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Asterisco Informazioni di Fabrizio Stelluto

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Che sia bello anche il primo Verdi?

29/01/2013
“I masnadieri”, rappresentati la prima volta con discreto successo al Queen’s Theatre di Londra il 22 luglio 1847, è opera che nasce male perché condizionata all’origine dalla sua fonte: il farraginoso ed improbabile dramma, frutto di uno Sturm und Drang velleitario ed enfatico, di uno Schiller diciottenne. Né seppe migliorarlo Andrea Maffei, autore del libretto, intellettuale à la page e celebrato germanista, chiamato da qualcuno “il Boito degli anni di galera”. Maffei, invece, si dimostrò poco adatto alla versificazione teatrale. E finì per produrre un testo che non riuscì ad accendere fino in fondo la fantasia di Verdi e ad ispirargli quella tinta unica, irripetibile, particolare, che questi cercava di conferire ad ogni lavoro che componeva.

Ne uscì un’opera secondo Franco Abbiati “tirata piuttosto alla brava”, che fatica a sollevarsi dalla routine. Si apprezzano soprattutto, se ben cantate, le due arie del tenore; qualche sprazzo di soffuso lirismo, soavemente virtuosistico, omaggio di Verdi alla bravura della prima interprete di Amalia, l’”usignolo svedese” Jerry Lind; alcuni episodi del terzo atto, come il coro della vendetta dei masnadieri e il racconto del sogno di Francesco, ove Verdi riesce a trovare la strada di una drammaticità corrusca ed incisiva.

La vicenda racconta di due fratelli, Carlo e Francesco, figli di Massimiliano, Conte di Moor. Il minore, Francesco, si macera nell’odio verso il padre ed il fratello, entrambi di ostacolo al suo desiderio di conquistare il titolo e il potere che ne deriva. Ordisce così un piano diabolico per sbarazzarsi di loro. Con menzogne e sotterfugi li mette l’uno contro l’altro al punto che il fratello maggiore, credendosi perseguitato dal genitore, si imbranca con una banda di ladroni da strada. Per completare l’opera, Francesco fa credere al padre che Carlo è perito in combattimento. Alla notizia, il vecchio cade come morto e Francesco ne approfitta per segregarlo; ora può esultare, è diventato signore. Con il potere ed il prestigio così arraffati cerca di sedurre la fidanzata di Carlo, Amalia, passando dalle lusinghe alle minacce, ma senza risultato. Alla fine le perfide trame di Francesco sono svelate e tutto potrebbe tornare alla normalità. Ma, quando Carlo sta per ricongiungersi con Amalia, i masnadieri oppongono, al suo desiderio di una vita normale, le fatiche, i rischi, i sacrifici sopportati con lui e per lui. Non può abbandonarli così. Carlo si rende conto che il suo destino non può mutare e, prima di consegnarsi al patibolo (prima di suicidarsi, secondo la discutibile variante registica adottata alla Fenice), ferisce a morte Amalia.

I due innamorati, sul piano drammatico, sono degli stereotipi. Amalia non sfugge al cliché dell’eroina purissima, di nobili sentimenti e perseguitata. Carlo, a sua volta, è la raffigurazione, a tratti anche un po’ caricaturale, dell’eroe romantico tutto passioni roventi e impeti incontrollabili, condannato all’infelicità dalla sorte avversa (e da una buona dose di masochismo). Resta Francesco, figura più originale perché la sua perfidia programmatica è tutta di testa, fredda e calcolata, un po’ come quella di Jago. Lo muovono le passioni, per il potere e per Amelia, certo: ma le sue mosse sono frutto di una razionalità priva di freno morale.

Eppure quest’opera, che si porta dietro la nomea di produzione minore e qualche ragione ci deve pur essere, è stata restituita a nuova vita dal maestro Daniele Rustioni, che, dirigendola e concertandola sul podio della Fenice, è come se ci avesse detto: ecco, così può essere il Verdi minore, così è il Verdi minore. E’ come se Rustioni sottoponesse “I masnadieri” ad un maquillage radicale, conferendole una vitalità ed un’energia che si rinnovano continuamente nota dopo nota e sorprendono sempre. Attenzione, non si tratta di accelerare il ritmo, scatenare le dinamiche, sostenere e mantenere tesa la narrazione musicale. Occorre altro e di più: vivere dall’interno le ragioni delle scelte musicali verdiane come espressione di una sensibilità drammatica geniale ed infallibile, per cui ogni nota, come diceva lo stesso Verdi, bella o brutta che sia, non è mai scritta a caso, ma, potremmo aggiungere, è sempre diretta a dare vita ad un sentimento, ad una situazione, ad un personaggio. Rustioni, quindi, riesce a convincerci che ciò che scrive Muti degli accompagnamenti del primo Verdi (il famigerato zum-pa-pa, l’orchestra ridotta ad una chitarra ecc.) è vero: e cioè che non di accompagnamento si tratta, “bensì di note che, attraverso una pulsione ritmica, devono creare attorno alla voce l’evocazione di una situazione drammatica interiore” (Riccardo Muti “Verdi, l’italiano”).

