Al Malibran vita di campiello, fra barufe, bevue e nostalgia
Venezia, dunque, ma non una Venezia qualunque o una Venezia storica, ma quella reinventata da Goldoni, certo realistica ma di un realismo sereno e soffice come un bel sogno; per il musicista, non più un luogo fisico ma una dimensione ideale, un mondo ove si può guardare con bonomia ai difetti umani senza condividerli ma anche senza condannarli, considerandoli con una affettuosa ironia che nasconde un che di nostalgico per un modo di vita più semplice e sereno forse mai esistito ma non per questo meno desiderato. Così il sentimento che Wolf Ferrari nutre per la sua Venezia si apparenta a quello di Richard Strauss verso la Vienna di Maria Teresa: altra città idealizzata e guardata con nostalgia in quanto proiezione di quella esigenza di pace e di armonia che il musicista bavarese sentì la necessità espressiva di identificare geograficamente e storicamente, come si evidenzia soprattutto ne “Il cavaliere della rosa”.
La novità rispetto alle precedenti opere di ispirazione goldoniana è che, questa volta, la Venezia messa in scena non è quella della ricca borghesia mercantile amabilmente presa in giro ne “I quatro rusteghi”, né quella de “La vedova scaltra”, rappresentata con successo alla Fenice nel carnevale del 2007, ambientata in un contesto ancora più altolocato nonostante la presenza grossolana e dissacrante di Arlecchino. E’, invece, una Venezia popolare, intrisa di umori spontanei, volgari, vivacissimi, non decantati attraverso la mediazione della cultura o della educazione; quindi ancora più caustici e più sapidi, così come si incrociano e si mescolano nelle conversazioni e nelle baruffe del campiello, microcosmo ove si vive una promiscuità sopportata non meno che desiderata, se è vero che l’essere umano cerca la compagnia dei propri simili se non altro per poterne parlar male.
Ne deriva che non è tanto importante conoscere la trama, giudicata esile dallo stesso Goldoni, tradizionalmente imperniata su tre coppie che si compongono, si scompongono e poi si uniscono definitivamente nel lieto fine; né soffermarsi sui singoli personaggi, delle macchiette peraltro riuscitissime di un certo popolino veneziano “cassafati”, cioè pettegolo e anche un po’ intrigante ma poi sempre capace di recuperare la dimensione semplice ed umana della vita.
Importante, invece, è abbandonarsi all’atmosfera di rito collettivo che caratterizza la piazzetta veneziana, ove le individualità, per quanto divertenti e centrate, finiscono però per confluire in un’unica polifonia il cui protagonista alla fine è il campiello stesso, crogiuolo di ciacole, barufe e amori: di umanità, insomma.
L’opera di Wolf Ferrari è stata portata sul palcoscenico veneziano del Malibran provenendo dal Teatro Sociale di Rovigo, nell’ambito del progetto “I teatri del Veneto alla Fenice”. Il maestro Stefano Romani, alla guida dell’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta e del Coro Lirico Veneto, ne dà una lettura corretta e comunicativa. Non è sempre in grado, però, di conferire al suono quella trasparenza, quella delicatezza, quel colore ora ironico ora sentimentale, che costituiscono la tinta dominante della tavolozza pastellata di Wolf Ferrari. Ciò nonostante, l’arguto e abile intreccio sonoro si conferma godibile nella sua delicata espressività, che evita ogni sperimentalismo per parlare un linguaggio schietto ma elegante, pulito, armonioso, il più adatto ad evocare non solo la vitalità del campiello ma anche la sottile nostalgia che ne promana.
Lo spettacolo, dovuto alla regia di Paolo Trevisi e arricchito dagli appropriati movimenti coreografici di Claudio Ronda, è intonato alla musica: garbato, tradizionale, privo di esagerazioni e forzature, si limita a raccontare con il giusto ritmo la vicenda, divertendo senza troppe pretese. L’impianto scenografico descrive con grazioso realismo un tipico campiello veneziano: sul fondo la locanda, ai lati le facciate delle case con i balconi necessari per le apparizioni dei diversi personaggi. Intonati anche i simpatici costumi d’epoca.
Nel cast brillano le interpreti femminili, a cominciare dalla deliziosa Gasparina del soprano Claudia Pavone, che offre un ritratto credibilissimo, tenero ed ingenuo insieme, della ragazza squattrinata ma con delle pretese, “caricata” secondo la definizione goldoniana, che si esprime in dialetto ma ritiene disdicevole tutto quel profluvio di “esse” che lo ingentilisce, sostituendole sistematicamente con la “zeta”. Ne esce un eloquio buffissimo, affettato e tenero nello stesso tempo, cui l’artista conferisce non solo la sua grazia di giovane donna ma anche un timbro morbido, dolce, sano ed un’impostazione vocale corretta.
