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Clemenza di Tito: cantanti onorano Mozart, spettacolo no

06/02/2014
Clemenza di Tito: cantanti onorano Mozart, spettacolo no“La clemenza di Tito” è un lavoro di occasione. Fa parte, cioè, di quelle produzioni musicali, molto frequenti soprattutto nel XVII e XVIII secolo, che venivano commissionate per celebrare le nozze, l’incoronazione o altro importante avvenimento riguardante un personaggio di elevato lignaggio. Nel caso dell’ultima opera di Mozart, che il compositore scrisse quando “Il flauto magico” era già a buon punto, l’aspetto celebrativo è presente addirittura due volte: nel libretto di Metastasio, concepito già nel 1734 per esaltare una testa coronata, cioè l’imperatore Carlo VI, padre di Maria Teresa; e poi nell’adattamento che ne fece Caterino Mazzolà per Mozart, il quale lo utilizzò per comporre “La clemenza di Tito” in occasione dei festeggiamenti per l’incoronazione dell’imperatore Leopoldo II a re di Boemia.

In effetti la vicenda è tutta studiata per mettere in luce le superiori qualità umane dell’imperatore romano Tito, che rappresenta quel topos del sovrano illuminato, serenamente e benevolmente pensoso della sorte dei suoi sudditi, ben presente nella cultura del ‘700; una figura molto adatta a celebrare delle teste coronate, le quali si sarebbero identificate con compiacenza in un predecessore di così sublimi sentimenti.

Tito, in effetti, passa i due atti dell’opera dando prova di una magnanimità testarda, programmatica: prima decide di rinunciare alle nozze con Servilia quando questa gli confessa di essere già legata ad Annio, evitando così di abusare del proprio potere per imporre la propria volontà alla ragazza; poi perdona coloro che hanno cercato di ucciderlo, cioè il suo fidato amico Sesto e la sua promessa sposa Vitellia, solo meravigliandosi un filino di quale razza di vipere gli girasse attorno.

Ora, è normale nutrire un certo sospetto nei confronti dei lavori di occasione, che si ritiene poco ispirati perché condizionati dalla circostanza celebrativa che li ha visti nascere e quindi costretti entro schemi convenzionali che non si potevano ignorare. E già il romanticismo, così legato al valore della libera creatività dell’artista, esprimeva dubbi dello stesso tipo, al punto che anche un musicista molto concreato (ma altrettanto libero...) come Verdi si tenne quasi sempre distante dalle commissioni legate a ragioni celebrative o commemorative, di qualunque genere esse fossero.

Tuttavia il pregiudizio è sempre da evitare, anche in campo musicale e teatrale. E l’esperienza dimostra che in diversi casi neppure le pastoie della celebrazione riuscirono a frenare l’energia creativa dell’artista. E uno di questi casi è rappresentato proprio da “La clemenza di Tito”, opera affascinante per la cristallina trasparenza e l’eleganza neoclassica della musica; un’opera però, nella quale la nobiltà dei pepli e lo splendore dei marmi sono ravvivati da tensioni drammatiche di notevole forza. Basti pensare allo stupendo quintetto che conclude il I atto, pervaso d’angoscia per l’incendio del Campidoglio e caratterizzato dal contrasto fra i sentimenti più disparati (odio, paura, rimorso, sgomento...) vissuti dai personaggi. Ma pensiamo anche al personaggio di Vitellia, seducente erinni attraversata da sentimenti contraddittori e tutti di inaudita violenza. Vitellia, vedova di Vespasiano, odia il figlio di lui Tito perché lo accusa di aver usurpato il trono a danno di lei. Progetta dunque di vendicarsi facendolo uccidere, ma nello stesso tempo sarebbe disposta a dimenticare tutto se potesse convolare a nozze con lui, un po’ perché ne è attratta suo malgrado, un po’ per l’ambizione di ritrovarsi imperatrice. Di straordinaria verità umana è anche il personaggio en travestì di Sesto, che è completamente succube della bellezza e della volontà indomita di Vitellia, e, pur di meritarsi il suo amore, è disposto ad uccidere Tito, di cui è confidente ed amico.

