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Alla Fenice “L’Africaine” di Meyerbeer va in...paradiso

03/12/2013
Alla Fenice “L’Africaine” di Meyerbeer va in...paradisoChe si tratti non di un’africana, come promette il titolo, bensì di un’indiana, anche se recuperata in Africa al mercato degli schiavi, può sembrare una di quelle deliziose incongruenze di cui è generoso il teatro d’opera e che fanno parte del suo fascino. Così, anche un certa confusa goffaggine nella ricostruzione dei fatti, liberamente ispirati alla ricerca da parte del Portogallo di sbocchi coloniali nelle Indie tra la fine del secolo XV e l’inizio del XVI, può essere liquidata con un sorriso di sufficienza per questi benedetti libretti d’opera, che, secondo una vulgata tanto superficiale quanto dura a morire, rappresenterebbero lo scotto da pagare per potersi gustare la musica.

Ma, in realtà, quelli accennati sono degli indizi eloquenti di come “L’Africaine” sia il frutto di una gestazione tribolata, che ha dato vita ad una creatura gracilina sotto le apparenze di una robustezza esibita fino al punto da apparire quasi sfacciata. Rappresentata postuma all’Opéra di Parigi nel 1865 e completata in alcune parti dell’orchestrazione dal belga Francois-Joseph Fétis sugli appunti lasciati dall’autore, la vita de “L’Africaine” fu segnata non solo dalla scomparsa prematura di Meyerbeer nel 1864 ma anche dalle sue stesse incertezze, che lo portarono, nell’arco di una trentina d’anni, a riprendere ed abbandonare più volte il progetto fino a mettervi mano con decisione solo nella fase conclusiva della vita. Né giovò alla chiarezza e alla compattezza della trama la morte nel 1861 del librettista Eugène Scribe, all’epoca dominatore incontrastato delle scene teatrali parigine, che lasciò un libretto le cui le lacune ed incongruenze non furono rimediate dall’intervento successivo di altri autori.

Prevale, quindi, la sensazione di un lavoro poderoso, immaginifico, ma disomogeneo, che, dal punto di vista drammatico, punta tutto sul richiamo dell’esotismo allora di moda, mentre, sul piano musicale, diverte sempre, spesso sorprende e avvince, ma non arriva al cuore delle situazioni e dei sentimenti; piuttosto li accompagna, li asseconda, mettendoli in mostra come attraverso delle lussuose illustrazioni colorate, in cui colpisce la variegata tavolozza timbrica, la felice invenzione melodica, l’infallibile sensibilità per l’effetto spettacolare, lo straordinario eclettismo che attinge al meglio di scuole e stili diversi.

Ciò non toglie che la scelta operata da Chiarot e Ortombina per inaugurare la stagione di opera e balletto 2013/2014 deve considerarsi felicissima. E non tanto perché l’anno prossimo ricorre il 150° anniversario della morte di Meyerbeer, con la conseguente necessità di commemorarlo; o perché “L’Africaine” manca dalla Fenice dal 1892 e quindi era giunto il momento di recuperarla. Quanto, invece, perché un teatro di livello internazionale, collocato al centro di una città internazionale, ha il dovere di compiere delle scelte che aprano degli orizzonti culturali inediti e stimolanti; e inoltre perché la Fenice ha offerto al pubblico una proposta di elevata qualità artistica, dimostrando la forza della propria organizzazione complessiva e presentandosi all’attenzione generale con l’abito della festa.

Per cominciare dalla messa in scena, infatti, questa risolve con equilibrio e buon senso il problema di come allestire oggi un grand opera dell’800, ideato per stupire e deliziare il pubblico con la spettacolarità delle scelte musicali e teatrali. Da allora il gusto è profondamente cambiato e le risorse economiche vanno usate con una oculatezza che all’epoca l’Opéra di Parigi, il tempio di questo grandioso genere operistico, poteva serenamente ignorare. Quindi va apprezzata la scelta del giovane regista pugliese Leo Muscato, già gratificato con il Premio Abbiati 2012, che, insieme a Massimo Checchetto per le scene, Carlos Tieppo per i costumi, Alessandro Verazzi per le luci, Fabio Massimo Iaquone e Luca Attilii per le videoproiezioni, ha optato per la semplicità e la linearità. Il risultato è un allestimento che vuole raccontare prima che spiegare, evitando, spesso brillantemente e talvolta per il rotto della cuffia, il rischio dell’oleografia, ma nel complesso rappresentando con efficacia situazioni e sentimenti.

