Tosca alla Fenice: la bellezza ci salverà
Sardou era un vecchio marpione del palcoscenico, capace di tenere in pugno il pubblico e di farlo vibrare d’emozione a suo piacimento. La sua Tosca, se non è un capolavoro, è almeno un prodotto di alto artigianato, per l’abilissima articolazione dell’intreccio, la vitalità e il rilievo conferito alla protagonista e a Scarpia, e anche, strano a dirsi, la vivacità dei dialoghi, caratterizzati da un tono brillante di conversazione tipico della commedia, punteggiato qua e là anche da qualche tocco di umorismo. Puccini preferì la strada della semplificazione e scelse come unico pedale, pigiato a più non posso fino al limite del noir, quello del dramma; ma non si può fare a meno di pensare a quali originali soluzioni sarebbe potuto arrivare se fosse stato più coraggioso e, assecondando questa vena “leggera” che Sardou conservava nelle proprie corde dal suo passato di scrittore di vaudeville, avesse giocato su più toni e sull’ambiguità della vita, in cui tragedia e commedia talvolta si alternano e si confondono.
Per il resto, la Tosca di Puccini è nel complesso fedele a quella di Sardou, anche se alcune differenze esistono e sono tutt’altro che banali. Nel dramma in prosa, ad esempio, è più evidente lo scarso rilievo attribuito a Cavaradossi rispetto a Tosca e Scarpia; una debolezza drammaturgica compensata nell’opera dalle splendide melodie assegnate al tenore. Il barone, invece, lo ritroviamo con la stessa diabolica imponenza in Sardou come in Puccini: una personalità complessa e contraddittoria, nella quale l’aplomb del nobile, consapevole della dignità che gli conferisce la nascita, si unisce alla fredda lucidità dell’abile poliziotto, alla depravazione sessuale e alla superstizione religiosa.
Tuttavia Sardou, a differenza di Puccini, immagina uno Scarpia in disgrazia, la cui ultima carta per salvare la carriera e forse la vita è rappresentata dall’arresto di Angelotti. Lo Scarpia di Puccini, quindi, è ancora più diabolico, perché la crudeltà con cui perseguita Cavaradossi e Tosca trova ragione solo in se stessa oltre che in un patologico sadismo, mentre Sardou le fornisce una motivazione “normale”, legandola ad una prova d’appello che il capo della polizia non può fallire.
Due punti, infine, vanno evidenziati, perché in essi Puccini e i suoi collaboratori surclassano Sardou. Il primo riguarda ancora Scarpia, le cui macchinazioni a danno di Tosca sono ambientate da Puccini in una chiesa, ove il contrasto fra sacralità dell’ambiente, solennità del Te Deum e la minacciosa, oscura presenza del capo della polizia, costituisce un effetto drammatico di geniale efficacia. Sardou, invece, immagina che Scarpia concupisca Tosca durante una festa; una situazione banale, anche se vivacizzata dalle fantasie erotiche a sfondo sadico del barone, che confida alla cantante che vorrebbe tenerla prigioniera in una segreta di Castel Sant’Angelo, sottoponendola anche a tortura.
L’altro punto in cui l’opera supera in immaginazione e creatività il dramma in prosa si registra quando Sardou, dopo aver arricchito di musiche fuori scena la festa a Palazzo Farnese, la interrompe con la notizia della vittoria di Napoleone a Marengo prima che Tosca possa intonare la sua cantata. Puccini, invece, taglia la scena della festa, ma sfrutta fino in fondo, con un risultato di straordinaria efficacia, l’occasione musicale e drammatica offerta dalla cantata. Com’è noto, infatti, la voce di Tosca echeggia fuori scena all’inizio del secondo atto, mentre Cavaradossi sta per essere interrogato da Scarpia, che chiude la finestra per non essere disturbato. E’ un momento affascinante e inquietante insieme, perché bellezza e dolcezza del canto sembrano frenare ancora per un momento l’orrore che sta per dilagare. Ma il barone chiude la finestra; si oppone, cioè, all’ingresso nel suo mondo, definito da lui stesso poco più avanti ”luogo di lacrime”, di questa nota di armonia e di umanità. Le tenebre non possono accogliere la luce e la voce di Tosca, che suscita la commozione di Cavaradossi, viene zittita: nel mondo di Scarpia possono risuonare solo le urla dei torturati.
La netta contrapposizione fra l’orribile realtà al cui centro domina il capo della polizia romana e la dimensione fatta di arte e di amore in cui si muove Floria, è l’assunto che sta alla base della regia di Serena Sinigaglia per “Tosca” in scena alla Fenice. E’ uno spettacolo forte, esplicito, di potente impatto teatrale, che affronta a petto in fuori il rischio dell’enfasi e ne esce nel complesso vincitore, complice anche la direzione gagliarda e impetuosa di Daniele Callegari, che muove la musica in perfetta sintonia con il palcoscenico.
L’azione si svolge in mezzo alle rovine (le scene sono di Maria Spazzi), a simboleggiare un mondo, quello della oppressione e della prevaricazione incarnato da Scarpia, che si sta disgregando. Sono soprattutto i pavimenti a cedere, attraversati da crepe che talvolta si allargano come voragini: quello della chiesa di Sant’Andrea della Valle, ma anche quello dello studio di Scarpia, dominato da un grande tavolo che sprofonda verso il basso, pronto ad accogliere le vittime della sua concupiscenza. E su sfasciumi di rocce siedono i prigionieri a Castel Sant’Angelo, in attesa della loro sorte; fra loro, anche Cavaradossi.
