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Una cambiale perfettamente onorata al Teatro Malibran

26/03/2013
Trattare un matrimonio come un qualunque affare commerciale è la trovata comica, non esente da una punzecchiatura ironica assestata all’avidità e alla grettezza della borghesia mercantile dell’epoca, che sta alla base dell’opera con cui il diciottenne Gioacchino Rossini fa il suo scoppiettante esordio sulle scene: “La cambiale di matrimonio”, farsa in un atto su libretto di Gaetano Rossi, tratto dalla commedia “Il matrimonio per lettera di cambio” di Camillo Federici, commissionata a Rossini dal Teatro S. Moisè di Venezia e ivi rappresentata il 3 novembre 1810.

In effetti il pungiglione satirico risulta in parte smussato dal fatto che la vicenda è ambientata in Gran Bretagna e le parti, per così dire, del contratto sono l’inglese Tobia Mill e il suo corrispondente commerciale canadese Slook. Ma è probabile che i due tipi umani, per quanto sgrossati alla buona come si addiceva alle esigenze di intrattenimento della farsa e alla sua breve durata, abbiano suggerito agli spettatori dell’epoca gustosi paralleli con personaggi influenti e ben noti in società; e che quel matrimonio, trattato sul palcoscenico come un affare, ne richiamasse alla memoria altri di reali, condotti, a parte ovviamente l’esagerazione farsesca, sulla stessa linea e in base agli stessi principi, come nelle classi abbienti non doveva essere poi così inconsueto.

Tuttavia la grettezza mercantile dei due personaggi è diversa: più sempliciotta quella di Slook, che, secondo i metodi spicci ritenuti in uso nel Nuovo Mondo, pensa di poter commissionare l’acquisto di una moglie come se si trattasse di una merce qualunque; più avida e calcolatrice quella di Mill, che coglie la palla al balzo dell’assurdo incarico assegnatogli dal socio per cercare di accasarlo con la figlia Fannì, combinando così un matrimonio molto conveniente sul piano economico.

Le vicende successive si svolgono più o meno secondo il canovaccio consueto di questo genere teatrale. Grazie all’aiuto del cassiere di Mill, Norton e soprattutto alla generosità di Slook, rozzo sì ma dal cuore buono e facile ad intenerirsi, Fannì può sposare il giovane di cui è innamorata, Edoardo, cui il commerciante canadese gira la cambiale di matrimonio, rendendolo nello stesso tempo suo erede universale. Mill, a questo punto, non interessandogli tanto l’identità del genero quanto che il patrimonio di Slook arrivi comunque in famiglia, si adatta volentieri alla nuova situazione e il lieto fine conclude la vicenda.

“La cambiale di matrimonio” è in questi giorni sulle scene del teatro Malibran come terza tappa di quel percorso attraverso le farse rappresentate da Rossini a Venezia attraverso il quale ci sta conducendo la Scuola di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, anche questa volta, come nelle precedenti “L’inganno felice” e “L’occasione fa il ladro”, responsabile di scene, costumi e luci. E anche questa volta il lavoro piace, pur nella sua semplicità, perché del tutto funzionale alla regia di Enzo Dara, che, fra le scansie lignee della bottega di Tobia Mill ove i tessuti avvolti e soprattutto svolti possiedono una precisa e spiritosa funzione scenografica, trova la cornice ideale per ambientare la vicenda.

Enzo Dara, si sa, è stato un maestro del repertorio buffo, un basso comico fra i maggiori del secolo scorso. Ma oggi che ha 75 anni e, oltre a scrivere (bene), fa il regista, non c’è bisogno di ricordare le sue glorie trascorse per apprezzare il lavoro che sa fare dietro le quinte, forte non solo di un’esperienza ma anche di un’intelligenza di cui ha sempre dato prova in una carriera di cantante protratta ai più alti livelli per oltre quarant’anni.

Dara, in effetti, anche al Malibran si è dimostrato padrone del palcoscenico da regista così come lo era da basso comico. Il suo lavoro è improntato non sulle gag, quasi del tutto assenti e quando presenti molto azzeccate, come i goffi ed inutili tentativi di abbracciarsi fra Mill e Slook, ma sul ritmo vorticoso che viene impresso alla vicenda. Così come avviene del resto nella musica di Rossini, la fonte della comicità è il ritmo, non le gag o caccole, come Dara le chiama in gergo teatrale. Ne deriva una perfetta sintonia fra ciò che si ascolta e ciò che si vede, il che è merito non comune in un’epoca in cui le regie, anche le più intelligentemente creative, presentano talvolta un evidente contrasto con le atmosfere evocate dalla musica. Il risultato è un’allegria contagiosa, una prorompente vitalità, che dal palcoscenico si allarga sulla platea, la avvolge e se la porta via, scaricandosi poi nell’esplosione degli applausi finali.

Insomma, occorrerebbe intingere la penna nello champagne (o nel prosecco?) per rendere onore ad una regia così frizzante e vivace. Due trovate, invece, si aggiungono alla vicenda come un contributo ulteriore ad una concezione registica già di per sé calibratissima. Una è molto felice sul piano teatrale ed è quella dei Pulcinella che compaiono di tanto in tanto, come inservienti goffi e pasticcioni di Tobia Mill, a vivacizzare la scena, qualora, non sia mai, potesse dare dei segnali di stanca. L’altra, invece, cioè l’ambientazione veneziana, resta come artificialmente appiccicata all’allestimento, cui non aggiunge e non toglie nulla; forse una captatio benevolentiae nei confronti della città di cui non c’era bisogno.

Insieme alla regia di Enzo Dara, ha impressionato molto positivamente il lavoro di Stefano Montanari, che sa ottenere dall’ottima Orchestra della Fenice un suono soffice, elegante, leggero e trasparente, assolutamente in sintonia con lo stile dell’epoca; preziose qualità che non vengono meno quando il maestro asseconda lo scatenarsi ritmico di questo Rossini giovanissimo eppure artisticamente già maturo, suscitando una serrata, vivacissima cascata di suoni scintillanti e lucenti come cristalli. Bravissimo, veramente.

Il cast è all’altezza. In una farsa, anzi in una “farsa comica” come recita il libretto quasi a voler ribadire il concetto, sono i buffi a farla da padroni. Quando poi si tratta di rossiniani di razza come i baritoni Omar Montanari e Marco Filippo Romano, che divertono e si divertono come se il palcoscenico fosse casa loro, il successo è assicurato e gli applausi scrosciano. Montanari è un Tobia Mill agitatissimo, quasi nevrotico, incapace di darsi requie. Una caratteristica che si riflette anche nel canto, più agitato, scandito e meno disteso di quello del collega Romano, uno Slook che trova nel suo frequente richiamo alla flemma, pur all’interno di una concezione registica che non concede e non si concede un istante di tregua, la propria cifra distintiva. Comunque sia, una bella coppia di buffi, che proprio nella sottolineatura delle reciproche differenze caratteriali trovano il modo di valorizzarsi come solisti sul piano vocale come su quello teatrale.

Una piacevole sorpresa è risultata la Fannì del soprano Marina Bucciarelli, dalla vocalità freschissima e fragrante, ben impostata tecnicamente (eh già, è allieva di Mariella Devia...), con un suono proiettato come si deve che corre per tutto il teatro. Molto bene anche la Clarina del giovane soprano Rossella Locatelli e il Norton dell’esperto baritono Armando Gabba. Suscettibile di un’ulteriore maturazione teatrale e vocale l’Edoardo del promettente tenore Giorgio Misseri.

Adolfo Andrighetti

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