Aspern, ovvero dell’ambiguità
All’interno di questo mondo chiuso, ripiegato su se stesso, si svolge la vicenda immaginata da James: una riflessione sui sentimenti e le emozioni che si scatenano nell’uomo quando pone il proprio cuore in un bene unico e materiale, letterario nel nostro caso ma non solo; un bene così prezioso che, come l’oro per il Cavaliere avaro di Puskin messo in musica da Rachmaninov, è importante non tanto goderne quanto impedire che altri ne godano e quindi lo profanino. Nello stesso tempo vi è chi, come il figlio del Cavaliere avaro, è disposto a tutto pur di impossessarsi di quel tesoro.
Due cupidigie maniacali, dunque, si scontrano nel racconto di James: quella dell’io narrante, un critico letterario che vuole ad ogni costo mettere le mani sulla corrispondenza che il celebre poeta Jeffrey Aspern ha tenuto con la donna amata; e quella della donna in questione, la vegliarda del palazzo veneziano, gelosa custode di un carteggio di cui non sa che fare ma che vuole tenere tutto per sé. In mezzo la nipote, che non ha ancora abbandonato qualche velleità matrimoniale e, seppure molto ambiguamente, sembra promettere al critico le lettere di Aspern in cambio delle nozze. Ma James evita questo finale, che avrebbe avuto i caratteri del grottesco, per sceglierne uno più ricco di significati simbolici. La vecchia, infatti, brucia il carteggio perché non cada nella mani di “quella canaglia di uno scribacchino” e quindi muore fra le braccia della nipote; l’avaro può arrivare a distruggere il proprio tesoro perché un profano non se ne impossessi, ma poi non può sopravvivere alla perdita e deve seguire la sorte dell’oggetto in cui ha riposto la propria affettività.
Il lavoro (come altrimenti definirlo? Pièce?) che Salvatore Sciarrino trasse dal racconto di James e che fu messo in scena per la prima volta al Teatro La Pergola di Firenze nel 1978, rimane fedele allo spirito del racconto, rappresentando un tentativo riuscito di disorientare lo spettatore; nulla, in palcoscenico, è quello che sembra, nulla obbedisce al principio di non contraddizione, tutto si svela come il suo contrario e viceversa. Il gioco diverte all’inizio, se si conosce il racconto di James, ma dopo un po’ annoia, nonostante la sua breve durata di circa un’ora e venti, perché si esaurisce nello sviluppo, alla fine ripetitivo e risaputo, di una tesi assunta come programma: e cioè che nulla è chiaro e definito, bensì tutto sfugge e può essere l’opposto di ciò che appare. La realtà è ambigua, insomma, e l’essere umano è destinato ad annasparvi senza punti di riferimento.
E basato sulla ripetitività vagamente ossessiva di cellule ritmiche evocative per accenni di atmosfere surreali e stranianti, è il tessuto sonoro di “Aspern”, che al Malibran è affidato ad un ensemble da camera composto da sei bravissimi strumentisti della Fenice, guidati con accurata perizia da un esperto di questo repertorio come il maestro Marco Angius.
Del resto, “Aspern” è programmato per depistare sin dalla denominazione attribuitagli dal suo autore, quella di singspiel. In realtà, non ha nulla di quel genere musicale tedesco, composto di canto e dialoghi parlati, che consegnò all’umanità capolavori come “Il ratto dal serraglio”, “Il flauto magico”, “Fidelio”. Si tratta, piuttosto, di un divertissement intellettuale non classificabile in alcun genere teatrale, ove musica, canto e recitazione si alternano, si sovrappongono e si inseguono senza dare punti di riferimento allo spettatore.
Il tessuto connettivo di “Aspern” è rappresentato dalla parte recitata, che ricostruisce per frammenti faticosamente collegabili fra loro la vicenda raccontata da James. Ma l’approccio scelto dagli autori del libretto, lo stesso Salvatore Sciarrino e Giorgio Marini, non è narrativo, cioè non è volto a raccontare e spiegare dei fatti; si può definire, invece, evocativo o simbolico, per cui ogni frase è un microcosmo il cui significato letterale rimanda ad un altro e quindi allude, sottintende, non è mai concluso in se stesso. Questo effetto straniante è rafforzato dal fatto che le battute non sono sempre pronunciate dai personaggi che dovrebbero pronunciarle, ma anche dagli altri, per cui ogni riferimento realistico è smarrito all’interno di una sorta di polifonia in prosa nella quale le individualità dei protagonisti si scolorano in un indistinto effetto corale.
Suonano stranianti anche gli interventi vocali, affidati alla bravissima e bella Zuzana Markovà. Si tratta di una serie di vocalizzi simili a singhiozzi su versi tratti da “Le nozze di Figaro” di Mozart, che possono avere, o anche no, un vago legame con ciò che accade (ma che cosa accade veramente?) sul palcoscenico; e alla splendida canzone da batèo “Sento che ‘l cuor me manca”, omaggio alla città di Venezia in cui è ambientata la vicenda, accolta con autentico sollievo da chi scrive per la sua carezzevole melodia profumata di un dolce sentore malinconico. Anche in questo caso, comunque, l’effetto straniante è garantito, trattandosi di un’aria maschile intonata da una donna.
Lo spettacolo, salutato con prudenti consensi da parte del pubblico, è stato messo in scena con puntuale contestualizzazione culturale e stilistica dall’Istituto Universitario di Architettura (IUAV) di Venezia, che ha ideato una serie di drappi rettangolari che scendono verticalmente dall’alto verso il basso, ora bianchi ora trasformati, grazie a proiezioni, nel decoro di un vecchio palazzo veneziano o negli alberi del giardino di quello stesso palazzo. I drappi sono mossi da mimi che, in altre circostanze, animano la scena con movimenti intonati all’atmosfera di generale straniamento. Appropriato ed efficace anche il gioco delle luci.
Dallo IUAV vengono anche le due studentesse che interpretano, con apprezzabile applicazione, i non facili ruoli recitati delle protagoniste: Camilla Nervi (la vecchia Giuliana Bordereau, di distaccata alterigia) e Annalaura Penna (la nipote Titta Bordereau, spenta e rassegnata almeno in apparenza). E’ una studentessa dello IUAV anche Gaia Ceresi, che appare nel finale come Ermafrodito, a suggellare, con l’ambiguità del sesso, l’inconsistenza e la volatilità del reale. Con loro interagisce il corretto Narratore di Francesco Gerardi.
Adolfo Andrighetti