Alla Fenice la solitudine cosmica di Cio-Cio-San
La solitudine, infatti, sembra la compagna più fedele e costante di questa ragazza, chiusa in un mondo inaccessibile agli altri. La sua scelta di sposare non solo Pinkerton ma, insieme a lui, tutta la civiltà americana, con uno strappo che ha l’espressione più vistosa nella conversione al Cristianesimo, la stacca irrimediabilmente dal suo mondo delle origini. Nello stesso tempo la nuova cultura è ben lontana dall’accoglierla; lei è una sposa “all’uso giapponese”, che si può ripudiare in qualunque momento, non “una vera sposa americana”. Per cui la ragazza, che crede di essersi integrata con il matrimonio nella realtà occidentale, viene respinta da quest’ultima verso quella società giapponese che l’ha ripudiata dopo che lei ne ha rigettato i presupposti culturali e religiosi.
Butterfly, quindi, è una figlia di nessuno, una povera creatura che ha abbandonato un porto senza riuscire ad approdare in un altro ed ora è in balia degli eventi. Nulla da meravigliarsi, quindi, se la sua dimensione diventa quella di un sempre più accentuato distacco dalla realtà.
Al mondo giapponese ha dato un addio definitivo, senza rimpianti, nel momento in cui ha deciso di cambiare vita sposando Pinkerton. Il rifiuto della proposta di Yamadori, che le offre una brillante soluzione ai problemi suoi e del figlio, è assurdo, ma coerente con le premesse: lei non appartiene più a quel mondo e il ritornarvi lo vede non come un’accettazione della realtà ma come un tradimento ad una scelta di vita. Anche Suzuki non può seguirla nell’isolamento in cui si è racchiusa; la sua presenza è affettuosa, partecipe, ma rimane esterna al dramma che vive Butterfly, lo guarda da fuori, lo compatisce ma non lo condivide.
Sull’altro versante è ancora peggio. Il mondo occidentale, in cui la ragazza ha cercato nuova casa e nuova patria, le ha chiuso definitivamente la porta in faccia con il rifiuto di Pinkerton, né l’atteggiamento paterno di Sharpless può sostituire quell’amore che non c’è più e che era la chiave per l’ingresso nella nuova vita.
Del resto, nella dimensione onirica, astratta, in cui si è rifugiata, chi può raggiungerla, chi può soccorrerla la piccola farfalla? La sua è una torre d’avorio inaccessibile agli estranei, un mondo sublimato in cui Butterfly è comprensibile solo a se stessa ed ermetica per tutti gli altri. Giustamente, quindi, si è parlato di monodramma psicoanalitico a proposito di “Madama Butterfly”. Nell’opera c’è solo lei, chiusa nel suo mondo; gli altri personaggi le ruotano attorno come delle immagini evocate dalla sua stessa mente ma sono privi di autonomia drammatica.
Alla fine il suicidio giunge come l’unica soluzione conseguente: quando la realtà, rifiutata fino all’ultimo istante possibile, si rende presente con la sua cruda evidenza e fa esplodere la bolla in cui Butterfly si è racchiusa confermandola nella sua solitudine ontologica, assoluta, non resta che la morte.
La solitudine di Butterfly all’interno di una realtà che le ruota attorno ma le rimane estranea è al centro anche del nuovo allestimento dell’opera in programma in questi giorni alla Fenice, frutto della collaborazione del Teatro con la Biennale. “Madama Butterfly”, spettacolo d’apertura del festival “Lo spirito della musica di Venezia”, viene presentata infatti come progetto speciale della 55^ Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale e affidata alla regia del direttore della Biennale Teatro, lo spagnolo Alex Rigola, mentre scene e costumi portano la firma prestigiosa di Mariko Mori, artista giapponese di primo piano nel panorama artistico internazionale.
Il risultato è una “Madama Butterfly” suggestiva e tutta concentrata, focalizzata intorno al suo nucleo drammatico, in virtù di un allestimento completamente astratto e privo di quelle connotazioni naturalistiche o descrittive che allentano la tensione della vicenda, spostando l’attenzione sui suoi aspetti collaterali. Qui la scena è completamente vuota, immersa spesso in un bianco limpido, asettico, abbacinante nella sua capacità di riflettere la luce. Anche i costumi dei protagonisti, del resto, molto belli nella loro semplicità, sono bianchi, tranne l’elegante obi nuziale di Cio-Cio-San, che presenta delicate sfumature pastello come gli abiti dei suoi parenti. Del tutto intonate all’insieme anche le acconciature di carta realizzate dall’head-maker milliner by Kamo.
