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Al Malibran l’artista che guadagna il mondo ma perde se stesso

03/04/2014
Al Malibran l’artista che guadagna il mondo ma perde se stessoE’ lecito all’artista, in nome del genio creativo che ha ricevuto in sorte, dimenticare la propria appartenenza al genere umano e il legame di solidarietà che lo unisce ai propri simili, al punto da usarli come meri strumenti per la realizzazione dell’opera sublime? Gli è consentito prevaricare il prossimo fino a smarrire anche se stesso, esaltandosi e insieme annullandosi nella perfezione della creazione artistica, che a quel punto si presenta non più come espressione di una Bellezza assoluta ma come un buco nero che assorbe ogni barlume di vita reale?

Sono queste le domande, per lo meno le più immediate, che suscita il poeta Mittenhofer, il protagonista dell’opera “Elegy for young lovers” di Hans Werner Henze su libretto di Wystan Hugh Auden e Chester Kallman, rappresentata per la prima volta allo Schwetzinger Festspiele il 20 maggio 1961 ed ora sul palcoscenico, sperimentale e stimolante, del Teatro Malibran.

Mittenhofer, in effetti, sembra impossibilitato ad intrattenere relazioni umane normali, perfettibili quanto si vuole ma improntate al riconoscimento della dignità propria e altrui. Le persone che lo circondano sono asservite alla sua sovrumana volontà di potenza artistica, risucchiate in un vortice distruttivo che le annulla nel loro valore umano. Così è Carolina, la matura segretaria innamorata di lui e da lui bistrattata; così è il medico personale, Reischmann, dispensatore di pillole miracolose in grado di conservare l’eterna giovinezza al vate; così la giovane amante Elizabeth. E così, prima di tutti, Hilda Mack, una povera donna demente, che, in un albergo sulle alpi austriache in cui è ambientata “Elegy”, attende da quarant’anni il ritorno del suo sposo, partito il giorno delle nozze per prendere una stella alpina da offrirle quale pegno d’amore e scomparso nella tormenta; le deliranti visioni di Hilda, infatti, costituiscono la principale fonte di ispirazione per il sommo poeta, che, senza quel patologico contributo, non sarebbe in grado di animare le ardite fantasie su cui ha costruito la propria celebrità.

Ma improvvisamente la realtà sembra far valere i propri diritti, sconvolgendo il delirio di onnipotenza di Mittenhofer: il ritrovamento sulla montagna del corpo del marito di Hilda fa ritrovare alla vedova l’equilibrio, privando il grande poeta della sua pietosa fonte di ispirazione; nello stesso tempo anche Elizabeth sembra sfuggire al suo controllo, innamorandosi di Toni, il figlio del medico. Ma proprio quando la perfetta macchina umana costruita a sostegno della sua gloria dà segni di cedimento, l’assoluto egoismo di Mittenhofer si impone in tutta la sua mostruosa grandezza. Il poeta, fingendo distacco di fronte all’amore dei due giovani, li convince ad andare a cercare una stella alpina sull’Hammerhorn, la cima fatale anche al marito di Hilda: un aiuto “simbolico” ma non per questo meno necessario per concludere il suo ultimo poema, “I giovani amanti”. I due vanno, ingannati dall’atteggiamento conciliante del genio, e trovano la morte nella bufera che si è scatenata, mentre Mittenhofer tranquillizza la guida alpina, che gli chiede se qualcuno si sia avventurato sulla montagna con quel tempo, comunicandogli che dall’albergo non si è mosso nessuno. In realtà è proprio di quella morte che il poeta ha bisogno per terminare il poema; e l’ultima scena dell’opera vede Mittenhofer, in un teatro di Vienna, dare una lettura pubblica della sua “Elegia per giovani amanti”, una lettura che, enigmaticamente, si risolve soltanto in musica, con le soluzioni melodiche, timbriche ed armoniche legate a ciascun personaggio della vicenda.

