Sangue, sudore, soldi e sesso: è "Carmen" alla Fenice
Bieito, in collaborazione con lo scenografo Alfons Flores, la costumista Mercè Paloma, il responsabile luci Alberto Rodriguez Vega, compie certo una forzatura, ma di straordinario impatto teatrale. Rimuove, cioè, da “Carmen”, che nasce come opera comique, la componente gioiosa e solare, per immergerci in un universo di violenza e corruzione, ambientato nella Spagna della metà del secolo scorso ma in realtà consegnato ad un’universalità atemporale ove ogni riferimento cronologico è inutile; un mondo chiuso e soffocante, dove la speranza di poter respirare un’aria più libera e pura è bandita per sempre.
Qui ogni relazione umana ha un sottofondo di violenza, esplicita o sottintesa. La subiscono le donne, prima di tutto, ridotte ad oggetto di piacere o usate come utile strumento per il malaffare; e le donne, mentre la subiscono, la ricambiano, seppure in maniera meno rozza e più sottile, ricorrendo spregiudicatamente all’arma della seduzione sessuale. Così si comporta Carmen, che usa Don José finché ne ha voglia, costringendolo a gettare alle ortiche la divisa e a farsi contrabbandiere pur di tenerselo vicino, per poi liberarsene non appena l’innamoramento è finito. Una violenza al femminile, dunque, cui risponde nel finale quella maschile, ovviamente brutale e sanguinaria: Don José, più debole di Carmen sul piano psicologico e caratteriale, si sente usato da lei come un amante fra i tanti e reagisce con l’unica arma che lo rende ancora superiore alla donna, quella della forza fisica, pugnalando Carmen sulla Plaza de Toros.
E poi, con la violenza, di cui è spesso causa scatenante, c’è il sesso, concepito come puro sfogo fisiologico, consumato brutalmente e in fretta, strumento di sopraffazione come pochi altri perché vissuto per il piacere fine a se stesso, senza rispetto reciproco, senza comunicazione interpersonale; perché è disumano, in una parola. Ne è espressione amara ed icastica insieme una prostituta bambina, quasi sempre in scena durante l’intero arco dell’opera, avviata affettuosamente al mestiere dalle zingare adulte e dall’anziano Lillas Pastia, torbida figura di nonno-mezzano vestito elegantemente di bianco. E poi i soldi, indispensabile benzina per alimentare il motore di questo universo, simile a un girone infernale. Vogliono guadagnarli i contrabbandieri, certamente, anche utilizzando con spregiudicatezza il sex appeal di Carmen e delle altre ragazze; e li dispensa a piene mani Escamillo, divo al culmine del successo cui Carmen, simbolo forse sopravvalutato di libertà, non può né vuole resistere.
Questi, dunque, gli ingredienti messi insieme e mescolati da Calixto Bieito con la classe di uno chef di primo livello. Il risultato è uno spettacolo curatissimo in ogni particolare e mai banale, che segue un percorso drammaturgico coerente e lo esprime con un linguaggio teatrale di rara efficacia. Del tutto meritato, quindi, il Premio Abbiati conferito nel 2011 dai critici musicali italiani. Uno spettacolo che ti afferra subito alla bocca dello stomaco e non ti molla più fino alla fine, grazie ad un vigore concettuale e ad un’intensità emotiva che lo rendono un’esperienza umana prima ancora che culturale non facilmente dimenticabile. Si possono quindi ignorare alcune forzature che appaiono estranee al filo logico che percorre solido la concezione registica oppure enfatizzano ciò che è già più che esplicito sul piano drammatico.
