Al Malibran una scala di seta oppure di panno?
No, il merito è tutto della musica di Rossini, più scintillante che mai già a partire dalla briosissima ed impertinente ouverture, nella quale si riconoscono due marchi di fabbrica della casa: il celebre crescendo e l’effetto eco, con gli strumenti in orchestra che si rincorrono e si rispondono l’un l’altro quasi facendosi il verso. E poi, più che le arie, alquanto convenzionali con l’unica eccezione di quella di Giulia “Il mio ben sospiro e chiamo”, da sottolineare gli spiritosissimi duetti ed i pezzi di insieme, caratterizzati da una scansione ritmica di irresistibile energia. Il quartetto “Sì che unito a cara sposa”, in particolare, collocato a metà della vicenda, anticipa quei celebri concertati posti come finale primo delle più note opere comiche rossiniane, nei quali la confusione e il disorientamento dei personaggi di fronte all’imprevedibilità degli eventi viene espresso in meccanismi sonori di trascinante e virtuosistica costruzione.
Ecco perché “La scala di seta” si fa ancora ascoltare e vedere con gusto, nonostante l’inconsistenza della vicenda, che vede Giulia e Dorvil tenere nascosto il loro matrimonio perché la ragazza è stata promessa dal tutore Dormont allo sciupafemmine Blansac; fino a quando, dopo gli equivoci di rito, giunge il lieto fine, con l’inevitabile accettazione da parte di tutti dello sposalizio già avvenuto e Blansac che si dichiara soddisfatto di unirsi a Lucilla, la cugina di Giulia. Il tutto è insaporito dalla presenza del servo sciocco Germano, figura indispensabile per moltiplicare i pasticci e conferire vivacità alla trama. E la scala di seta, che dà il titolo all’opera? E’ l’espediente cui Giulia ricorre per far salire in camera il marito in modo tale che nessuno se ne accorga; pretesa eccessiva in una farsa e infatti Germano si rende conto della trovata di Giulia, solo che pensa sia destinata a far entrare in casa segretamente Blansac e non Dorvil...Eh già, altrimenti che farsa sarebbe?
“La scala di seta”, in questi giorni al Teatro Malibran, rappresenta la quarta tappa del percorso virtuoso che la Fenice sta compiendo con l’Accademia di Belle Arti e il Conservatorio Benedetto Marcello attraverso le cinque farse che il ventenne Rossini compose per il Teatro San Moisè. Agli allievi dell’Accademia, in particolare, è affidata, sotto la guida di tutors esperti, la cura delle scene, dei costumi e delle luci; in questo modo si permette a giovani promettenti di fare esperienza e di mettersi alla prova in un contesto di elevata professionalità e aperto ad un pubblico pagante. E il cammino sta procedendo con confortanti esiti artistici, come si è constato con “L’inganno felice”, “L’occasione fa il ladro”, “La cambiale di matrimonio” ed ora “La scala di seta”.
In quest’ultimo caso, la messa in scena, guidata dal regista Bepi Morassi, ci trasporta nella stanza d’albergo di una diva del cinema degli anni trenta, con tutto il folcloristico contorno di paparazzi, servitorame vario e oggettistica a profusione. L’idea è simpatica e nell’insieme lo spettacolo funziona, anche per la cura con cui è definita la caratterizzazione dei singoli personaggi. Ma il palcoscenico risulta nel complesso fin troppo gremito e l’azione vi si svolge in maniera talvolta esageratamente concitata. A scapitarne è la chiarezza della narrazione, che si sarebbe giovata di scelte più semplici e lineari. Indovinata, comunque, l’idea di dividere il palcoscenico in due parti, in ciascuna delle quali si svolge un’azione diversa e parallela rispetto all’altra. Invece le guardie del corpo armate di pistola che accompagnano i malavitosi Dormont e Blansac e appaiono sempre impegnate a vessare, chissà perché, il povero Germano, rappresentano una superflua forzatura farsesca
E’ soprattutto la parte musicale, però, a suscitare qualche perplessità. Il maestro Alessandro De Marchi sul podio sceglie una lettura rilassata, compassata della partitura, al punto da attutirne la vena di frizzante eleganza; una lettura che risulta, alla fine, poco coinvolgente e poco divertente.
Anche il cast presenta luci e ombre. Omar Montanari non convince completamente nel difficile ruolo di Germano, che richiede un buffo capace non solo di divertire nella declamazione ma anche di esibirsi con disinvoltura nelle agilità. Il bravo artista, già apprezzato sul palcoscenico del Malibran nel corso del ciclo sulle farse rossiniane, dà prova ancora una volta delle proprie capacità di fine dicitore, che gli permettono di articolare con chiarezza ed efficacia la parola musicale. Il cantante, però, non sembra del tutto a proprio agio nella parte, per un’emissione poco omogenea e la problematica tenuta dei fiati, che lo costringe ad un’esecuzione faticosa delle agilità. Da apprezzare, invece, l’uso puntuale della mezza voce.
Il tenore Giorgi Misseri conferisce a Dorvil una bella baldanza e disinvoltura giovanile, che ben si addice al personaggio. La voce, poi, possiede buona pasta tenorile e adeguata proiezione, anche se l’esito complessivo è perfettibile per un’emissione che dovrebbe essere più omogenea e controllata soprattutto in alto, dove si avverte qualche forzatura. La sua Giulia è il soprano siberiano Irina Dubrovskaya, che si cala con apprezzabile senso dell’umorismo e ottima disposizione scenica nel personaggio della diva un po’ annoiata e un po’ capricciosa, ma alla fine languidamente innamorata del marito segreto. La voce, poi, è bella per polpa e colore, e la linea di canto è corretta.
Il Blansac del basso-baritono Claudio Levantino mette in mostra un timbro gradevole, dalla grana scura e compatta. Ma la voce non riesce a espandersi come dovrebbe e invece che proiettarsi a riempire il teatro rimane, per così dire, “addosso” all’artista. Ne scapitano anche il fraseggio, che risulta uniforme, e la resa complessiva del personaggio, che non decolla, nonostante la buona attitudine attoriale dell’artista. Decolla, invece, eccome, la Lucilla del mezzosoprano Paola Gardina, che ci offre una gustosissima interpretazione della cugina zitella e vogliosa, con l’accompagnamento di una voce omogenea e di bel colore.
Atmosfera festosa alla serale cui si riferiscono queste note, come si addice ad un evento progettato anche per valorizzare i giovani talenti della messinscena.
Adolfo Andrighetti