalla. E’ influenzato anche dall’opera francese e dal gusto di questa per le nuance timbriche. E rimane comunque un compositore italiano, la cui sensibilità melodica non viene meno neppure nell’”Otello”, seppure all’interno di un tessuto musicale che fa della continuità e della compattezza le sue caratteristiche principali, affinché il dramma possa esprimersi come un’unica, grandiosa campata.

La mano esperta del maestro coreano Myung-Wung Chung, che ha diretto alla Fenice anche il “Tristan und Isolde”, ha impostato un’esecuzione di splendido equilibrio. Le soluzioni armoniche e timbriche, particolarmente ricercate in questa partitura, vengono gustate e fatte gustare con rara sensibilità. Nello stesso tempo, però, i momenti di maggiore intensità dinamica, come l’uragano all’inizio dell’opera, non vengono certo sacrificati, ma sono affrontati senza enfasi roboanti, donando al suono pienezza, plasticità ed espansione. Ed è sorprendente poter cogliere, grazie a questa impostazione musicale, le insospettabili parentele fra “Otello” e il successivo “Falstaff”. A ciò si aggiunga, infine, il gesto semplice e limpido del maestro, esemplare sotto questo profilo.

Il famoso tenore statunitense Gregory Kunde, attesissimo alla prova di Otello, non ha deluso. Nonostante la lunga carriera, iniziata come tenore contraltino, proseguita come baritenore rossiniano e approdata infine ai ruoli verdiani, Kunde è in possesso di uno strumento ancora fresco e duttile per poter onorare il ruolo, difficilissimo sul piano vocale quanto su quello interpretativo. Non spara cannonate, ma lo squillo è pronto a scattare ogni qual volta ce n’è bisogno e i passi più lirici e raccolti sono eseguiti con un bel gioco dinamico. Anche la zona centrale, che potrebbe essere il tallone d’Achille di un tenore della sua estrazione artistica, si espande con un bel colore baritonale. L’interprete, poi, è concentrato e sensibile e può contare su di una dizione perfetta, che lo aiuta nel declamare con espressione, anche se non sempre con la potenza necessaria. Insomma, un Otello di classe, emozionante, proprio ben cantato.

Gli è accanto la Desdemona della giovane connazionale Leah Crocetto, che canta bene, con buon gusto e proprietà, ma resta sempre un passo indietro rispetto allo spessore drammatico del personaggio, che dovrebbe essere affrontato con un’altra capacità di penetrazione psicologica e con una più sofferta partecipazione emotiva. Ma le qualità vocali ci sono e rilevanti: l’emissione è spontanea, il suono limpido ed omogeneo su tutta la gamma, il timbro prezioso anche se tendente, soprattutto nel primo atto, a sbiancarsi in un colore virginale, quasi infantile, che ricorda un modo “alla Toti Dal Monte” lontano dal gusto odierno.

Affatto diverso il caso dell’affermato baritono tarantino Lucio Gallo, che ci offre uno Jago ricco di sfaccettature e di intenzioni interpretative, ironicamente bonario ma sempre pronto a sfoderare la coda intrisa di veleno sotto le specie dell’onestuomo incapace di malizia. Artista di vasta esperienza internazionale, Gallo ha rinunciato al canto rotondo e legato di scuola italiana, per puntare sulla varietà del fraseggio e sulla valorizzazione della parola drammatica, oltre che su di una rimarchevole padronanza del palcoscenico.

Sono piaciuti anche il Cassio del tenore napoletano Francesco Marsiglia, dal prezioso impasto timbrico e dalla corretta linea vocale, e l’Emilia del mezzosoprano siciliano Elisabetta Martorana, di apprezzabile rilievo drammatico.

E ora parliamo dello spettacolo (regia Francesco Micheli, scene Edoardo Sanchi, costumi Silvia Aymonino, luci Fabio Barettin). E se ne farebbe volentieri a meno, per non turbare il giusto entusiasmo che ha salutato l’inaugurazione della stagione operistica del nostro Teatro, sempre più capace (grazie Chiarot, grazie Ortombina e naturalmente anche tutti gli altri a cascata) di mantenere il difficile equilibrio fra qualità artistica e doveroso rispetto dei bilanci.

Lo spettacolo, dunque, si può definire velleitario, nel senso che vuole dire molto ma quel molto è superfluo, mentre non riesce a dire e a mostrare ciò che si dovrebbe per conferire profondità umana e psicologica ai personaggi, per scavare i contenuti drammatici della vicenda, magari per illuminarne qualche aspetto inedito.

Sovrabbondano le trovate pedantemente didascaliche, come i modellini di velieri che compaiono continuamente fra le mani dei coristi, a confermare che l’azione si svolge su di un’isola e il mare è onnipresente; o come gli aguzzini nerovestiti, personificazione dei sospetti ossessivi di Otello, che lo tormentano durante il suo tragico monologo “Dio mi potevi scagliar tutti i mali”, o come Cassio, che, mentre Jago intona “Questa è una ragna”, si aggira bendato con il fatale fazzoletto sugli occhi, a sottolineare che è proprio con quell’oggetto da nulla che gli si impedisce di capire come realmente stanno le cose. E si potrebbe continuare.

Insomma, uno spettacolo che manca di compattezza ed essenzialità e disperde l’attenzione su troppe scelte inutili o sbagliate. Fra queste ultime, l’inappropriata ambientazione della festa del primo atto in uno squallido camerone da caserma, ove l’unico oggetto di arredamento sono dei lettucci da campo, su uno dei quali, in piedi, Jago intona il Brindisi. E Otello che, mentre canta “Un bacio, ancora un bacio” nel duetto d’amore del primo atto, anziché guardare in faccia Desdemona e perdersi nei suoi occhi, posa la bocca sul piede di lei; un atto di sottomissione, se tale si può considerare, ingiustificato, e che Otello replicherà nell’ultimo atto, poco prima di uccidere la sposa. Discutibile anche il finale, con il fantasma di Desdemona che compare durante il “Niun mi tema” e porge ad Otello il pugnale con cui questi si suiciderà; entrambi, poi, si allontanano sulle proprie gambe, in un improbabile happy end.

Tutto questo accade all’interno di una scenografia molto semplice ma funzionale, costituita da pannelli monocromi su cui sono riprodotti i segni dello zodiaco. Al centro della scena un contenitore girevole, che ripete sulle pareti esterne il motivo delle costellazioni, mentre mostra all’interno una camera riccamente arredata. Belli i costumi ottocenteschi, di militare foggia marinaresca.

Al termine della serale cui si riferiscono queste note, successo cordiale per tutti, compreso il sempre più bravo coro del Teatro diretto da Claudio Marino Moretti. Particolare entusiasmo per Kunde e Chung.

Adolfo Andrighetti

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