Tutto lo spettacolo, del resto, è impostato per mettere in risalto la negatività del mondo di Scarpia, luogo del male, delle tenebre, del nulla. Quando in scena c’è il barone, domina il buio, il colore nero (eloquenti ed incisive le luci di Alessandro Verazzi, del tutto funzionali allo svolgimento del dramma) e un senso di gelo, di angoscia, comincia a serpeggiare, prontamente sottolineato dalle sonorità tempestose che Callegari cava dalla buca dell’orchestra. Alla realizzazione dell’effetto complessivo giovano anche i bellissimi costumi d’epoca di Federica Ponissi, che fa rivivere con grande realismo le atmosfere di un mondo molto formale, nel quale al ruolo corrispondeva un abito, parte costitutiva dell’identità della persona.
L’oscurità che promana dalla figura stessa di Scarpia si ritira davanti ad una luce radiosa, quasi accecante, dalle colorazioni pastello, quando Tosca e Cavaradossi si ritrovano dopo la morte del barone e inneggiano non solo all’amore e alla libertà, ma anche a quelle armonie di canti e di colori che ora potranno offrire al mondo, dando vita finalmente a quella dimensione di bellezza e di felicità cui i loro cuori aspirano. Sarà una parentesi fugace, come sappiamo, e alla fine non resterà che il suicidio come forma estrema per affermare quel desiderio di armonia umana ed artistica che viene anche oggi così spesso soffocato.
Uno spettacolo, insomma, pienamente riuscito, robusto, concreto, che sa dove vuole arrivare e ci arriva con chiarezza ed efficacia, senza confondere le idee con inutili cerebralismi; uno spettacolo ricco di teatralità, capace di comunicare al pubblico ed entrare con lui in empatia. Certo, la regia si butta a capofitto nel dramma, senza temere quell’enfasi e quella esteriorità che la vicenda di “Tosca” sembra implicare quasi inevitabilmente. Basti pensare alla recitazione caricata, quasi esasperata, della protagonista; una maggiore misura gestuale, invece, avrebbe permesso di esprimere emozioni e sentimenti con più efficacia, perché la sobrietà può essere più eloquente dell’esteriorità. Se a ciò si aggiunge l’impeto a la foga con cui i momenti topici dell’opera vengono sostenuti dal podio, il rischio è quello di una “Tosca” fin troppo “Tosca”, melodrammatica senza vergogna, certo trascinante ma forse un po’ esteriore.
Come si accennava, la lettura di Daniele Callegari sul podio si sposa perfettamente con la concezione registica di Serena Sinigaglia. La sua, infatti, è una direzione impetuosa, a tratti anche fragorosa, che valorizza l’orchestra a scapito delle voci, talvolta soverchiate dalle ondate sonore provenienti dalla buca. Ma non vi è dubbio che l’intensità drammatica dell’opera ne viene sottolineata al massimo, con effetti anche travolgenti ed emozionanti. Nessun colpo di teatro viene, sotto questo aspetto, mancato, a cominciare, tanto per portare un esempio, dall’ingresso di Scarpia nella chiesa di Sant’Andrea della Valle nel primo atto; un ingresso che Callegari accompagna con una forza ed un’intensità da brividi.
La Tosca del soprano Susanna Branchini è la figlia legittima della regia e della direzione d’orchestra: è un personaggio sopra le righe, dalla vocalità aggressiva e talvolta aspra, che comunque, così ardito e temperamentoso, possiede una sua efficacia e una sua credibilità.
Cavaradossi, l’aitante tenore Lorenzo Decaro, possiede materiale interessante, che si valorizza soprattutto nelle zone centrali della tessitura. Man mano che si sale, infatti, l’emissione perde fluidità e morbidezza, mentre gli acuti risultano schiacciati e quindi poveri di squillo. Su questi presupposti, anche il fraseggio non può avere quella varietà ed incisività che si richiederebbero, come denuncia “O dolci mani”, ove il gioco dinamico è insufficiente.
Lo Scarpia del baritono Angelo Veccia solo di tanto in tanto riesce ad essere incisivo ed eloquente, causa una vocalità un po’ attutita che fatica a fare il giro della sala e richiede di essere spinta per raggiungere apprezzabili livelli dinamici.
Convincente, secondo il cliché tradizionale, il Sagrestano del baritono italo-spagnolo Enric Martinez-Castiglioni. Eppure, una volta nella vita, sarebbe consolante vedere questo ruolo interpretato non secondo l’usuale stereotipo della macchietta viscida e tremebonda, ma con un po’ di umanità vera. In fondo, non è che un lavoratore alle dipendenze di un potere troppo grande per lui, un umile subordinato né migliore né peggiore di altri: sarebbe bello se qualche regista ne riscoprisse il tratto umano.
Adeguato l’Angelotti del giovanissimo (classe 1991!) basso Cristian Saitta. Ma lavori per rendere più morbida e duttile l’emissione, non si può tuonare sempre, altrimenti si rischia l’effetto “cuoca di Creonta” in ogni produzione. Efficace nella resa teatrale del personaggio, molto ben riuscito, ma vocalmente rivedibile lo Spoletta del tenore Cristiano Olivieri. Come sempre di apprezzabile professionalità il baritono Armando Gabba come Sciarrone. Un abbraccio affettuoso al piccolo Ludovico Furlani, pastorello dal bel timbro ma dagli attacchi avventurosi e dall’intonazione approssimativa.
Il pubblico, trattandosi di “Tosca”, ha ovviamente gradito, possedendo l’opera argomenti musicali e teatrali che strapperebbero l’applauso in qualunque circostanza; ma certe claque troppo rumorose ed insistite rischiano di essere controproducenti.
Adolfo Andrighetti