Su quest’opera eburnea, così delicata ed elegante, è piombata circa trent’anni fa una coppia tedesca, Karl-Ernest Herrmann e sua moglie Ursel, che, responsabili di regia, scene, costumi e luci, ne hanno curato un allestimento che sta ancora girando fra i principali teatri europei e adesso è approdato alla Fenice; un allestimento che non suscita scandalo, come quelli frutto di certe alzate d’ingegno cui ci ha abituato il cosiddetto teatro di regia tedesco, ma che, con la sua atmosfera realistica ai limiti dell’espressionismo, risulta gravemente in contrasto con il mondo culturale rappresentato dalla “Clemenza”.

A dire il vero, l’impianto scenografico, nella sua geometrica nudità, si adatta all’espressione stilizzata dei sentimenti tipica del neoclassicismo; ma non si può dire altrettanto di ciò che avviene all’interno di quella stanza, così sobriamente definita per linee verticali e orizzontali e completata con pochissimi elementi di arredo. In effetti, la caratterizzazione dei personaggi è esasperata fino al grottesco, vuoi nella sottolineatura, frequente soprattutto nel primo atto, di gesti e atteggiamenti legati ad una quotidianità sdrammatizzante e quasi parodistica, vuoi nello spingere la recitazione verso una costante enfasi, con una gesticolazione agitata ed esasperata fino al punto di rottura in cui la tragedia rischia di scivolare nella farsa.

Ecco, l‘impressione è che la regia si diverta a giocare sul sottile crinale che separa, nella divina retorica del melodramma, il sublime dal ridicolo, strizzando l’occhio allo spettatore che viene così condotto per mano attraverso una sottile, allusiva, ma non per questo meno pericolosa destrutturazione de “La clemenza di Tito”. Sembrerebbe un’avventura intellettuale sofisticata, in realtà è una corsa verso il baratro in cui può sfracellarsi, insieme all’opera di Mozart e in un tripudio nichilista, il senso del bello e del vero che caratterizza la civiltà occidentale. Il resto lo fanno i costumi, trovarobato da circo di provincia, che fanno del loro meglio per togliere nobiltà e dignità ai personaggi sulla scena. Poi non ci riescono, perché il cast per fortuna è di alto livello artistico; ma quando si vede il povero Tito agitarsi come un forsennato avvolto in certe grottesche palandrane, viene in mente Canio che, in abito di scena, sta dando fuori di matto per la gelosia. E ci vuole tutta la classe e la straordinaria bravura di Monica Bacelli per farci ricordare che Sesto non è un clown triste che fa da spalla all’”amorosa” di turno, cioè Vitellia, ma un tipo umano senza tempo, cui Mozart dona la verità di una musica sublime.

Intendiamoci, questo non significa che lo spettacolo non offra qualche momento di intensa e riuscita vita teatrale. Ci sono delle situazioni in cui, dal caos di gesti e costumi, emerge un atteggiamento, un movimento, che colpisce nel segno. E fa pensare a quali esiti di verità artistica avrebbero potuto attingere i coniugi Herrmann se avessero fatto prevalere la ricerca dell’essenziale, di ciò che sta dentro il dramma e la musica, sull’intellettualismo astratto e compiaciuto.

Sul podio della valente orchestra della Fenice, portata per l’occasione quasi a livello della platea, Ottavio Dantone sembra cercare della “Clemenza” una versione “anticata”, con uno sguardo retrospettivo verso l’opera seria settecentesca e anche più indietro, verso quel recitar cantando da cui trae origine la straordinaria vicenda del melodramma. In effetti, Dantone dà l’impressione di attribuire alla parola la stessa importanza della musica nella realizzazione del dramma, quasi a costituire un unicum in cui ogni elemento sostiene l’altro, lo valorizza e ne è valorizzato. Questa scelta appare evidente soprattutto nel recitativo secco, ove si dà risalto ad ogni parola, anzi ad ogni sillaba, che viene scandita con un’intenzione ed un’incisività di grande forza drammatica, ora rallentando, ora inserendo una breve pausa, ora rafforzando; e talvolta, seppure raramente, anche introducendo qualche battuta di vero e proprio parlato.