Il lavoro sugli interpreti è puntuale e curato, così come quello sulle masse, coro o comparse che siano, che non sono mai abbandonate a se stesse ma vengono impegnate in scene e controscene molto efficaci. La semplicità delle scenografie, affidate ad essenziali ma eloquenti elementi d’epoca e talvolta sostituite dal nudo palcoscenico, permette di esaltare non solo la bellezza dei costumi cinquecenteschi (di particolare effetto per il vivace cromatismo quelli delle indiane nel IV atto), ma soprattutto la puntuale recitazione dei cantanti, istruiti a puntino e ben disposti a vivere con intensità sul palcoscenico le emozioni che spettano ai rispettivi personaggi.

Di particolare impatto risulta la ricostruzione, con una forza realistica che sconfina nell’espressionismo, della vita nel carcere ove è ambientato il II atto; un succedersi angosciante di tormenti e sopraffazioni che occupa la parte posteriore del palcoscenico, mente i cantanti si esibiscono su quella anteriore. Un scelta di indiscutibile efficacia sul piano teatrale, anche per la bravura delle mime che danno vita alla disperazione allucinata delle prigioniere, ma forse estranea ad un contesto intelligentemente tradizionale come quello voluto dalla regia. Così come poco intonate all’impostazione generale risultano le videoproiezioni che accompagnano i preludi di ogni atto e alle quali è affidato il passaggio dall’illustrazione alla riflessione, in quanto mostrano come la potenza economica e tecnologica dell’occidente si fondi anche sul colonialismo e sul conseguente sfruttamento dei Paesi del terzo mondo. Ma è da preferire il teatro che parla da sé con l’efficacia delle sue soluzioni, oppure quello a tesi, che abbonda in chiose e postille perché il “messaggio” giunga forte e chiaro? Anche qui ognuno si dia la propria risposta, fermo restando che videoproiezioni così esplicitamente programmatiche hanno il sapore del recupero un po’ forzato di un messaggio socio-politico che altrimenti non si coglierebbe in uno spettacolo solidamente tradizionale.

Da apprezzarsi in maniera particolare, invece, per la sintetica efficacia, la pioggia di petali di rosa che accompagna l’esecuzione della celebre aria “Beau paradis”, a simboleggiare una terra ove la natura domina ancora con tutta la propria forza primigenia ed esuberante; una forza che può essere benevola, come in questo caso, ma anche orribilmente insidiosa, come quella che innerva il fiore del manzanillo, che condanna ad una morte dolce ma inesorabile chi ne aspiri il profumo. Ed è questa la sorte che sceglie Sélika quando capisce che Vasco de Gama non potrà mai amarla; in un palcoscenico completamente vuoto, sopra una passerella sospesa, la regina si protende verso i fiori fatali, illuminati di un’irreale luce rosa, affascinante e sinistra nello stesso tempo. Una scelta registica molto suggestiva.

Ma pur riconoscendo i molti meriti dell’allestimento, il primo dei quali è aver imboccato la strada giusta per rappresentare un’opera oggi quasi irrappresentabile, è indubbio che il punto di forza di questa proposta della Fenice è rappresentato dalla esecuzione musicale. A cominciare da Emmanuel Villaume, già apprezzato sul podio del teatro veneziano ne “Il crociato in Egitto”, sempre di Meyerbeer e nella “Thais” di Massenet. Ne “L’africaine” il maestro di Strasburgo, grazie anche alla eccellente collaborazione dell’orchestra, domina la lussureggiante, sontuosa partitura, mettendone appieno in risalto tutta la ricchezza armonica e timbrica. L’interpretazione è sempre tesa, vivida, capace di valorizzare ogni nota e di suscitare sonorità piene, dense, ben rilevate, pur non mancando di sottolineare con tutta la delicatezza e la sensibilità necessarie i momenti di ripiegamento intimistico, come le prime, nostalgiche battute che aprono l’opera. Se a ciò si aggiunge la sicura concertazione di una partitura complessa per l’intreccio dei tanti solisti, del coro e dell’orchestra, il risultato complessivo è talmente buono da far sperare che il maestro non voglia restare lontano a lungo da Venezia.

E che dire di un cast che ha trascinato il pubblico all’entusiasmo? Un cast eccellente non solo nelle prime parti ma di alto livello anche in quelle secondarie, secondo un principio di equilibrio complessivo che è indispensabile per l’esito ottimale di uno spettacolo e che rappresenta un criterio sicuro per poter distinguere il grande teatro dagli altri.