Gasparina ci introduce agli unici personaggi che si esprimono in italiano, in “toscano” come dice lei: il severo Fabrizio, suo zio, in grado di maritarla con una discreta dote, e il cavalier Astolfi, nobilotto napoletano, che ha sperperato il suo ma ora vuole mettere la testa a posto sposando Gasparina e rimpannucciandosi con la dote di lei. Il matrimonio naturalmente si farà e sarà uno dei tre che chiuderanno in gloria “Il campiello”, perché la vita vince sempre e ha in sé un bene che neppure la sgraziata pesantezza umana può eliminare. Le due caratterizzazioni, dovute quella di Fabrizio al basso Gabriele Bolletta e quella di Astolfi al baritono Maurizio Leoni, sono nel complesso azzeccate, nonostante i limiti vocali dei due artisti. Si fa preferire, comunque, la voce piccola ma ben impostata del basso rispetto all’emissione spigolosa e disomogenea del baritono.
Ma torniamo ai personaggi dialettali. Le figure più gustose e divertenti sono le due “vecchie”, Dona Pasqua Polegana e Dona Cate Panciana. In realtà, essendo madri la prima della sedicenne Gnese, la seconda della diciottenne Lucieta, non possono essere troppo avanti negli anni. Infatti sono soltanto sulla quarantina e, già vedove, coltivano dei buffi progetti matrimoniali anche per se stesse, senza badare troppo alle menomazioni fisiche che già incominciano ad accusare. Inutile dire che, quando c’è da far festa, sono le prime, finendo per alzare troppo il gomito. Insieme formano una coppia comica affiatata, depositaria del più genuino spirito del campiello, fra aggressività plebea e calda umanità. Sul palcoscenico del Malibran ne sono interpreti i tenori Max René Cosotti (Dona Cate) e Gregory Bonfatti (Dona Pasqua). Il primo spende con nonchalance gli ultimi spiccioli di una voce logorata da una lunga e prestigiosa carriera. Il secondo dà un’interpretazione più centrata e precisa del proprio personaggio, visto come una donna chiusa e scorbutica, a creare un felice contrasto con la Dona Cate genericamente bonaria proposta da Cosotti. Bonfatti si avvale anche di una vocalità ancora fresca e comunque adatta al ruolo.
Le due coppie giovani vedono in primo piano la Lucieta piena di verve, ma anche trepidante e a tratti capace di incisivi accenti drammatici del soprano Anna Viola, alle prese con un personaggio sfaccettato perché in bilico fra il consueto brio popolaresco e un probabile destino da moglie maltrattata, destino che sembra accettare con mesta rassegnazione. Del suo manesco e truce fidanzato, il merciaio Anzoleto, il baritono Italo Proferisce dà una caratterizzazione nel complesso efficace e convincente. Adeguata anche la Gnese del soprano Carolina Lippo, nonostante una zona acuta alquanto pigolante. Il suo Zorzeto è Giacomo Patti, tenore vocalmente dotato ma che si lascia di tanto in tanto prendere la mano da qualche emissione forzata e stentorea, di un gusto verista fuori luogo.
Bene, infine, l’Orsola del mezzosoprano lituano Julija Samsonova Khayet, dalla piacevole, rotonda vocalità, e dalla appropriata presenza. Il suo è un personaggio marginale ma indispensabile nel contesto del campiello, dove la presa in giro grossolana fa parte del colore locale. Orsola, infatti, fa la fritolera, cioè la fabbricante e la venditrice di frittole, e, durante i frequenti alterchi in campiello, capita che si alluda con malcelato disprezzo al suo mestiere. Del resto si sa che cosa rappresenta la fritola, ora come allora, nello scherzo salace dei veneziani. Per cui, una donna che fa di mestiere la fritolera si espone a facili battute: dal vendere fritole al vendere...la fritola il passo è breve.
Alla pomeridiana cui si riferiscono queste note l’attempato pubblico è rimasto forse disorientato dalla sorprendente mancanza della proiezione del testo cantato e quindi dalla impossibilità di seguire con la necessaria cura il sapido testo goldoniano adattato per le esigenze della musica da Mario Ghisalberti. Ma l’espressione del gradimento alla fine non è mancata.
Adolfo Andrighetti
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