Il caso Makropulos e la condanna all’eterna giovinezza
L’enigma, poi, ha più facce come un prisma, che riportano tutte, però, alla personalità della protagonista, la famosa cantante d’opera Emilia Marty. La donna gode da 337 anni di una splendente giovinezza grazie ad una pozione preparata alla fine del ‘500 dal padre, Hieronymus Makropulos, alchimista e medico alla corte di Rodolfo II, per accontentare le smanie di immortalità del sovrano. L’intruglio, sperimentato sulla ragazza, ne ha fissato l’età e l’aspetto fisico in una seducente giovinezza, che le ha permesso di attraversare i secoli sempre bellissima ed ammirata, anche se costretta ad assumere nel tempo diverse identità.
Ma se il corpo rimane integro, l’anima invecchia e la stanchezza degli amori interrotti, dei figli abbandonati, della ripetitività delle emozioni e delle esperienze, tragico prezzo da pagare all’eterna giovinezza donatale dal filtro, si è accumulata anno dopo anno sino a inaridire il cuore della donna, vittima ormai di un’insopprimibile nausea esistenziale. La vita protratta innaturalmente oltre ogni limite ha fatto di Emilia un automa indifferente a tutto, privo di sentimenti ed incapace di amare.
L’anima desolata, abbandonata dalla gioia e dalla speranza, della protagonista di “Věk Makropulos” ricorda il ritratto che Dorian Gray, nell’omonimo romanzo di Oscar Wilde del 1890, lascia in sua vece invecchiare e portare i segni dell’egoismo e della dissipazione. Dorian conserva una luminosa giovinezza ma la vecchiaia fisica e morale deforma i tratti della sua immagine dipinta, metafora del suo vero io che si corrompe poco per volta dentro di lui; anche Emilia rimane sempre giovane ed ammirata per la sua bellezza e per le doti artistiche, ma il suo ritratto interiore, cioè il suo cuore, si sclerotizza, si mummifica, fino a svuotarla di ogni umanità. Anche il finale è simile, pur nell’apparente diversità. Entrambi i personaggi, infatti, recuperano la loro identità autentica nella ricomposizione di quella frattura fra corpo ed anima che li aveva spinti all’alienazione. Dorian Gray viene ritrovato morto e decrepito con un coltello conficcato nel cuore ai piedi del ritratto ritornato alla sua giovanile immagine originaria; Emilia, invece, capisce che per recuperare se stessa e l’umanità perduta c’è soltanto una strada: rinunciare per sempre alla pozione ed accettare ciò che accomuna tutti gli esseri umani e ne costituisce insieme il limite tragico e la misteriosa grandezza, cioè la morte.
L’allestimento, coprodotto dalla Fenice con l’Opera National du Rhin di Strasburgo e lo Staatstheater di Norimberga, era molto atteso per la regia di Robert Carsen, che si è avvalso delle scene di Radu Boruzescu, dei costumi di Miruna Boruzescu (molto belli e teatralmente efficaci le une e gli altri), delle luci di Peter Van Praet. Il risultato è uno spettacolo elegante, gradevole ed equilibrato, ambientato all’epoca dei fatti e cioè intorno agli anni venti del secolo scorso; uno spettacolo contraddistinto, come da marchio di fabbrica, dall’accurato e prezioso lavoro svolto sui singoli personaggi, ciascuno dei quali viene caratterizzato in maniera da possedere una personalità teatrale precisa e distinta da quella degli altri.
Il tutto prende avvio con un’invenzione molto felice: quella di presentare, sulle note del preludio orchestrale, Emilia Marty che si riveste via via dei ricchi panni che hanno accompagnato il suo essere primadonna dalla fine del XVI secolo agli inizi del XX, lungo tutto l’arco temporale che l’ha vista nel suo splendore di diva idolatrata sulle scene e irresistibile nel privato. Il divismo, inteso come capacità di seduzione assoluta in ogni espressione della vita, è infatti la cifra identificativa di Emilia Marty. Rimane latente nel primo atto, ambientato in uno studio legale chiuso e soffocante, che sembra odorare di polvere e vecchi scartafacci. L’ambiente è reso con tre librerie cariche di incartamenti ed una scrivania, anch’essa appesantita da testi giuridici. Qui Emilia Marty si muove con una certa circospezione, non è il suo mondo, ma la sua personalità magnetica ed inquietante lascia ugualmente il segno, accendendo la passione in Gregor e la sorpresa in tutti per le straordinarie informazioni di cui è in possesso sulla causa ereditaria in corso.