Il candore iniziale della scena può assumere altre, lattiginose colorazioni nel corso dello spettacolo (suggestive ed evocatrici le luci di Albert Faura), così come la nudità del palcoscenico viene compensata in qualche modo da una struttura elicoidale di forma irregolare, prima sospesa in alto, poi calata sul pavimento, forse a simboleggiare l’intreccio sempre imperfetto fra mondo occidentale e mondo orientale. Ma, nell’insieme, l’immagine che rimanda questo spettacolo è quella di una solitudine immensa, cosmica, in cui Cio-Cio-San è immersa e da cui nulla la può far uscire. Le immagini ricche di una fascino arcano che vengono proiettate durante l’intermezzo che accompagna la veglia di Butterfly in attesa del suo Pinkerton, nella loro dimensione onirica e vagamente allucinatoria parlano proprio di spazi sconfinati, di dimensioni senza tempo, in cui la mente della ragazza si perde là dove nessuno può più raggiungerla. Sono quei mondi remoti, ineffabili, dove spiccano il volo le farfalle la cui immagine simbolica accompagna delicatamente le ultime battute dell’opera; Butterfly non sa più dove posarsi dopo che il suo mondo è crollato e non le resta che spiegare le ali in quell’eternità senza tempo e senza spazio in cui la realtà non la può più toccare.
In uno spettacolo tutto imperniato su scene e costumi la regia svolge un prezioso ruolo di supporto, sostenendo ed accompagnando senza travalicare. Forse soprano e tenore vengono mandati troppo spesso al proscenio a cantare i loro pezzi solistici, ma qualche tocco di classe non manca. Ci si riferisce non tanto alle tre ballerine biancovestite, una presenza in fondo superflua seppure talvolta elegante, o al coro a bocca chiusa, eseguito in platea sui due lati della sala. Ma soprattutto alla concezione del personaggio di Suzuki, di rara intensità teatrale; e alla insolita attenzione dedicata a Dolore, il figlio di Cio-Cio-san, troppo grande come al solito per essere il frutto di un amore sbocciato solo tre anni prima, ma così vero e tenero nell’atteggiamento con cui appoggia la fronte sul petto della madre oppure abbraccia forte forte Sharpless cui dovrebbe solo stringere la mano, quasi alla ricerca di quella sicurezza che può dargli solo una figura paterna, fino a quel momento assente nella sua vita. Sono questi degli spunti che potrebbero essere tenuti presenti in una concezione dell’opera che volesse giocare maggiormente sugli aspetti umani della vicenda.
Il bello è che questa lettura teatrale, una sorta di zoom aperto continuamente, ossessivamente, sulla protagonista, a metterne a fuoco e a portarne in primo piano il dramma, è completamente in sintonia con la concezione che Giacomo Sagripanti, maestro concertatore e direttore, ha dell’opera e che il soprano Amarilli Nizza ha del personaggio protagonista.
Il trentunenne Sagripanti punta sulla concitazione drammatica, sulla intensità degli effetti, arroventando il clima sin dalle prime battute, a costo di sacrificare le delicate nuance timbriche che caratterizzano la partitura. Con lui ci si immerge da subito nel pieno della tragedia e si corre veloci ed emozionati fino alla conclusione, ove si giunge un po’ senza fiato ma anche commossi.
In questo senso, Amarilli Nizza è la Butterfly di Sagripanti. La temperamentosa cantante, artista di razza in grado di entrare in empatia col pubblico stabilendo con lui una relazione di complicità quasi magnetica, si cala nel personaggio con impressionante intensità emotiva, dando tutta se stessa. La sua interpretazione è di una credibilità assoluta proprio perché artista e donna vi si mettono in gioco entrambe, in una performance che comporta una partecipazione integrale, una sofferenza autentica per la cantante. In questo contesto non possono considerarsi dei difetti, ma piuttosto degli elementi caratterizzanti un’interpretazione che privilegia l’efficacia comunicativa sulla perfezione formale, sia alcune asprezze del timbro sia qualche sparsa menda nella linea vocale. E il pubblico si esalta per la generosità con cui il soprano si dona, tributandole una inconsueta standing ovation.
Accanto a lei, in un cast di livello, la Suzuki dolente e ripiegata su se stessa del mezzosoprano Manuela Custer, eccellente anche per la notevole autorevolezza vocale; e lo Sharpless molto ben caratterizzato del baritono bulgaro Vladimir Stoyanov, dalla morbida e rotonda vocalità messa al servizio delle paterne ed inutili raccomandazioni del Console.
Più sfumato il ragionamento su Pinkerton, il tenore basco Andeka Gorrotxategui. Il giovane artista era già stato ascoltato, e non senza perplessità, alla Fenice ne “I masnadieri” di Verdi, ove il ruolo di Carlo Moor richiede una linea di canto ispirata ai modelli romantici in termini di legato, omogeneità di emissione e nobiltà di accento. Come Pinkerton se la cava un po’ meglio e si riesce a cogliere le potenzialità di una voce importante in natura per i centri di un bel colore brunito dalle risonanze baritonali e una zona acuta potente anche se non sempre controllata a dovere. Ma la resa dell’artista è ancora discontinua, seppure in crescendo nel corso della rappresentazione; e un’emissione ancora poco fluida e spontanea non è il viatico migliore per interpretare Pinkerton come si deve.
Da segnalare ancora il Goro del tenore Nicola Pamio, ben caratterizzato scenicamente ma dall’intonazione ondivaga; lo Zio Bonzo tonante e nulla più del basso Riccardo Ferrari; il corretto e gradevole Principe Yamadori del trentaduenne basso-baritono veneziano William Corrò. Sempre più bravo e sicuro il coro del Teatro, diretto da Claudio Marino Moretti.
Al termine della domenicale, successo caldissimo per tutti e trionfo per Amarilli Nizza.
Adolfo Andrighetti