Viva “Boheme”; o San Valentino; o entrambi
Per chi scrive, invece, causa raggiunti limiti di età, l’interesse dello spettacolo ha riguardato soprattutto la parte musicale, con il ventottenne venezuelano Diego Matheuz, direttore principale dell’orchestra del Teatro, al suo esordio sul podio in “Bohème”; e, accanto a lui, alcuni giovani artisti emergenti o già emersi, come il soprano Maria Agresta (Mimì), il baritono veronese Simone Piazzola (Marcello), il soprano russo Ekaterina Bakanova (Musetta). E mai come in quest’opera, che canta l’ebbrezza della gioventù e la malinconia del suo sfiorire a contatto con le prove della vita, quel “largo ai giovani”, così spesso gonfio di vuota retorica, si rivela invece sensato. L’inno alla giovinezza, quindi, ché “Bohème” altro non è, affidato a giovani, sul podio e in parte anche sul palcoscenico: è giusto così. Peccato solo che l’affermato tenore venezuelano Aquiles Machado, non ancora quarantenne, che non ho mai avuto il piacere di ascoltare dal vivo, abbia dato forfait per le due ultime recite previste e sia stato sostituito nel ruolo di Rodolfo dall’esperto collega Massimiliano Pisapia.
Questi è stato calorosamente applaudito, ed è giusto così. Come si fa, infatti, a manifestare freddezza verso Rodolfo, specie dopo che ha visto morire la sua Mimì e l’ha invocata per due volte con un così lancinante strazio dell’anima? Tuttavia va riconosciuto che il bravo artista è capace di prove più convincenti rispetto a quella cui ho assistito. Certo, la fretta di sostituire il collega indisposto e di inserirsi in una produzione già collaudata non può non aver influito sul suo rendimento. Tuttavia la sicurezza del professionista su cui si può sempre contare non è stata accompagnata da una smagliante forma vocale. Quindi, mentre il canto di conversazione nelle zone centrali del pentagramma è stato risolto con proprietà di accenti ed efficacia di fraseggio, l’involo melodico verso le regioni più acute ha risentito di un’emissione alquanto forzata e faticosa e di un timbro povero di smalto.
La sua Mimì, Maria Agresta, appena ammirata alla Fenice come Amalia ne “I Masnadieri” verdiani, per contro convince completamente o quasi. Qualcuno si chiederà se il suo autore d’elezione sia Puccini oppure Verdi; o anche entrambi, perché no. Il dibattito è aperto e presenta risvolti interessanti, ma è troppo presto per risolverlo in un senso o nell’altro. Per il momento, godiamoci questa Mimì così intensamente lirica, quasi segnata da1la tragedia incombente sin dal suo apparire, severa nel timbro scuro e nella presenza in scena. L’emissione, poi, è perfettamente omogenea e tenuta sotto controllo (salvo in alcuni estremi acuti su cui sarà il caso di vigilare), il che le consente, fra l’altro, un attacco di purezza adamantina, seguito da un’emozionante espansione sonora, nella frase “Ma quando vien lo sgelo” nel I Quadro, ed una pregevole seppur breve messa di voce, con suono attaccato piano, progressivamente rinforzato e quindi ricondotto gradualmente al piano di partenza, sulla parola “rancore” (“Addio, senza rancore”) nel “D’onde lieta” del III Quadro.
Il baritono Simone Piazzola replica con successo il suo Marcello generoso, esuberante, imponente; simpaticissimo, nonostante la regia lo costringa ad una serie di gesti e gestacci di infimo livello goliardico e di indubbio pessimo gusto. La voce, torrenziale e potente, è anche morbida, timbrata, ben raccolta in un’emissione sempre controllata, quindi pronta a piegarsi a sfumature, colori, intenzioni espressive, quando vengano cercati. E vien da pensare, mettendo insieme fisico e voce, che Falstaff potrà essere il nostro Simone, quando l’età gli avrà permesso di maturare quel tanto di malinconico cinismo che è indispensabile per interpretare il personaggio e non solo eseguirlo.