L’opera d’arte perfetta, insomma, in qualche modo è stata creata ed è giunta fino a noi, talmente sublime che le parole risultano troppo rozze e pesanti per esprimerla; solo i suoni possono comunicarne l’essenza ineffabile. Ma quale il prezzo per tanta grandezza? Il vuoto di esistenze prive di senso, il nulla di identità smarrite. E non può non ritornare alla mente l’ammonimento evangelico, segno di una superiore misericordia che riconcilia gli uomini prima di tutto con se stessi quando si credono come Dio in una furiosa e distruttiva corsa all’autoaffermazione: che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde se stesso?

Oppure l’afasia di Mittenhofer, sostituita dalle voci e dai suoni che hanno accompagnato la sua esistenza, sta a indicare il suo fallimento non solo come uomo ma anche come artista: l’incapacità di comunicare e soprattutto di comunicarsi del primo si trasforma alla fine nella paralisi anche del secondo, svuotato a tal punto della propria identità da non riuscire a pronunciare nemmeno una parola. E sembra questa la scelta adottata nello spettacolo del Malibran, che vede uscire di scena Mittenhofer come uno sconfitto, a testa bassa, stordito da quelle voci e da quei suoni che gli ricordano il prezzo pagato in termini umani per un’opera d’arte che adesso non riesce neppure a sillabare.

“Elegy for young lovers” è in scena al teatro Malibran nella versione inglese pubblicata nel 1961 e secondo la revisione definitiva operata dall’autore nel 1987, presentata quest’ultima per la prima volta proprio alla Fenice nel 1988; una revisione che prevede fra l’altro l’eliminazione della scena d’amore fra Elizabeth e Toni subito prima che vengano travolti dalla bufera di neve. L’allestimento, qui riproposto da Massimo Gasparon, è quello portato nel 2005 da Pier Luigi Pizzi al Teatro delle Muse di Ancona e vincitore lo stesso anno del Premio speciale della critica musicale “Franco Abbiati”. Un premio assolutamente meritato per la piena aderenza al contesto culturale in cui si sviluppa l’opera, caratterizzato, come lo stesso Henze aveva indicato, da accentuate connotazioni psicologiche, che costituiscono le dinamiche attorno alle quali e in conseguenza delle quali si sviluppa la vicenda.

Pizzi, infatti, immagina un’ambientazione astratta e stilizzata, ove i pochi elementi realistici (scrivania, poltrona, tavolinetto...), che individuano lo studio del maestro e della sua segretaria, sembrano come sospesi nel vuoto e quindi accentuano l’impressione di straniamento anziché attenuarla. Lo spazio è definito da una pedana ascendente che sale verso ciò che potrebbe essere la balconata dell’albergo, che guarda verso le montagne; in realtà, è un’apertura verso il vuoto, verso un orizzonte incerto e lattiginoso che solo di tanto in tanto mostra dei profili che potrebbero essere quelli delle vette, ma più spesso si presenta come un nulla cosmico pronto ad inghiottire non tanto il marito di Hilda Mack o i due giovani amanti, che ne sono vittime solo fisiche, quanto chi, come il poeta, lo ha abbracciato in nome della propria autoglorificazione. Le spettrali silhouette di alberi che si proiettano sullo sfondo di questo universo nebbioso ne accentuano l’inquietante vaghezza anziché attenuarla. Dietro la ringhiera, che delimita la scena ai lati e sullo sfondo e separa il palcoscenico dall’orizzonte sconfinato, la vita quotidiana può svolgersi secondo le consuete regole rassicuranti; ma si tratta di una protezione fragile fino al punto di essere fittizia, il nulla esterno sta già invadendo l’universo reale e annebbiando l’io dei protagonisti, a cominciare da quello di Mittenhofer, alienato dal proprio delirio di onnipotenza.

Molto riuscita infine, secondo la cifra tipica di Pizzi, la scena della tempesta di neve che inghiotte Elizabeth e Toni, con la coltre bianca in movimento rappresentata da un semplice telo agitato ad arte da due figuranti: mezzi semplici, ma risultato convincente.

