La scuola degli amanti lascia l’amaro in bocca agli allievi
Sembra, ovviamente, ma forse non è, secondo la natura mercuriale di quest’opera, che non si lascia mai trattenere da qualunque parte la si voglia afferrare; perché non va dimenticato che la conclusione vede le due coppie originali ricostituite e rappacificate, e se a noi sembra, e non a torto, che si tratti di una riconciliazione alquanto forzata e precaria, pur tuttavia non si può ignorare il dato di fatto, secondo il quale Ferrando torna a dare la mano a Dorabella e Guglielmo a Fiordiligi come all’inizio dell’opera, quando ai due uomini non era ancora chiaro che “così fan tutte”. Né si può escludere a priori che la dura lezione impartita da Don Alfonso ai quattro giovani possa loro servire e avviarli ad una maturità affettiva in cui trovi posto la consapevolezza che nessuna relazione umana può reggere senza la fiducia reciproca ed una tendenziale stabilità.
Ancora più arduo è capire se lo scambio di coppie sia avvenuto con la piena complicità delle due ragazze, perfettamente consapevoli della reale identità dei due nobili albanesi, o se sia preferibile dare credito alla scelta del libretto, che ci parla della totale buona fede delle due sorelle. La prima soluzione si fa preferire non tanto perché più realistica (il realismo non ha nulla a che fare con la finzione teatrale, che fa passare anche Despina nei panni prima di un medico mesmerico e poi di un notaio), ma perché più maliziosa e, come si sente dire, più “moderna”, cioè più intonata al nichilismo umano oggi di moda. La seconda soluzione può sembrare meno charmant perché ancorata al libretto e perché in apparenza (sì, in apparenza) meno spregiudicata, ma ha il vantaggio di prendere sul serio il travaglio psicologico vissuto dalle due ragazze, i cui dubbi ed i cui rimorsi prima di cedere sono espressi da Mozart con drammaticità autentica. E poi, non è forse più corrispondente a quella legge di natura, che Don Alfonso vuole alla base del proprio esperimento, l’attrazione tanto imprevedibile quanto irresistibile per due sconosciuti, piuttosto che la consapevole, volgare trasgressione, frutto più del cervello che dell’istinto?
Forse. Perché la grandezza di un’opera, cioè la sua universalità, si misura anche sulla sua capacità di prestarsi ad infinite analisi per non dare piena soddisfazione ad alcuna; cioè sul fatto di mantenere, nel proprio nucleo più intimo, un mistero che le indagini più raffinate non riescono ad eliminare, anzi contribuiscono ad alimentare. Un mistero da rispettare, alla fine, accettando che il genio ci mandi dei segnali non contraddittori ma polivalenti, con i quali vuole comunicarci il suo pensiero circa il carattere cangiante e imprevedibile della natura umana.
Questo “Così fan tutte” della Fenice conferma, alla seconda visione, ciò che era apparso evidente sin dalla prima rappresentazione dell’anno scorso: l’importanza fondamentale, cioè, nell’economia dello spettacolo, della sua componente teatrale, affidata a Damiano Michieletto per la regia, a Paolo Fantin per le scene, a Carla Teti per i costumi, a Fabio Barettin per le luci; una componente teatrale sorprendente per la straordinaria vivacità impressa all’azione, che si snoda secondo un ritmo vorticoso e trascinante che non lascia un attimo di respiro allo spettatore. In un contesto così movimentato non sono quindi le singole trovate a colpire, ma il loro alternarsi a velocità supersonica all’interno di uno spettacolo che ti afferra all’inizio e poi non ti molla più, trascinandoti con sé su e giù, avanti e indietro, senza un attimo di pausa.
Viene messo in scena, così, quello stordimento fine a se stesso, quel piroettare allegramente sul nulla, che, secondo Michieletto ed il suo staff, è la cifra di “Così fan tutte” e insieme della nostra civiltà. Non per niente la vicenda è ambientata in un oggi vuoto e fatto solo di esteriorità più o meno appariscente: un albergone moderno rispondente a quello stile da anonimo design internazionale ben noto a chi viaggia, dove i rapporti umani sono sterilizzati e falsati in partenza dalla provvisorietà connessa ad un luogo di puro transito. Un albergo così finto-elegante con il suo arredamento freddo e standardizzato, così finto-accogliente finché i drink possono creare un artificioso calore umano in sostituzione di quello vero, così finto-dinamico con quel correre dappertutto chissà dove e chissà a far che; un albergo così, ci suggerisce Michieletto, è metafora perfetta del nostro tempo: dove si fa tutto, si va dappertutto, forse si vive intensamente, forse ci si diverte anche, ma non si sa perché, non si capisce il senso di tutto questo agitarsi. E allora ci si torna ad agitare, sempre più freneticamente, per non ascoltare cuore e ragione che ti chiedono insistentemente: perché? Perché?
