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Al Malibran l’Olimpiade in versione Galuppi

17/10/2006
Una struttura rigidamente geometrica, cioè una sorta di grande scatola bianca a chiudere lo spazio ai lati e sul fondo del palcoscenico, è il “luogo” voluto dal regista Dominique Poulange e dallo scenografo, oltre che costumista, Francesco Zito, per ambientare la vicenda de “L’Olimpiade” di Baldassare Galuppi, in questi giorni al Teatro Malibran di Venezia. Una scelta minimalista, studiata per l’“Olimpiade” di Cimarosa rappresentato al Malibran nel 2001, che limita lo spettacolo entro confini angusti e non gli permette quel respiro che pure la brillante musica del Buranello suggerirebbe. Le scialbe immagini in bianco e nero raffiguranti alberi e prospettive architettoniche, che decorano le pareti della scatola, e gli anonimi costumi di foggia settecentesca, anche se con qualche licenza atemporale oggi di moda, non hanno attenuato l’impressione di asettico grigiore che promana dall’intero spettacolo. Anche la regia, seppure non priva di qualche buona intenzione nel movimento dei personaggi, non riesce a conferire il giusto colpo d’ala ad un allestimento che risulta privo di vitalità, nonostante il disinvolto sgambettare degli interpreti sul palcoscenico e il frequente toccarsi l’uno con l’altro, in un eccesso di manipolazione reciproca.

La proposta teatrale, quindi, pur non presentando mende particolari e possedendo anche una sua raffinatezza, appare inadeguata a restituire ad un pubblico moderno una vicenda macchinosa e ad alto tasso di improbabilità come quella de “L’Olimpiade”: testo a suo tempo celeberrimo, versificato con la consueta amabile scorrevolezza da Metastasio e intonato, seppure ogni volta con qualche variante, da qualcosa come una settantina di compositori, fra cui, oltre a Galuppi, Vivaldi, Pergolesi, Jommelli e Cimarosa; eppure, al gusto d’oggi, palesemente artificioso e assurdamente complicato nel concatenarsi degli eventi e nel succedersi dei colpi di scena. La storia incomincia con la richiesta, cervellotica come poche, che il giovane Licida rivolge all’amico Megacle di gareggiare ai giochi olimpici non con il nome proprio ma con quello dello stesso Licida, per garantire a quest’ultimo la mano della bella Aristea, figlia del re Clistene, che il padre ha deciso di dare in sposa al vincitore dei giochi. Megacle, anziché rispondere alla assurda richiesta con un cortese ma fermo rifiuto, commette l’errore di accettare, in quanto si sente debitore verso Licida, che in passato gli ha salvato la vita. E dal suo incauto consenso nascono guai a non finire. Megacle, infatti, è un campione e vince i giochi gareggiando sotto il nome di Licida. Ma ben presto si rende conto che la donna che andrà in sposa al vincitore, cioè a Licida, è quella che egli ama e da cui è riamato. Da qui nasce il primo di quei conflitti di sentimenti di cui il testo metastasiano è particolarmente ricco, in questo caso il contrasto fra la passione amorosa e la fedeltà all’amicizia. Altri ancora si delineano con lo svilupparsi della trama, intrecciandosi fra loro in una composizione fin troppo complessa ed articolata. Pensiamo al personaggio di Argene, combattuta fra la passione per Licida e il suo amor proprio di donna che si vede abbandonata per Aristea; all’intenso rapporto di amicizia fra le due ragazze, che potrebbe essere turbato dal fatto che Licida ha lasciato l’una per preferire l’altra; e al re Clistene, che si sente in dovere di punire Licida, reo non solo di frode ai giochi olimpici ma anche di aver attentato per disperazione alla vita del re, anche quando scopre che è suo figlio, da lui abbandonato in tenerissima età. Eh sì, perché la vicenda è arricchita anche da un parricidio mancato, sulla linea del mito di Edipo, con la differenza che mentre quest’ultimo, dopo aver ucciso il padre, sposa la madre, Licida rischia un altro tipo di incesto, in quanto la donna da lui desiderata, cioè Aristea, è in realtà sua sorella. Naturalmente l’universo metastasiano è ben più lineare e sereno di quello descritto dalle tragedie greche, che scavano nel profondo dell’animo umano per cavarne anche ciò che non vorremmo vedere ma solo rimuovere. Quindi le due drammatiche violazioni dell'ordine morale comune, la soppressione del padre e l’unione con la sorella, provocano soltanto il brivido delle trasgressioni avvicinate, talvolta inconsciamente forse desiderate, ma non consumate. Il lieto fine rimette ogni cosa al suo posto, ricostituisce le coppie secondo natura, riporta il figlio tra le braccia del padre e non della sorella.

L’occasione di questa prima rappresentazione in tempi moderni de “L’Olimpiade” di Baldassare Galuppi (il melodramma esordì il 1747 al Regio Ducal Teatro Milano) è suggerita dal terzo centenario della nascita del compositore di Burano. Questi si accosta al testo di Metastasio con tutto il suo mestiere sopraffino, privilegiando un canto che trova nell’abbondanza delle fioriture lo strumento principale dell’espressione dei sentimenti, ma curando anche l’accompagnamento orchestrale, che acquista pregnanza e spessore soprattutto nelle tensioni drammatiche del secondo atto. Ciò non toglie che la musica, nonostante l’impegno di Galuppi nel renderla accattivante e la presenza di alcuni spunti melodici decisamente rimarchevoli, possa ingenerare alla lunga, considerate anche le dimensioni della partitura la cui esecuzione occupa più di tre ore e mezza, un certo senso di sazietà, per la rigidità degli schemi formali in cui la cultura musicale dell’epoca la costringe.

Andrea Marcon, con l’Orchestra Barocca di Venezia, ne è interprete di valore, grazie alla capacità di non lasciare mai calare la tensione di una musica brillante ma inevitabilmente convenzionale e quindi a tratti ripetitiva, e di accompagnare con sicurezza i cantanti nelle loro spericolate esibizioni virtuosistiche. Da lodare, poi, perché filologicamente doverosa, la scelta di far eseguire ogni aria con da capo e variazioni nella ripetizione. Bravissime soprattutto le interpreti femminili, cui sono affidate le quattro parti principali, capaci di riproporre con piena credibilità musicale e vocale un repertorio legato ad una cultura del canto raffinata, ove l’espressione dei sentimenti passa tanto attraverso gli abbellimenti nelle arie quanto il fraseggio nei recitativi, richiedendo una duttilità ed una maestria esecutiva particolari. Eccellenti l’Argene del soprano Roberta Invernizzi, l’Aristea del soprano spagnolo Ruth Rosique e il Megacle del mezzosoprano Romina Basso, voci rotonde, morbide, ben proiettate e in grado di risolvere con entusiasmante sicurezza le asperità delle parti, oltre che artiste ben calate nei rispettivi ruoli. Di valore, tuttavia, anche il contributo del mezzosoprano tedesco Franziska Gottwald quale Licida e pronti all’impegno, anche se in ruoli di minor spessore, i tre uomini: meglio, comunque, l’Aminta del ventiseienne tenore Filippo Adami, fraseggiatore accurato e comunicativo, e l’Alcandro del baritono Furio Zanasi, la cui musicalità fa passare in secondo piano un certo affievolimento vocale, rispetto al Clistene del tenore inglese Mark Tucker, dall’emissione poco controllata e disomogenea.



Adolfo Andrighetti

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