Sul palcoscenico, i due protagonisti Carmen e Don José appaiono quasi due corpi estranei in quel mondo allucinato, dove tutti si agitano sospinti da un vitalismo animalesco che ha negli istinti di base la propria dinamo. Il mezzosoprano Veronica Simeoni, bravissima e preparata artista in continua ascesa, manca della sfrontatezza fisica e vocale necessaria per dare corpo ad una forza della natura come Carmen, libera ed inafferrabile come il vento, che trova nelle radici misteriose e primordiali della sua identità di femmina e gitana l’energia per essere se stessa. La Carmen di Veronica Simeoni, invece, anche nelle scene più forti, appare troppo per bene, troppo misurata, e figurerebbe meglio in un salotto borghese piuttosto che in una caserma di militari infoiati o in un accampamento di fuorilegge. Non che la sua interpretazione non sia stata valida, anzi; ma forse il personaggio non è ancora del tutto nelle sue corde, psicologiche prima ancora che vocali, e va maturato oppure semplicemente accantonato a favore di ruoli più adatti, più sentiti. Ma l’artista ha classe e temperamento, e canta proprio bene, con una linea impeccabile e un’emissione omogenea priva di forzature. Averne, insomma, al di là del fatto che il ruolo di Carmen le sia più o meno congeniale.
Nel bailamme di sesso e violenza, poi, il Don José di Stefano Secco si muove come spaesato e sulla difensiva. E’ un personaggio spento, snervato, e anche la sua violenza finale su Carmen è la conseguenza di un’impotenza esistenziale, di uno stato di frustrazione giunto al culmine. Anche la sua vocalità appare particolarmente adatta ad esprimere la fragilità di uno sconfitto dalla vita. E’ una vocalità avara, quasi ripiegata su se stessa, priva di slanci e di accensioni liriche. Il timbro è arido, povero di smalto e polpa. E anche l’acuto non si alza mai squillante e liberatorio, ma resta quasi soffocato, come contenuto all’interno di uno stato psicologico represso che non riesce a trovare sfogo. Questo tipo di vocalità, sostenuta da una linea di canto corretta e da un fraseggio sempre pertinente e particolarmente efficace nell’esprimere la disperazione del finale, in uno con un atteggiamento teatrale piuttosto dimesso che non ha nulla del machismo degli altri, fa del Don José di Secco un personaggio decisamente interessante e pienamente inserito nella concezione registica di Bieito.
Il personaggio di Micaela, liberato grazie alla regia dagli atteggiamenti da brava bambina appiccicatigli addosso dalla tradizione e restituito ad una dimensione femminile più vivace e realistica, si giova della bella figura e della voce limpida e ben proiettata del soprano russo non ancora trentenne Ekaterina Bakanova, al quale sembra mancare soltanto un più accurato controllo dell’emissione in zona acuta.
L’Escamillo del basso moscovita Alexander Vinogradov ci regala una spettacolare aria del Toreador, in cui finalmente si ascolta un’interprete gigioneggiare come si deve anziché attestarsi sulla difensiva per pagare il minor dazio possibile all’ardua tessitura. Qui, invece, gravi ed acuti sono affrontati con la stessa baldanza e suonano tutti pieni e timbratissimi. Purtroppo l’artista mostra dei limiti nel corso del III atto, quando un’emissione pesante e una dizione confusa gli impediscono di fraseggiare con la leggerezza e la nonchalance necessarie. Complimenti, invece, per la disinvoltura e l’agilità sulla scena, che ne fanno un autentico mattatore.
Il folto gruppo dei comprimari è tutto a posto e perfettamente inserito nella logica e nei ritmi dello spettacolo. Altrettanto si deve dire per l’eccellente coro della Fenice guidato da Claudio Marino Moretti, una compagine ormai diventata di primo livello per la resa sonora e la convinta presenza sulla scena.
Sul podio, il direttore stabile della Fenice Diego Matheuz, dopo un’ouverture fiammeggiante che faceva presagire altrettanta intensità nel corso dell’opera, si è invece attestato su una sicura routine, garantendo l’equilibrato svolgimento della serata.
Alla recita cui si riferiscono queste note, un teatro felicemente strapieno dappertutto grazie ai turisti ma grazie anche alla intelligente programmazione di Chiariot e Ortombina (che Dio ce li conservi), ha tributato un successo pieno e caloroso allo spettacolo e ai suoi realizzatori.
Adolfo Andrighetti