Ma compensare il vuoto esistenziale con la frenesia e lo stordimento è un bluff che non può durare; prima o poi giunge il momento di mettere le carte in tavola. E così Michieletto, in coerenza con la sua concezione registica, ci dona una scena finale di geniale e raggelante ferocia, ove si scopre che “la scuola degli amanti” messa in piedi da Don Alfonso non conduce ad una rappacificazione generale attraverso una serena comprensione delle reciproche debolezze, ma alla disperazione: quella dei quattro giovani, che si strattonano con rabbia perché il loro sogno d’amore si è infranto e rimetterne insieme i cocci appare impossibile; quella di Despina, che piange sconsolata perché si è accorta di quanto male abbia provocato la sua spregiudicatezza alimentata dall’avidità; quella di Don Alfonso, che conclude la sua docenza completamente ubriaco, perché il nichilismo fa male anche ad uno come lui, che ha smesso da tempo a credere in qualcosa.
La parte musicale è condotta con esito alterno da Antonello Manacorda. Il maestro tende ad essere sbrigativo ed energico fino alla ruvidezza, imponendo dinamiche fragorose e tempi accelerati corrispondenti allo spirito dello spettacolo di Michieletto (emblematica in questo senso è l’ouverture), ma talvolta indugia in lentezze eccessive e troppo compiaciute; in entrambi i casi non sembra concedere il necessario respiro ai cantanti né rendere il giusto onore ad una partitura così intrigante e sfaccettata.
Il cast si segnala per la lodevole adesione al progetto registico e per la credibilità teatrale dei diversi interpreti. Fiordiligi (il soprano svedese Maria Bengtsson), Dorabella (il mezzosoprano catanese Josè Maria Lo Monaco) e Despina (il soprano napoletano Caterina di Tonno) sono le stesse già apprezzate l’anno scorso. Si mettono in evidenza non solo per il professionale rendimento vocale, ma, più ancora, per la convinzione e l’efficacia con cui si calano nei rispettivi personaggi, dando vita a delle caratterizzazioni riuscitissime. Così, non si sa se ammirare di più la statuaria e un filo algida Fiordiligi (eh già, è l’ultima a cedere...), o l’effervescente Dorabella tutta pepe, oppure la volgarotta e “vissuta” Despina.
Gli uomini, invece, sono tutti nuovi e rappresentano una sorpresa positiva. Il basso asolano Luca Tittoto è un Don Alfonso impeccabile per la bravura con cui rende il personaggio voluto dalla regia: in apparenza distaccato e sicuro di sé, freddo analista delle debolezze umane, in realtà nichilista disperato che cerca di compensare con l’alcool e qualche residua pulsione sessuale il vuoto pneumatico in cui si trova a vivere. Lo strumento, poi, corposo, timbrato e ben impostato, lo sostiene sempre in maniera adeguata. Gli altri due uomini, il tenore fiorentino Anicio Zorzi Giustiniani e il baritono di Desenzano Alessio Arduini, si segnalano per la divertita spigliatezza, non disgiunta da un pizzico di goliardica gaglioffaggine, con cui incarnano i rispettivi personaggi di Ferrando e Guglielmo, ai quali conferiscono piena credibilità scenica e psicologica. Vocalmente, poi, i due artisti presentano doti interessanti. Il tenore mette un’adeguata impostazione al servizio di un timbro prezioso ed accattivante; il baritono, appena ventiseienne, usa con sicurezza uno strumento importante, che potrà dargli delle soddisfazioni se saprà ammorbidire l’emissione e calibrare meglio le dinamiche soprattutto nel forte.
Alla recita domenicale cui si riferiscono queste note, l’ultima di “Così fan tutte”, tutti i cantanti e il puntuale coro del Teatro istruito da Claudio Marino Moretti hanno riscosso un successo pieno e cordiale. Nei confronti del direttore, invece, gli applausi si sono mescolati a qualche dissenso.
Adolfo Andrighetti
Foto: Mozart, "Così fan tutte" foto Michele Crosera