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Chantal Akerman a Venezia Classici

10/09/2013
Sin dai suoi primi corti e lungometraggi, Chantal Akerman segue le orme dell’avanguardia newyorkese, sperimentando un cinema alla ricerca della verità che solo una macchina da presa, attraverso l’esplorazione dello spazio e la registrazione degli avvenimenti nella loro durata reale, è in grado di svelare. La sua produzione è a cavallo tra finzione, documentario ed installazioni video, percorsa da uno stile burlesco spesso autobiografico che comprende anche commedie. Akerman esprime sempre un rapporto complesso con i luoghi, gli oggetti, gli altri e con sé stessa, con la sua storia personale e le sue origini (la sua famiglia di origini polacche ha vissuto la deportazione). Umanamente è una persona di immensa vulnerabilità ma anche di incredibile coraggio: quali altri registi avrebbero offerto al loro produttore in bancarotta tutte le loro risorse come fece lei nel 2008 con Paolo Branco? I suoi films testimoniano un’abilità creativa, un gusto per la sperimentazione narrativa ed un rigore per l’osservazione documentaristica che le consentono un’indagine dei comportamenti umani di rara acutezza. Il suo cinema tende a sdrammatizzare e rifiuta le tradizionali convenzioni narrative, a favore di una destrutturazione del racconto attraverso l’uso del piano sequenza e del tempo reale.

‘’Hotel Monterey’’, che la sezione Classici DOC presenta insieme a ‘’15/8 ‘’, del 1970, è uno dei suoi primissimi lavori, un documentario quasi interamente muto, su di un residence di N.Y popolato soprattutto da anziani ospiti. Il film ha una struttura minimalista: una ripresa dietro l’altra in giro per l’albergo, dalla reception, agli ascensori, ai corridoi ed alle stanze, qualcuna animata da personaggi, altre totalmente deserte. Akerman mantiene una prospettiva lontana e distaccata, riprendendo le persone quasi sempre a distanza, spesso in pose statiche, mentre stanno di fronte alla cinepresa, talvolta fissando l’obbiettivo. Altre volte Akerman sembra spiare i rari esseri umani che abitano l’albergo,come quando riprende una donna addormentata attraverso una porta che lentamente si chiude, mentre la macchina resta ferma in asettica osservazione, o la donna incinta seduta, stretta tra il corridoio e la porta. C’è qualcosa di indistintamente surreale nel film, nonostante il semplice distacco con cui Akerman riprende le scene. I colori sono brillanti e vistosi, dal giallo vomito delle pareti dei corridoi al rosso ruggine dei copriletto nelle stanze, alle tende con disegni floreali che pendono alle finestre. La regista filma in modo che le fonti di luce diventino incandescenti ed accecanti, gettando strisce ed aureole di luce bianchissima sui muri, mentre le ombre sono nere e spesse, zone impenetrabili in cui qualsiasi cosa potrebbe essere in agguato. Questo stile altamente contrastato rende l’hotel indicibilmente raccapricciante, otto anni prima, va sottolineato, che Kubrik descrivesse gli orrori del suo Overlook Hotel in ‘’Shining’’. Akerman usa inquadrature rigidamente formali e colori sgargianti per fare di un albergo un luogo denso d’instabilità e d’indefinibile mistero. Spesso mantiene le sue riprese per un lungo periodo di tempo senza che nulla accada. La camera si piazza davanti alla biforcazione di un corridoio, mentre da un lato un ascensore, di tanto in tanto, si anima nel buio con una figura che entra o esce, mentre l’altra via d’uscita è in gran parte fuori vista, sottilmente inquietante. La camera comincia a muoversi solo verso la fine del film, ma una volta che lo fa, la sua lenta traiettoria aggiunge l’impressione di un film dell’orrore silenzioso ed astratto, senza mostri,senza cattivi, solo una soglia misteriosa ed un angolo buio dopo l’altro. Ad un certo punto la camera arranca lentamente dentro un corridoio finché raggiunge un sinistro ‘cul de sac’, soffermandosi brevemente su di una sagoma riflessa sul muro, poi tornando indietro, appena più veloce di quando si è avvicinata, come se si stesse ritraendo, terrorizzata. Allora Akerman ripete il movimento, sebbene questa volta una finestra sia identificabile nell’oscurità alla fine del corridoio, rivelando una fugace visione delle luci della città e del traffico, un breve accenno al mondo esterno che appena tocca questo interno ermetico. Il film è strutturato come un viaggio ascendente attraverso l’albergo, cominciando dalla reception e poi continuando su,piano per piano, in una sorta di salita agli inferi. Finisce al tetto dove la camera riprende con la consueta lentezza il circostante skyline o il cielo soprastante.

Lo stile Akerman si avvicina non solo al rigore di Kubrik ma anche all’amore di Lynch per gli angoli bui, sottolineando quanto di bizzarro ci possa essere nella vita normale. Infatti il film anticipa sicuramente la stranezza fortuita dei lavori di Lynch, l’abitudine di usare locations prosaiche usando lo sguardo indagatore della cinepresa per renderle una sorta di accesso al soprannaturale ed all’irreale.

Mariateresa Crisigiovanni

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