E a proposito della differenza fra esecuzione ed interpretazione, va citato il Colline del basso russo Sergey Artamanov, che, con la sua buona dotazione vocale, onora la prima, ma, purtroppo, non la seconda. “Vecchia zimarra” è un pezzo che ti scava dentro, ti deposita sull’anima una patina di indicibile e pur pacificata mestizia. E’ l’addio alla primavera della vita, alla stagione della vitalità innocente ed incantata: non può essere semplicemente eseguita in maniera corretta ma sempre sul forte, senza sfumature, senza intensità interiore. “Vecchia zimarra” va prima sentita dentro e poi intonata; e ammetto che ben poche volte l’ho ascoltata come si deve.
Ekaterina Bakanova è una Musetta “giusta”, dalla presenza scenica piccante e ricca di verve. Peccato che il suo ruolo non sia valorizzato a causa di alcune discutibili scelte della regia. Per esempio, le si fa cantare “Quando me’n vo soletta per la via” (II Quadro) non in una solitudine dominatrice della scena, come richiederebbe la situazione psicologica e teatrale, cioè al centro dell’attenzione e dei desideri di tutti, ma in mezzo ad altre ragazze, le quali inevitabilmente impediscono alla dea, che tale è Musetta in quel momento, di essere l’unico, assoluto polo d’attrazione erotico. Sono quelle stesse ragazze che circondano Musetta quando lamenta il suo dolore “al piè”; ma così si toglie all’incidente simulato ogni sottinteso malizioso, che invece sarebbe evidenziato se ad affaccendarsi attorno alla ragazza fossero gli uomini presenti. Anche il conseguente imbarazzo di Alcindoro risulta meno giustificato, dal momento che la sua amante viene assistita da persone dello stesso sesso. In ogni caso, l’artista affronta e risolve il personaggio con sicurezza e un buon esito complessivo, anche se la voce accusa delle forzature e dei toni un po’ aspri in acuto.
Simpatico e professionale lo Schaunard del baritono parmigiano Armando Gabba. Sempre azzeccati i camei di Matteo Ferrara (Benoit) e del veterano Andrea Snarski (Alcindoro).
Sull’interpretazione del maestro Diego Matheuz è preferibile sospendere il giudizio, per permettergli di approfondire la conoscenza e la pratica della partitura. Al momento pare che gli manchi ancora una visione unitaria e caratterizzante dell’opera, per cui gli spunti interessanti che si sono notati devono essere ulteriormente sviluppati. Va ascoltato ancora, in “Bohème” può dirci qualcosa di più significativo.
Dello spettacolo si è già riferito più volte in passato. E’ vivace, colorato, fantasioso soprattutto per le scene e le luci, con una serie di trovate che appagano l’occhio e sorprendono, a cominciare da quella, felicissima, della metropolitana che si svela lentamente alzandosi da sotto il livello del palcoscenico all’inizio del II Quadro. Chi vuole soltanto divertirsi, e il teatro d’opera deve divertire, torna a casa soddisfatto. Chi invece, oltre a ciò, cerca qualcosa di nuovo nell’interpretazione della poetica di “Bohème”, uno spunto di riflessione, anche una diversa ed ulteriore ragione di commozione, dovrà cercare altrove.
Alla serale cui si riferiscono queste note, teatro piacevolmente gremito e caldo successo per tutti. Dopo cinque – sei chiamate al proscenio, ho ritenuto che potesse bastare e mi sono alzato per uscire: quasi imbarazzato, mi sono accorto che ero il primo della platea, mentre tutti gli altri spettatori erano ancora seduti ad applaudire. Giuro, non mi era mai capitato. Ho pensato: sono soddisfatti perché sono qui, a teatro, in questa fastosa cornice, hanno appena visto la “Bohème” e si preparano ad andare a cena con l’accompagnatore o l’accompagnatrice. Ma insomma, è gente contenta di essere all’opera, sorridente, appagata. Con i tempi che corrono può bastare, almeno per questa volta.
Adolfo Andrighetti