La protagonista, l’infelice regina Sélika innamorata inutilmente di Vasco de Gama e che si sacrifica per il suo bene, è il mezzosoprano romano Veronica Simeoni, che aveva già impressionato positivamente alla Fenice per aver incarnato ruoli di tradizione come Azucena e Carmen restituendoli ad una dimensione interpretativa più classica e sobria dell’usuale. E l’artista, in effetti, non si sa più come lodarla: lo strumento non è onnipossente ma è talmente bene impostato che è come se lo fosse, la voce corre sempre per tutto il teatro e risuona piena e vibrante anche nei duetti con un artigliere come Kunde. Ascoltarla, poi, è riposante, perché l’emissione è talmente pulita, il suono così omogeneo su tutta la gamma, da non dare mai l’impressione dello sforzo. La sua è una Sélika mite, remissiva, quasi rassegnata sin dall’inizio al dolore e alla rinuncia, completamente arresa all’amore di Vasco e ad un destino di morte; una Sélika deliziosamente femminile e splendidamente lirica, che ignora quasi programmaticamente la componente regale, altera, del personaggio, che pure potrebbe realizzare un efficace contrasto con quella sentimentale.

Le è accanto l’irresistibile Vasco de Gama di Gregory Kunde, splendido Otello verdiano alla Fenice e al Palazzo Ducale, qui navigatore impetuoso ed egocentrico come il libretto richiede, innamorato più di se stesso e del proprio destino di gloria che delle due donne che gli stanno attorno. Nell’interpretare questo personaggio Kunde è perfetto, un sole luminoso dal canto smagliante di straordinaria saldezza, capace di squillare irresistibile come di piegarsi a nuance più delicate. Il metallo è di splendida lega e l’interprete intenso, comunicativo, impulsivo ed incostante com’è il Vasco de Gama dell’opera. Per lui, com’è naturale e anche giusto, ovazioni dopo l’aria famosa e al termine dello spettacolo.

Nélusko è il baritono romano Angelo Veccia. Il suo è un personaggio complesso, torvo e vendicativo verso tutti i cristiani e in particolare Vasco de Gama, che gli contende l’amore di Sélika, ma nello stesso tempo capace di una dedizione assoluta verso la regina e di custodire dolorosamente nel cuore un sentimento che sa non ricambiato. Giustamente i librettisti gli hanno riservato il privilegio di accompagnare Sélika nella morte, perché è l’unico uomo che l’abbia veramente amata con fedeltà e costanza. Veccia sa rendere con grande bravura i sentimenti contrastanti che si alternano nell’animo di Nélusko. Ha timbro scuro, cavata ampia, emissione omogenea e la capacità di essere torvo e inquieto non solo sulla scena, che peraltro tiene benissimo, ma anche nell’accento e nei colori. Tuttavia è del tutto convincente anche nell’espressione del suo sofferto amore per Sélika e nella condivisione del suo destino di morte.

Il soprano australiano Jessica Pratt è ormai una beniamina del pubblico veneziano dopo le sue felicissime prove in “Lucia di Lammermoor” e “Sonnambula”. Anche questa volta non tradisce le attese e, con la sua bionda bellezza, è una Ines perfetta: proprio quella Ines con la quale Sélika, al loro primo incontro, si può confrontare con un malcelato senso di inferiorità razziale a causa del diverso colore della pelle, ambrato quello della regina indiana, immacolato quello della fanciulla portoghese. A parte l’indubbia credibilità in scena, l’artista ha modo di mettere in luce un canto di squisita bellezza lirica, con un medium rotondo e pieno. Certo l’eliminazione delle prime tre scene del V atto, decisa da Villaume insieme al ridimensionamento del balletto e a qualche altro taglio minore per riportare la durata dello spettacolo entro dimensioni accettabili, sacrifica soprattutto il personaggio di Ines, che perde così il ruolo di altra primadonna che la versione originale dell’opera le riconosce. Ma il soprano ha modo comunque di confermare le sue doti ormai riconosciute e affermate.

Molto bene, seppure con qualche ovvio distinguo, anche la folta schiera dei bassi. Su tutti emerge Luca Dall’Amico, artista di casa alla Fenice, un Don Pedro ben tratteggiato nell’arroganza e nell’agitazione quasi nevrotica, cui si aggiunge una voce salda, omogenea e di bel colore.

Resta da dire del coro del teatro, sempre più bravo non solo per l’ormai acquisita omogeneità e compattezza di suono, ma anche per la disinvoltura con cui affronta gli impegni di recitazione che gli impongono i registi. Anche in questo caso, fra consiglieri del re del Portogallo, alti prelati, marinai, indiani, gli artisti del coro hanno modo di sbizzarrirsi e lo fanno con encomiabile zelo e bravura. Insomma, un ensemble di alto livello sotto ogni profilo: bravi tutti e in primo luogo il maestro Claudio Marino Moretti.

Alla serale cui si riferiscono queste notte da registrare una bella sala strapiena e un successo importante, anche se forse non proprio all’altezza dell’eccellente livello dell’esecuzione.

Adolfo Andrighetti

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