Certo, l’esagerazione è sempre in agguato, ma nel complesso questa scelta coraggiosa è vincente, anche perché se ne riscontrano gli effetti pure nei recitativi accompagnati e nei numeri chiusi, ove la parola cantata acquista un rilievo quasi scultoreo. Meno significativa, invece, appare la conduzione orchestrale, ove Dantone, nonostante la ricerca di una prassi esecutiva di classica trasparenza e linearità, non sembra ottenere risultati all’altezza delle intenzioni.

Di alto livello il cast, dominato dalla coppia Vitellia-Sesto. La prima è una Carmela Remigio perfettamente immedesimata in ogni aspetto del difficile personaggio, capace di farlo spiccare con un’evidenza ed una personalità da brivido nel contrasto nevrotico dei mille sentimenti che lo agitano. Se poi si aggiunge che Vitellia è trattata meno peggio degli altri da regista e costumista, che pur non risparmiandole qualche scivolata nel ridicolo le riservano però qualche bel momento di teatro, si può immaginare come questo sia il personaggio più risolto dell’opera. Della cantante, poi, non è nemmeno il caso di parlare, tanto è nota la sua capacità di esprimere con coinvolgente e talvolta con trascinante intensità sentimenti ed emozioni pur all’interno di una linea vocale impeccabile.

Altrettanto e forse anche di più deve dirsi del mezzosoprano Monica Bacelli, che conferisce a Sesto accenti e colori di assoluta verità artistica, in grado di conquistare e commuovere nel profondo. La sua è un’interpretazione da definirsi grande tout court, nella quale l’eccellente resa vocale non è mai fine a se stessa, ma sempre finalizzata a sostenere un personaggio completo in ogni sfaccettatura psicologica, in ogni più sottile sfumatura dell’animo. Non ci dimenticheremo facilmente del Sesto di Monica Bacelli, nel bene per la bravura straordinaria dell’artista, nel male per come la regia privi di dignità e nobiltà il personaggio, che è fragile, certo, ma conserva una statura umana elevata come vuole il melodramma neoclassico.

Accanto alle due mattatrici, Carlo Allemano, un Tito ridotto dalla regia ad un buffone esagitato, si impone per la significativa consapevolezza stilistica in un ruolo centrale che calza come un guanto alla sua maschia e robusta voce di baritenore, capace comunque di piegarsi ad un’efficace espressione dei sentimenti che agitano il personaggio.

Molto apprezzato anche l’Annio del soprano Raffaella Milanesi, elegante in scena nonostante il costume pagliaccesco ma anche nel canto ricco di personalità, morbido ed espressivo, a parte qualche occasionale asprezza in alto.

Il soprano francese Julie Mathevet è una Servilia dolce ed aggraziata come si conviene, un filo asprigna nel timbro ma nel complesso più che adeguata, ad onta di costumi che la trasformano in una goffa ragazza di provincia dei nostri anni ’50.

Luca Dall’Amico è un Publio di lusso per la robustezza e la consistenza della sua presenza scenica e vocale. Forse dovrebbe frequentare di più questo repertorio, che gli si adatta molto, specie se eviterà qualche emissione un po’ brusca, un po’ ruvida, e cercherà più spesso quel canto morbido e rotondo che dimostra di possedere nel suo bagaglio tecnico.

Detto dell’ottimo apporto del coro guidato da Claudio Marino Moretti e del maestro al cembalo Roberta Ferrari, non resta che registrare, alla serale cui si riferiscono queste note, un caldo successo tributato allo spettacolo nel suo insieme da un teatro quasi pieno (anche questo è un successo!) nonostante la pioggia battente e l’acqua alta.

Adolfo Andrighetti

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