Nel secondo atto, invece, si assiste alla celebrazione della grandezza della diva, collocata, al termine di una recita ovviamente trionfale, in un camerino assurdamente e sfacciatamente lussuoso, quasi un tempietto orientaleggiante laccato in rosso e oro, con sagome di draghi che si susseguono verso il fondo del palcoscenico fino ad una sorta di trono – canapè degno di una regina dell’arte e insieme della seduzione erotica. Qui Emilia Marty riceve l’omaggio degli ammiratori adoranti, tutti li disprezza e tutti li maltratta. Qui la divina, inaccessibile nel proprio orgoglio, mostra l’unico punto debole: quella busta sigillata in cui è chiuso il segreto della sua eterna giovinezza e di cui deve rientrare in possesso prima possibile, pena quella dissoluzione fisica che, in assenza della pozione paterna, non potrebbe più rinviare.
Nel terzo atto, quando Emilia Marty è assediata dalle domande di tutti e l’incredibile verità si fa strada poco a poco, non c’è più traccia del culto della diva. Ora è la donna che viene a galla. La scena è ambientata in una stanza anonima, disseminata di vestiti sparsi dappertutto, in cui Emilia si aggira facendosi coraggio col whisky, mentre le sue difese vacillano sempre più.
La suggestiva scena finale, la più intensa dello spettacolo, accompagna una musica che si fa più eloquente e passionale, in corrispondenza alla ritrovata umanità della protagonista. Al centro di un palcoscenico completamente vuoto Emilia Marty è sola e si rivolge direttamente al pubblico, comunicandogli la desolazione di una vita protratta oltre il limite naturale. La diva inaccessibile, vera e propria principessa di gelo, torna ad essere una donna che si prepara al passo più umano che ci sia, quello della morte. Ed Emilia, calva a rappresentare il limite fisico del genere umano destinato al declino biologico e alla dissoluzione, non è mai così se stessa come in questo momento; quando può abbracciare finalmente la morte, verso la quale si incammina allontanandosi, sulle ultime note della partitura, verso il fondo del palcoscenico fortemente illuminato: il passo d’addio di una diva che si è decisa per il reale.
Qualche attimo prima Emilia Marty ha pronunciato le ultime parole della sua vita nel greco di Elina Makropulos, la sua identità originaria: “Patèr hemòn”, Padre nostro. Quasi un ritorno all’infanzia, alle radici della sua umanità, che le permette ora di mormorare, nella sua lingua madre, la prima frase della preghiera universale, in un’invocazione al Padre misericordioso che suona come la redenzione finale di una vita oltre ogni limite.
E‘ questa la scena più eloquente di uno spettacolo curato, ben architettato e riuscito, ma che emoziona meno rispetto ad altre interpretazioni di Carsen. E’ probabile dipenda anche dall’opera, cerebrale, poco teatrale, basata su di una trama troppo articolata nei suoi complicati rimandi da una generazione all’altra, da una parentela all’altra, anche se l’assunto di fondo è semplice, efficace ed essenziale; un’opera che potrebbe anche annoiare per la monotonia della parte cantata, ridotta ad un interminabile recitativo, se non fosse per il cangiante e suggestivo tessuto orchestrale, sempre in grado di catturare l’attenzione dello spettatore con l’iterazione e l’alternarsi nervoso dei suoi brevi, incisivi temi musicali.
Il soprano spagnolo Ángeles Blancas Gulín, nel ruolo della protagonista, conferma la propria capacità, già ampiamente dimostrata nella “Lou Salomé” di Sinopoli che ha inaugurato la scorsa stagione operistica, di calarsi nei ruoli del teatro d’opera novecentesco con penetrante sensibilità drammatica, emozionante forza di immedesimazione, sicura musicalità, solida prestanza vocale. Sono ruoli ardui, logoranti sul piano psicologico e impegnativi per la voce, spesso chiamata ad esprimersi in tessiture impervie. Così è anche per Emilia Marty, che richiede una dedizione interpretativa assoluta e una piena disponibilità del corpo e della voce al servizio del personaggio, per rendere credibile la figura di questa donna condannata all’eterna giovinezza. Ángeles Blancas Gulín onora il ruolo da artista vera, di classe cristallina, e il pubblico la ricambia con acclamazioni sonore come quelle che venivano tributate alla Marty.
Attorno al soprano spagnolo, un cast cosmopolita, agguerrito sul piano teatrale (grande Carsen...) ed efficace su quello vocale, sempre e perfettamente in parte. Citeremo almeno i cèchi Martin Bárta, baritono, robusto e sonoro Prus, e Ladislav Elgr, tenore, Gregor forzato in acuto; i bravi tenori italiani Enrico Casari (Janek) e Leonardo Cortellazzi (l’archivista Vítek); il tenore svizzero Andreas Jäggi, spiritoso conte Hauk-Šendorf; il baritono italo-spagnolo Enric Martínez-Castignani, azzeccatissimo avvocato Kolenatý.
Sul podio Gabriele Ferro è interprete sicuro e sensibile della partitura, di cui evidenzia gli sparsi accenni melodici, conferendo sicurezza sia alla buca sia al palcoscenico.
Adolfo Andrighetti