Sì, proprio Muti, cui non per niente Rustioni è stato accostato dopo questa performance veneziana accolta con genuino entusiasmo anche dal pubblico; perché entrambi sanno rendere eloquente, significativo, ricco di evidenza musicale e quindi teatrale, ogni passo del Verdi minore: una divinità misconosciuta che attendeva solo dei profeti illuminati per svelarsi al mondo.

Rustioni sa seguire con attenzione anche il palcoscenico, che risponde con una prestazione nel complesso molto buona. Il soprano emergente Maria Agresta è un’Amalia proprio a modo. Fa tutto bene, e dà un saggio esauriente della sua completezza di artista, cui non manca nulla per essere una prima della classe: né la qualità dello strumento timbrato ed omogeneo da lirico puro, né la solidità della tecnica, né la varietà del fraseggio. Ecco, se le manca qualcosa è l’unghiata della primadonna, cioè quel surplus di personalità artistica che trasforma una performance lodevole e corretta in un’esperienza coinvolgente, emozionante. Ma il soprano possiede tutte le potenzialità per compiere questo ulteriore passo in avanti, se saprà non accontentarsi.

Il suo Carlo è un aitante giovanotto basco, Andeka Gorrotxategui, che, alla fine della rappresentazione, ha beneficiato del sostegno entusiastico di una claque tutta femminile (beato lui...), in cui erano ben rappresentate anche le maschere del teatro. Un ragazzo già così fortunato dovrebbe cantare anche in maniera impeccabile o sarebbe un pretendere troppo dalla Provvidenza? Non so; sta di fatto che il tenore ha evidenziato una vocalità ancora acerba, con un’emissione dura, rigida, tendenzialmente indietro, che impedisce al canto di spiegarsi con la fluidità ed omogeneità richieste, compromettendo soprattutto il legato.

Il baritono polacco Artur Ruciński è un Francesco luciferino. Si trascina per il palcoscenico un’ingombrante deformità impostagli dalla regia, gobba e gamba destra rigida, che lo trasforma in una maschera talvolta più grottesca che terrificante. Ma è indubbio che l’interprete cava dal ruolo tutto quello che si può in termini di protervia maligna, intensità emotiva, nevrosi da cattiva coscienza, ottenendo un meritato successo personale. Lo sostiene adeguatamente, poi, nella sua interpretazione esasperata fino all’espressionismo, una voce sufficientemente morbida, rotonda ed estesa, capace di piegarsi ad un fraseggio fremente e continuamente cangiante. Rispetto alle recite di Napoli, inoltre, sembra che l’artista abbia affinato la sua interpretazione vocale, evitando quell’emissione sempre di spinta e quegli accenti artatamente torvi finalizzati alla ricerca dell’effetto più facile ed esteriore.

Del tutto convincente il Massimiliano del basso Giacomo Prestia, figura nobile ed accorata, vocalità autorevole e dominata con piena sicurezza ed intonazione impeccabile anche nelle morbide emissioni a mezza voce,

Coperte adeguatamente le parti di fianco, a cominciare dal Moser del giovanissimo basso Cristian Saitta.

Splendido il coro del Teatro diretto da Claudio Marino Moretti, in un’opera ove il suo apporto musicale e drammatico è fondamentale.

Lo spettacolo, coprodotto dalla Fenice con il Teatro di San Carlo di Napoli ove è già apparso lo scorso anno, non manca di un suo fascino cupo e desolato. Il regista Gabriele Lavia, coadiuvato per le scene da Alessandro Camera e per i costumi da Andrea Viotti (le luci sono dello stesso Lavia), ambienta la vicenda in un’epoca vicina alla nostra, all’interno di una periferia urbana degradata, fra livide luci artificiali (fastidiose quando sono rivolte verso la platea, soprattutto quelle rosse a rappresentare l’incendio di Praga) e murales colorati a chiudere la scena, riportanti la scritta a caratteri cubitali “Libertà o morte”.

I ladroni di Carlo diventano così una banda di marginali che reagiscono all’esclusione sociale armandosi fino ai denti e opponendosi con la violenza al mondo che li circonda: tutto sommato una corretta attualizzazione dei reietti che compongono la “masnada” nel dramma di Schiller prima ancora che nell’opera di Verdi.

La regia, però, sembra accontentarsi di conferire ai singoli personaggi, forse perché dalla drammaturgia un po’ scontata, una teatralità convenzionale, con la sola eccezione di Francesco, che rischia, tuttavia, di essere caratterizzato in maniera sin troppo violenta ed esasperata, quasi alla ricerca dell’effettaccio. Anche se lo spunto della deformità fisica viene da Schiller, infatti, c’è da chiedersi se Lavia non lo abbia colto con troppo entusiasmo, finendo per semplificare ed esteriorizzare eccessivamente il misterium iniquitatis del personaggio.

Adolfo Andrighetti

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