All’interno di questo spazio così simbolicamente allusivo gli interpreti si muovono con una proprietà e vivacità e ricchezza di atteggiamenti che non è sempre frequente in Pizzi, regista che talvolta è accusato, e con argomenti non peregrini, di rimanere legato alla propria provenienza di scenografo e di non dedicare alla caratterizzazione dei personaggi la stessa attenzione che riserva alla ricostruzione d’ambiente. Ma questa volta non è così, per cui lo spettacolo, arricchito dagli impeccabili costumi che lo collocano all’inizio del secolo scorso e ben assecondato dalle luci di Vincenzo Raponi, si presenta come uno dei più riusciti fra quelli messi in scena da Pizzi durante il suo ammirevole percorso artistico.

“Elegy for young lovers” si è avvalsa, al Teatro Malibran, di un’esecuzione musicale di alto livello. Il maestro inglese Jonathan Webb si dimostra padrone del frammentario materiale musicale costruito da Henze e controlla con sicurezza, soprattutto nei numerosi e complessi pezzi d’insieme, il rapporto, sempre arduo in questo repertorio, fra il palcoscenico e la concentrata orchestra della Fenice, nella circostanza presente in dimensioni ridotte, potremmo dire britteniane.

Ammirevole per la preparazione, l’impegno e le doti artistiche la compagnia di cantanti/attori assemblata dal Tetaro. Nel ruolo di Gregor Mittenhofer, studiato per la straordinaria duttilità vocale e l’imponente statura interpretativa di Dietrich Fischer-Dieskau, il baritono Giuseppe Altomare è credibile e convincente. Il carisma diabolico dell’inquietante personaggio ma anche la sua subdola meschinità, trovano i giusti accenti nella voce scura e di bella pasta baritonale dell’artista, capace di padroneggiare l’estesa tessitura del ruolo. Anche la presenza scenica è quella giusta, quasi ieratica in una veste nera dalle vaghe reminiscenze sacerdotali.

Altrettanto impegnativo è il ruolo di Hilda Mack, la cui alterazione mentale è rappresentata, secondo la migliore tradizione del melodramma italiano, da un canto ricco di impervie fioriture. Ne è interprete sicura il bravissimo soprano Gladys Rossi, che per di più padroneggia il palcoscenico con una presenza efficace ed incisiva.

Del tutto a posto anche gli altri. Il baritono Roberto Abbondanza, un punto di riferimento nell’esecuzione del repertorio contemporaneo, è del tutto a proprio agio nei panni del dottor Wilhelm Reischmann, il medico umano, bonario, ma in fondo anche lui succube della presenza prevaricante del poeta. Il soprano ucraino Olga Zhuravel è felicemente impegnata nell’interpretazione di un personaggio difficile per i risvolti psicologici che lo caratterizzano e l’intenso declamato che gli è richiesto, cioè Carolina, sfruttata, umiliata dal genio eppure a lui patologicamente fedele al punto da rendersi sua complice nel permettere la morte dei due amanti. Questi ultimi sono interpretati con ottimi esiti dal soprano praghese Zuzana Markova e dal tenore statunitense John Bellemer, efficaci sul piano vocale quanto su quello scenico nella resa di due personaggi contraddistinti da una dimensione lirica di delicata cantabilità, che li avvicina ancora una volta alla tradizione del melodramma romantico italiano. Tutti gli interpreti vanno comunque accomunati in un unico elogio per la preparazione musicale e la duttilità dimostrata nell’affrontare con eccellenti esiti artistici una vocalità impervia in continua evoluzione dal canto vero e proprio al declamato al parlato.

Alla pomeridiana cui si riferiscono queste note il pubblico, abbastanza numeroso, ha accolto con cordialità la proposta, nonostante le due ore e un quarto di musica si siano svolte senza intervallo.

Adolfo Andrighetti

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